La terapia del Respiro

Il nostro corpo intesse continuamente nuove relazioni che intervengono nei suoi processi trasformativi per contribuire a mantenerne l’armonia.

Per conoscerne i ritmi, occorre ascoltarlo nei suoi movimenti essenziali e nelle principali funzioni di postura, appoggio, sostegno. La sensorialità di quest’esperienza ci permetterà di cogliere il dialogo tra il tono e la distensione, tra interno ed esterno dell’organismo, in seno allo schema che si è andato modellando nel tempo.

Secondo la “Music Learning Theory” di Edwin E. Gordon, il processo di apprendimento musicale nasce proprio in quest’esperienza di ascolto (“interno”) dei movimenti del corpo da parte dell’orecchio “interno” (o anche “pensiero musicale”). L’audiation, a fondamento della musicalità, avrebbe luogo infatti quando si sente e si comprende della musica, in assenza fisica di percezione acustica.

A scandire il tempo delle relazioni, e mantenere in vita suoni e silenzi, è il respiro.

Ilse Middendorf (1910-2009) s’è particolarmente concentrata sulla pausa alla fine dell’espirazione, rilevandone l’importanza nel formare l’intero moto respiratorio.

Una respirazione esclusivamente diaframmatica, in grado da sola di aumentare i tre diametri (verticale, orizzontale e antero-posteriore) del volume toracico, è possibile in stato di rilassamento assoluto e in assenza di qualsiasi attività. Altrimenti, a partire dalla strutturazione stessa della postura, verrà progressivamente coinvolto il sistema motorio, in proporzione all’ampiezza delle fasi di scambio gassoso.

In sinergia con i muscoli addominali, costali e toracici, il diaframma svolge il ruolo di mantice, ponendo in relazione i movimenti del respiro con la posizione del corpo nello spazio. La “giusta postura” così non sarebbe altro che il risultato di un respiro “giusto”. E l’equilibrio dinamico della persona la si può dedurre dalla conoscenza degli atti della sua respirazione.

Prevalentemente inspiratori sono i muscoli sovracostali e gli intercostali esterni. Altri muscoli accessori (toracici, scapolari, nucali e spinali) entrano in funzione negli atti di media e grande ampiezza. Qualora siano impegnati gli arti superiori, interverranno gli scaleni e gli sternocleidomastoidei; gli scapolari verranno reclutati con i movimenti della testa.

Lasciar entrare l’aria”, dice la Middendorf, in un moto d’allungamento e distensione un po’ di tutto il corpo che si dispone ad accoglierla, nella consapevolezza di questa accettazione. Con tutto ciò, secondo soggettive dinamiche d’intensità, profondità, direzione, l’esperienza del riempimento potrebbe essere vissuta quale percezione di vuoto o di  troppo pieno.

Trattandosi d’un atto di scambio, e non d’un gesto simbolico, l’inspirazione è capace di svelare la forma del movimento, la relazione con lo spazio esterno e i rapporti interni di variazioni tra tensioni e distensioni. La percezione che si risveglia è di tale intimità da richiamare i momenti più arcaici dell’esistenza.

Un movimento più libero e una più ampia apertura forniranno maggiore “soddisfazione” all’atto spontaneo che si svolga in maniera fluida.

Il respiro è una forza coesiva che genera bilanciamento ed equilibrio nel corpo e ci aiuta a modulare le impressioni che ci arrivano dal nostro interno e dal mondo esterno” (“Der Erfahrbare Atem  in seiner Substanz, 2000).

All’arresto della contrazione dei muscoli inspiratori, la forza di gravità e l’elasticità delle strutture osseo-cartilaginee, e del parenchima polmonare, realizzeranno l’espirazione. Muscoli accessori (addominali, intercostali interni, quadrato dei lombi, piccolo dentato posteriore, ma anche il gran dentato, nelle sue inserzioni posteriori, e il triangolare dello sterno, che lo abbassa tanto delicatamente da non averne percezione) interverranno all’incremento dell’attività, nella stabilizzazione posturale forzata o nel produrre la voce.

Il diaframma, nel rilasciarsi e risalire eserciterà un’azione lordizzante contraria a quella degli addominali. Una rigidità del dorso costringerà a maggior lavoro addominali e intercostali interni.

Quel “lasciar uscire l’aria” della Middendorf fornisce senso all’apertura all’esterno, con la valenza espressiva più intima della soggettività che si dimostra nel produrre la voce. L’espirazione, passiva, rappresenta la tonicità che si dirige all’infuori; è dunque tono che plasma il corpo, lo sostiene e, all’occorrenza, si traduce in suono. La colonna d’aria fa vibrare le corde vocali, gli spazi di risonanza danno carattere al timbro della voce, la tonicità muscolare le conferisce colore.

Tutta questa, asserisce Silvia Biferale, in “La terapia del Respiro” (Astrolabio – Ubaldini, Roma 2014), è “materia corporea disposta in una relazione capace di mantenere la continuità soggettiva e la discontinuità verso l’altro”.

Un percorso terapeutico potrebbe iniziare col mettere in relazione le gambe, da una parte, con la terra e, dall’altra, con la parte superiore del corpo. Si distribuirà il peso da un piede all’altro, mediante una flessione del ginocchio controlaterale, mentre il tono dell’espirazione, concentrato sull’appoggio, dovrà svuotarlo di quella gravità. Nella ripetizione si cercherà di mantenere il contatto col terreno.

Questo lavoro con il peso serve a fornire la chiara percezione di un punto sicuro dal quale ripartire per riorganizzare la funzione d’appoggio, facendo diminuire le tensioni e ripristinando la ritmicità dell’alternanza fasica della respirazione.

 

In una condizione d’equilibrio pressorio tra dentro e fuori s’instaura la quiete della pausa. Diversa dall’apnea procurata dalla mancata distensione dei muscoli coinvolti negli atti respiratori nell’una o nell’altra disposizione, la pausa è invece l’attesa che scandisce il ritmo, separando tali fasi. La sua assenza denota coinvolgimento emotivo o l’affanno d’uno sforzo prolungato.

In “The Hands of the Living God” (1969), Nina Marion Blackett Milner (1900-1998), la psicoanalista più attenta forse alla presenza corporea nella relazione terapeutica, annotava: “… scoprii un’altra raffinatezza: non era necessario imporre un ritmo al respiro […] ma si poteva, e questo era molto più difficile, lasciare che il respiro prendesse il suo ritmo, lasciarlo scorrere alla sua velocità, aspettare il cambiamento dell’ondata sia in cima sia in fondo all’oscillazione. La cosa più difficile, scoprii, era aspettare, alla fine dell’espirazione, che il bisogno urgente di inspirare nuova aria sorgesse da una zona profonda, al di sotto del diaframma, perfino al di sotto della zona cosciente, aspettarlo come il surf-rider aspetta che si avvicini l’onda non ancora vista e lo porti avanti sulla sua cresta, un compito assai difficile, però, giacché il nuovo respiro spesso saliva solo lentamente, e si doveva sfidare la paura che non salisse affatto”.

Le fa eco la Biferale, ammettendo la pertinenza dell’introduzione di questa sfida alla paura. “L’ascolto del ciclo respiratorio impone l’ascolto di un movimento vitale, che si rinnova ogni volta, al quale ci si può affidare solo se si affronta il timore che non torni. […] l’evento sonoro e l’atto motorio o il gesto esistono in quanto hanno una durata definita: il tempo è un elemento costitutivo della loro natura e per questa ragione l’evento sonoro e il gesto impegnano l’ascoltatore a vivere continue separazioni e attese tra la loro presenza e la loro assenza”.

Una vitalità spazio-temporale che si pone alle stesse fondamenta del linguaggio musicale.

L’ascolto – scrisse Mauro Mancia (1929-2007), nelle sue “Riflessioni psicoanalitiche sul linguaggio musicale” (1998) – comporta un continuo separarsi da forme compiute e una continua attesa di nuove forme, come se il ‘senso’ di una ‘durata’ nel tempo si formasse a riempire lo iato tra una ‘separazione’ e una ‘attesa’. L’essenza temporale di un oggetto musicale è quella di ‘una virtualità’ che attende sempre una nuova realizzazione”.

Separazione, equilibrio tra tensioni e distensioni, anticipazione e attesa d’una nuova percezione, disponibilità a tale continua, fluida relazione, vincendo l’apprensione che accompagna tutte le urgenze.

I tempi della pausa variano a seconda dei periodi della vita, a seconda che inspirazione ed espirazione si rincorrano senza lasciarle spazio o che un nuovo inizio tardi a comparire. Senza pausa l’azione respiratoria è come se non si rinnovasse.

Marius Schneider (1903-1982) insegnava come la periodica successione di tempi uguali si riveli schematica, meccanica, costrittiva, mentre l’alternarsi di disuguaglianze sia più viva ed equilibrante, nell’intercalare il riposo. Senza interruzione non v’è ritmo e gli intervalli lo rendono tanto asimmetrico quanto di effetto.

In “Il significato della musica” (1970), considerava questa suddivisione asimmetrica “più salutare sotto tutti gli altri aspetti, perché ci scuote, mentre la suddivisione uniforme ci lascia completamente aridi. […] L’asimmetria non forza né l’impulso motorio corporale né l’elemento specificatamente spirituale.

Senza il ritmo che lega all’ascolto di un brano, non si sarebbe neppure in grado di cogliere il senso del movimento nella sua successione, così l’eloquio di chi recita o il susseguirsi dei passi di danza in una coreografia. Nel riconoscerne il carattere a volte innovativo e stimolante, altre rassicurante, oppure noioso, l’esperienza dell’ascolto se ne arricchisce.

Il ritmo si costituisce con i rapporti tra  atti respiratori e non coincide con la loro frequenza.

Émile Jacques-Dalcroze (1865-1950), che insegnava a percepire la musica attraverso il corpo, arrivava ad asserire come “il fatto di sottomettere nella vita comune la respirazione alla disciplina della regolarità nel tempo sopprimerebbe ogni sentimento istintivo e scomporrebbe il ritmo vitale” (“Le rythme, la musique et l’éducation”, 1920).

Nel suo rappresentare una divisione regolare del tempo, la respirazione appartiene al modello della battuta, dettata dai muscoli respiratori in parte soggetti all’azione della volontà; la divisione del tempo in intervalli di differente lunghezza forma il ritmo, che ci consente di distinguere questi spazi, nella percezione di quell’energia profusa dalla tensione muscolare.

 

Di fronte a un evento di valenza affettiva (paura, eccitazione, fatica) il ritmo respiratorio si modifica, perché aumenta questa tensione, la frequenza si accelera, il movimento si confina prevalentemente al torace o all’addome.

La distensione, non solo approfondisce lo scambio gassoso, ma favorisce l’ascolto. Differisce dal rilassamento comune, in quel mantenere un livello di consapevolezza che l’estraniamento farebbe perdere. E non costituisce neppure un obbiettivo, bensì un passaggio, attraverso il quale l’ascolto diventa percorso di conoscenza.

Per questo motivo le tensioni non andrebbero combattute, ma comprese, nella convinzione che non occorra andare alla ricerca del “giusto” respiro. Piuttosto, sarebbe opportuno indagare in che modo ci parla la situazione del momento.

La crisi di informazioni da parte dell’esterno, prodotta dalle alterazioni della struttura recettiva (efferente), con la mancanza di fluidità negli adattamenti che comporta, costringe il sistema motorio a un funzionamento meno ricco di modulazioni, fino a farlo regredire alla stretta semplicità dell’ipertono.

Le tensioni giungono allora ad acquisire il ruolo di componenti della struttura stessa dello schema corporeo, pur dimostrando d’essere soprattutto una strategia difensiva, in quanto limiti protettivi e rassicuranti.

L’esperienza del rilassamento s’accompagna al timore di perdere il controllo, di non poter esercitare né forza né volontà, di non più vivere una volta che la tensione muscolare ci dovesse abbandonare.

Il movimento muscolare sottolinea l’attività respiratoria e ci espone la sua condizione momentanea. Tutta l’organizzazione corporea si poggia sul dialogo tra tensioni e distensioni compresenti tra loro e tra loro conviventi, e conniventi, in quella diversità di sostegno che va a disporsi in accoglienza. Sulla percezione di tale coesistenza si appoggia una sensorialità dialogante, che non soccombe alla pervasività del tutto vuoto tutto pieno, tutto rilasciato tutto teso.

È prerogativa delle sensazioni questa pervasività. Se non si intraprende un percorso contro-alessitimico verso la comprensione, di fronte all’ansia paralizzante, si resta bloccati nel timore di non potersene più liberare. La consapevolezza della comprensione si trasforma in pensiero da tradurre in parola in grado, a sua volta, di descrivere, “narrare”, tracciare i contorni della sensazione, incistandola e riducendone le potenzialità di minaccia.

L’esplorazione del respiro può dunque avvalersi della voce; suoni e vibrazioni che sollecitano la risonanza di parti del corpo. In “Stimme von Kopf bis Fuß” (2004), Maria Hoeller-Zangenfeind ha approfondito il lavoro della Middendorf sugli spazi vocali di risonanza corporea.

Suoni come la emme (labiale) o la enne (dentale) pongono in vibrazione le ossa, facilitando l’ascolto degli spazi con confini di questo tipo di tessuto, come la testa e la gabbia toracica. Le vocali chiariscono i rapporti tra dentro e fuori. La centralità della a si diffonde lungo tutto il perimetro esterno dell’epidermide. Suoni esplosivi come ch  o ft rendono conto della convivenza, dell’appoggio, dell’apertura e  dell’energia di tono e voce.

La reciprocità di ascolto e movimento riempie di forma, trasformando la tensione in tonicità e questa in intenzione creativa.

Parlando del direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, Alessandro Zignani ne ha ricordato il pensiero e l’operato artistico.

Nel suo gesto esiste l’intenzione di ciò che verrà, non la rappresentazione di ciò che succede nell’istante. Lo scopo del dirigere è guidare l’ispirazione – etimologicamente: il ‘respiro’ – dell’orchestra, non costringerla a una volontà la quale, essendo il fantasma psichico di un solo individuo, non può diventare che narcisistica ossessione. […] Il non rinchiudere l’orchestra in una gabbia ritmica permetteva al direttore di lasciarla ‘respirare’: costringere gli strumentisti ad ascoltarsi; a fare, per così dire, ‘musica da camera’” (“Wilhelm Furtwängler. Il suono e il respiro”, 2005).

Respirare e spirare (esalare) vengono ricondotti alla medesima radice “sp/ps” di pustola (bolla), e dunque soffiare, alitare, desiderare, aspirare, sospirare e, per estensione, infondere, inspirare, ispirare … spirito. Uno spirito che sembra voglia lasciarci allorquando il ritmo s’affanna, il fiato s’accorcia, il movimento appare strozzato, lo scambio diventa superficiale e non fluido.

A causa di ciò, l’ascolto potrebbe dimostrarsi motivo di disagio nel percepire ogni minimo fastidio legato alla tensione. E questa mancata corrispondenza all’immagine di sé non può che inquietare. La capacità di tollerare il malessere dipende dall’eventuale preoccupazione.

Soltanto se la nostra mente non è pre-occupata possiamo tollerare il disagio”, puntualizza Silvia Biferale. In quanto occupare avanti, antecedentemente, anche se allo scopo di prevenire, renderebbe prigionieri, assimilati a tale possessione.

Ma l’ascolto dev’essere vissuto come una forma d’esperienza dell’attività del sistema sensomotorio, in grado di condurre a quell’importante conoscenza di sé ancora presemantica. Solo successivamente, con l’emissione del suono, ci si potrà occupare della sua rappresentabilità.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

Biferale S. La terapia del Respiro, Astrolabio – Ubaldini, Roma 2014

Hoeller-Zangenfeind M. Stimme von Fuß bis Kopf. Ein Lehr- und Übungsbuch für Atmung und Stimme nach der Methode Atem-Tonus-Ton, Studienverlag GmbH, Innsbruck 2004

Jacques-Dalcroze É. Le rythme, la musique et l’éducation, Librairie Fischbacher, Paris 1920

Mancia M. Riflessioni psicoanalitiche sul linguaggio musicale, Moretti & Vitali, Bergamo

Middendorf I. Der Erfahrbare Atem  in seiner Substanz, Junfermann Vrerlag, Paderborn 2000

Milner M. The Hands of the Living God: An Account of a Psycho-analytic Treatment, The Hogarth Press, London 1969

Schneider M. Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970

Zignani A. Wilhelm Furtwängler. Il suono e il respiro, L’Epos, Palermo 2005