Elogio della Lentezza (e della Pazienza)

Lo sviluppo delle conoscenze influenzano  il funzionamento del cervello spingendolo a modificarsi nella direzione richiesta dall’attrezzo o apparecchiatura inventati. L’innovazione “digitale” ha quindi contribuito a spiazzare quanti non sono riusciti a mantenersi al passo coi tempi per cogliere quella che, per certi versi, va considerata un’opportunità e, per altri, un ulteriore “disagio” della civilizzazione.

L’uso delle dita su di una tastiera (di cellulari, smartphone, tablet…), in particolare del pollice e dell’indice, le ha elevate al rango di principali dispositivi di comunicazione artificiale, promuovendone di conseguenza una maggiore rappresentazione a livello della corteccia cerebrale.

Così, come il non uso induce atrofia, l’impiego continuativo d’un arto determina l’aumento della sua configurazione sulla mappa encefalica dell’area funzionale motoria. È il caso singolare della mano sinistra di quei musicisti che con essa devono sostenere lo strumento (tipo il violino) e trovare poi le note sulle corde. Si tratta d’una sorta d’ibridazione tra utensile adoperato e struttura cerebrale irrimediabilmente tesa a innescare un cambiamento in quei processi di plasticità neuronale coinvolti nella specifica funzione svolta. Cambiamenti di tipo lamarckiano, comunque, ristretti all’individuo e non ereditabili, come quelli che possiamo osservare nelle ultime generazioni, le quali hanno imparato a ristrutturare il linguaggio in modalità più rapida e sintetica, per meglio adeguarsi al percorso temporale dettato dall’interazione con apparecchiature digitali, le quali intervengono, con correzioni e proposte, e persino con una propria ritmicità spaziale, sull’espressione stessa del pensiero dell’operatore.

È quel medesimo meccanismo per cui, durante l’apprendimento d’una lingua straniera, si è naturalmente portati a formulare idee direttamente in quell’idioma. E già la stimolazione magnetica transcranica sarebbe in grado, a seconda della frequenza, di inibire o eccitare l’attività neuronale e di suscitarne riorganizzazioni funzionali.

L’era digitale, in cui stiamo vivendo, sembra connotarsi, in relazione ai mezzi di comunicazione, per essere quella del “discreto”, “rapido”, sintetico, frammentario, frantumato nella molteplicità dei codici individuali. Laddove “analogico”, in informatica ed elettronica, rappresenta invece una netta continuità nell’emissione, riproduzione e ricezione dei messaggi. L’entrata in funzione di questo sistema più “lento”, diviene riconoscibile da quella  minima dilatazione della pupilla che accompagna lo sforzo d’attenzione e concentrazione.

Lamberto Maffei, in “Elogio della Lentezza” (il Mulino, Bologna 2014), chiama “tempo per prendere coscienza” quello che necessariamente deve intercorrere tra l’attivazione delle aree sensoriali e l’acquisizione  del dato trasmesso, a volte della durata di più di mezzo secondo. Per ciò che riguarda la salienza dell’informazione, il sistema lento influenza anche quello rapido, per il tramite dell’eccitazione o inibizione delle attività corticali poste in essere dai sistemi a proiezione diffusa, quali l’adrenergico, il colinergico e il serotoninergico.

Quanto più è plastico tanto maggiore risulta la funzionalità del sistema nervoso lento, perché esso segue quei meccanismi complessi, comprendenti relazioni tra aree corticali e sottocorticali, implicati nelle capacità cognitive più sviluppate, come attenzione, memoria, volontà. Appare dunque come un elaboratore statistico costantemente assorto nella valutazione dei dati a disposizione, pure di quelli suggeriti dall’intuizione, e tutti da verificare oculatamente.

Del resto, la compiutezza del pensiero umano si organizza dapprima nella fantasia delle libere associazioni, per predisporsi poi in immagini da sottoporre all’analisi della logica. Le intuizioni  possono essere davvero istantanee e improvvise, ma il lavoro associativo che le ha precedute, ben prima della loro concretizzazione potrebbe non essere stato altrettanto veloce. Per favorirle pertanto i circuiti nervosi coinvolti devono dimostrarsi modulabili al massimo della loro funzione ed essere plastici anche nella stessa struttura. Un cervello pronto alle libere associazioni è più predisposto a formulare ipotesi degne d’essere adeguatamente approfondite.

L’improvviso emergere d’un’idea spontanea assume così l’aspetto del tipo “rapido” di pensiero. Ma, in effetti, le risposte davvero rapide corrispondono invece ai riflessi polisinaptici complessi, tipo il condizionamento pavloviano. E con tutto ciò i circuiti che ne stanno alla base possono ancora venire modulati dalla volontà.

Le risposte del cervello alle entrate sensoriali impiegano circuiti nervosi ancora più veloci, precisi, uguali in tutti gli individui della medesima specie. Sono i riflessi innati, o precocemente acquisiti, come il fotico o il patellare, che richiedono il coinvolgimento d’un limitato numero di sinapsi. Risposte automatiche che bypassano la coscienza e non sono soggette alla plasticità del sistema nervoso, il quale su di loro non esercita la proprietà di modificarle in seguito all’esperienza.

Le sensazioni primarie di paura, rabbia, gioia, disgusto rientrano in queste reazioni automatiche espresse dalla stessa mimica facciale che tutte le popolazioni hanno in comune. Le risposte del cervello all’ambiente dimostrano d’essere universali, oltre che veloci, perché ontogeneticamente e filogeneticamente predeterminate dal loro stretto legame alla sopravvivenza. E fino allo sviluppo della comunicazione linguistica, questo tipo di reazioni è quello che assolutamente prevale nel bambino. Allorquando subentra poi il controllo volontario e ove il contesto lo renda possibile, i rapporti con l’ambiente e con gli altri individui vengono regolati dalla disponibilità di tempo e da scelte effettuate con la modalità lenta del pensare.

 

Il linguaggio rientra in un’attività motoria interna in uscita. Come i gesti, le parole dapprima devono acquisire senso secondo la loro particolare sequenza. Anche gli impulsi nervosi si distribuiscono in serie temporali determinanti ai fini del messaggio. E tale successione temporale comporta un rallentamento della comunicazione tipico dell’emisfero sinistro, quello deputato appunto al linguaggio e per ciò stesso al pensiero razionale e al computo del tempo. Difatti, il linguaggio è la manifestazione esterna del lavorio della “mente”, che pensa pure quando non comunica le sue idee, assorbita come può essere nella risoluzione di problemi, in un raccoglimento creativo o in una semplice momentanea riflessione.

La singolarità evolutiva dell’emisfero sinistro riguarda anche quei circuiti che generano stringhe di eventi concatenati tra loro in modo da rappresentarsi significativamente. Una tale modalità d’elaborazione, se è importante ai fini del ragionamento, del linguaggio e del computo del tempo, differisce sostanzialmente dalla trasmissione visiva che invece necessita d’un netto parallelismo trasmettitoriale, avulso dalla dimensione della durata ma congeniale a quella spaziale, onde fornire le informazioni, tutte insieme e contemporaneamente, sotto forma di immagini appropriate. Seguendo le leggi della Gestalt e secondo l’interpretazione rapida e quasi automatica del mondo esterno, infatti, singoli segnali vengono riuniti in un percetto più complesso, come solitamente avviene con i tre punti non allineati che danno l’impressione del triangolo.

Nel bambino, il gesto precede la parola, come sarebbe avvenuto nel corso dell’evoluzione umana, quando il linguaggio avrebbe completamente rivoluzionato le relazioni tra gli uomini, promuovendo il rafforzamento dei legami sociali.

La comunicazione di eventi necessita d’una sequenza di dati collegati da una logica interna, i cui meccanismi sembrano innati, in quanto costituiscono pure la modalità di funzionamento cerebrale in grado di formulare sia il pensiero esogeno, che le strutture laringee ricoprono della veste dei suoni articolati, sia il pensiero non espresso, ed endogeno.

L’emisfero destro sarebbe muto, sempre però che non gli si richieda di sopperire alle precoci deficienze del controlaterale; per cui, a causa d’una lesione delle aree del linguaggio, la plasticità neuronale d’un bambino spinge le funzioni linguistiche a trasferirsi nelle regioni simmetriche dell’altra parte dell’encefalo.

L’avvento evolutivo del linguaggio s’è impresso indelebilmente nella funzione e nella medesima struttura cerebrale. In corrispondenza dei centri del linguaggio, collocati a sinistra, l’emisfero destro possiede aree che, anteriormente, regolano l’intonazione della voce, la prosodia che fornisce espressività alle frasi e, posteriormente, le avvolgono di emotività. Infatti, l’emisfero destro è anche deputato alla percezione delle componenti emotive dell’informazione visiva, in cui è specializzato. Rispetto al destro, l’emisfero di sinistra si presenta più sviluppato per la prevalente destrimania della popolazione, oltre che per l’area (Wernicke) della comprensione del significato delle parole e di quella (Broca) di produzione e distribuzione delle stesse.

La successione di eventi avvertiti o comunicati avrebbe la sua importante ricaduta sul ragionamento interiore, anche qualora non espresso ad altri. Caratteristiche sequenze assumono significato proprio come tali, traducendosi lentamente in concetti, successivamente sganciati dalla mera funzione di computo della durata. Eppure, la relatività della concezione del tempo è proverbiale, condizionata com’è dal sentimento d’amore o dalla noia, dal gioco lieve o dal faticoso lavoro, persino dalla latitudine.

E così la quantità di luce, d’insolazione, sembra contribuire al positivo rallentamento del pensiero, con conseguente maggiore articolazione del linguaggio. Poi ci sono quelle circostanze totalmente coinvolgenti, di tipo creativo o intellettuale in cui la cognizione del tempo persino si perde.

L’orologio cerebrale, insomma, risulta comunque impreciso, perché facilmente influenzabile già solo dal fattore umorale ed emotivo, per cui l’attesa snervante non avrà mai la stessa definizione d’un analogo trascorso piacevole.

I punti di giunzione neuronale, le sinapsi, fanno passare o meno l’impulso con modalità diverse e la velocità di conduzione delle fibre nervose varia a seconda del loro diametro e della distribuzione della mielina che le riveste. Una costanza di rapporto la presentano il battito cardiaco e la frequenza respiratoria, che restano in ogni caso abbastanza soggettive di per sé. I recettori della vista, attraverso la percezione dello spazio, potrebbero indirettamente fornirci una qualche concezione del tempo, considerandolo come quello necessario a percorrere uno specifico tragitto. Ed essendo questa visiva una funzione dell’emisfero destro, per le peculiarità di quest’ultimo, saremmo indotti a pensare al tempo come a un’intuizione.

 

Il pensiero rapido è decisionista e impaziente, perché non aspetta prima di giudicare o agire. E la concezione del tempo, grazie al sempre maggiore ricorso a questa modalità, ha subìto un profondo cambiamento che va a ripercuotersi sulla socialità, come sulla maniera di pensare. L’accelerazione è ovviamente del tutto innaturale per la sperequazione evidente tra progresso tecnologico e rincorsa frenetica per non farselo sfuggire. Ne hanno risentito le relazioni affettive, che s’interrompono più repentinamente; persino i programmi politici non si preoccupano del lungo periodo, ma del consenso immediato. Sono allora sparite le ideologie che indirizzavano sulle vie da seguire, e con esse le utopie d’ogni genere. Ciò che avrebbe potuto avere effetto curativo, anche se tipo placebo, nel coinvolgere i centri cerebrali di ricompensa, sia a livello suggestivo che illusorio, ha infine perso d’efficacia.

In “Vite di corsa” (2008), Zygmunt Bauman sostiene che il tempo non verrebbe più percepito come continuo, ma saltatorio, in una serie di punti tra loro staccati, privi di correlazione, limitati ognuno a una particolarità, quasi fossero casualmente indipendenti. Una percezione saltatoria squisitamente giovanile, che contrasta nettamente con la continuità biologica degli organismi, la quale, nel risiedere in una progressione verso l’invecchiamento, assicurerebbe persistenza alla memoria. Tant’è che la lenta saggezza degli anziani, piuttosto che nel fascino della narrazione, la società dei consumi preferisce classificarla tra i sintomi del decadimento. Mentre si accetta passivamente il martellamento dei mezzi di comunicazione di massa che inculcano falsi bisogni e perfino opinioni, distaccate dalla realtà, ma a bella posta trasformate dalla mercificazione imperante.

L’economia ha infatti teorizzato che ogni sviluppo va commisurato all’aumento della ricchezza, senza tenere assolutamente in conto la questione della sostenibilità e ovviamente quella altrettanto valida della sobrietà. Una filosofia utilitaristica, che spinge a ricavare risultati immediati da immettere subito sul mercato, incide pesantemente sull’istruzione scolastica, virandola verso gli insegnamenti tecnici e professionalizzanti.

In “Non per profitto” (2010), Martha Nussbaum esprime la sua preoccupazione per le materie umanistiche classiche. Le fa eco Lamberto Maffei (“Elogio della Lentezza”, il Mulino, Bologna 2014), puntualizzando che qualsiasi studio, anche quello delle materie scientifiche, è sempre umanistico. “Esiste forse una disciplina più umanistica della matematica, o dello studio della natura, degli animali e dell’uomo? Le discipline curiosity driven sono tutte umanistiche e non mirano direttamente ad altro prodotto che non sia quello della conoscenza e del gioco gioioso dell’intelletto”.

Bisogna riconoscere che ogni cosa è importante, lo studio e la ricerca, il lavoro e l’impegno, come il gioco e il divertimento, le discussioni e le poesie, o fermarsi a osservare un bel panorama. In questa sobria modestia è riposta tutta la grandezza dell’umanità!

La potenzialità educativa dell’arte e della musica non dovrebbe venire sottovalutata. La storia della musica e dell’arte, già solo con l’approccio alle biografie di tante persone di genio, con le loro peculiarità di vita e le difficoltà incontrate, stanno a dimostrare la varietà dei percorsi individuali e degli atteggiamenti che tendono a sfuggire a una logica conformista. Dal punto di vista pedagogico, l’atto di ribellione può stimolare una ricerca originale, visto che la creatività risulta essere per lo più frutto d’un pensiero irriverente.

Il consumismo nasce dal pensiero irriflessivo, rapido nel cambiare desiderio con il variare delle mode. Maffei lo definisce “asintoto delle aspirazioni”, proprio per la sua assenza di convergenza tra essere e avere o semplicemente apparire.

Se si medita su un acquisto, ci si accorge spesso di non trovarlo realmente indispensabile. Il consumismo in fondo è come una bulimia indotta a compensazione di vuoti affettivi, contrapposta a un’anoressia dei valori e delle idee. Perché il pensiero lento, risultando appesantito dal fardello mnemonico e affaticato dai dubbi e dalle incertezze del ragionare, ha perso ogni attrattiva. Molto più facile farsi ingannare, visto che poi in fondo il piacere è determinato dall’atto del comprare in sé piuttosto che dall’oggetto spesso inutile acquistato. Una soddisfazione proveniente dalla stimolazione dei centri cerebrali di ricompensa, dalla liberazione di dopamina, e pertanto dal nucleo accumbens e dalla parte anteriore del giro cingolato. La coazione a ripetere l’atto per trarne approvazione stimola le aree orbito-frontali e il mancato appagamento suscita ansia, per il coinvolgimento della corteccia limbica e dell’insula. V’è proporzione tra la corsa a guadagnare tempo e quell’oblio che procura, poiché la fretta non è solo cattiva consigliera, ma influisce negativamente sulle facoltà mnesiche.

La globalizzazione ha uniformato interessi, desideri e comportamenti; il linguaggio è stato privato dell’originalità d’espressione e dell’individualità interpretativa, divenendo artificiale, semplificato, automatico, a volte persino aggressivo. La funzione linguistica s’è andata vieppiù spostando su circuiti rapidi in cui lo stimolo richiede risposte immediate spesso dettate dall’emotività.

In un altro suo libro (“La libertà di essere diversi”, 2011), Lamberto Maffei s’è occupato di tale cambiamento nella processualità cerebrale in funzione della globalizzazione. In questo “cervello collettivo” si rende evidente una maggiore “automatizzazione” dell’emisfero destro e dell’amigdala. Ciò equivale al prevalere della tendenza  a ricorrere a funzioni più primitive anche in ambito sociale. Il paradosso che nota il neurobiologo riguardo l’”ultimo traguardo della civiltà” consiste proprio in una sorta d’involuzione cerebrale verso le reazioni emotive, immediate e irrequiete, nella preoccupazione di dover a tutti i costi ottimizzare il tempo, da tradurre in denaro. La plasticità del sistema lento verrebbe influenzata negativamente con il pericolo che non eserciti più gli opportuni controlli sul comportamento. E non sottoporre al vaglio dell’esperienza pensieri e comportamenti rischia per giunta di favorire disastrosi dogmatismi in ogni campo.

In “Relenteless Evolution” (2013), John N. Thompson presenta una visione della vita in continua evoluzione, altrettanto inevitabile ed essenziale, spiegando perché l’adattamento non si ferma mai, a causa del fatto che la selezione naturale agisce sulle varie specie in tanti modi diversi. Anzi, i drastici cambiamenti recenti avrebbero inciso tanto profondamente sui ritmi evolutivi che perfino il materiale genetico avrebbe subito un’accelerazione nelle sue mutazioni, un tempo certamente meno precipitose.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

Bauman Z. Vite di corsa, il Mulino, Bologna 2008

Caramore G. Pazienza, il Mulino, Bologna 2014

Maffei L. La libertà di essere diversi, il Mulino, Bologna 2011

Maffei L. Elogio della Lentezza, il Mulino, Bologna 2014

Nussbaum M. Non per profitto, il Mulino, Bologna 2010

Regina L. Pazienza, Mursia, Milano 2014

Thompson J. N. Relenteless Evolution , University of Chicago Press, Chicago 2013