Empatia di un “cervello goloso” e sua sospensione “nel piatto”- ecofemminismo – neuroni a specchio… disgusto – Il Segreto dei cibi sta nell’insensibilità?

Femministe agguerrite come Marti Kheel e Carol J. Adams sono fermamente convinte che l’abitudine di mangiar carne sia da collegare strettamente ad una pseudo-identità mascolina ed antropocentrica. Per dimostrare la propria virilità e confermare un potere patriarcale, il maschio manifesterebbe il proprio dominio sulla prole, su chi la genera e su tutti gli altri esseri viventi, dei quali disporre fino alla morte, oppure deciderne lo sterminio.
Alcune  antropologhe hanno raccolto delle prove a sostegno della tesi che la dieta dell’uomo primitivo fosse certamente “onnivora”, ma che la carne risultasse assai meno importante di quanto potesse invece far credere la teoria della “caccia” quale “principale modello comportamentale della specie umana”; gli uomini si sarebbero evoluti cioè da “scimmie assassine” a scapito di quelle pacifiche. E’ l’ipotesi, questa di Robert Ardrey, che avrebbe influenzato Arthur C. Clark e successivamente Stanley Kubrick per il celebre “2001: Odissea nello spazio”.
Gli autori di “Woman the Gatherer” (1981), in particolare Adrienne L. Zihlman, e del più recente “The Invisible Sex: Uncovering the True Roles of Women in Prehistory” (2007), sostengono che siano stati cibi vegetali la parte integrante dell’alimentazione della maggioranza delle comunità umane, ad eccezione delle popolazioni nordiche. Quelle antiche “raccoglitrici” di piante, abituate a nutrire i piccoli, avrebbero cominciato a condividere il loro cibo con gli altri componenti del gruppo, dando avvio alla primitiva socializzazione, che viene tuttora ricordata semanticamente dall’etimologia della parola “compagnia”, indice della condivisione del pane, quale atto fondante della famiglia umana.  Come ha asserito Richard W. Bulliet in “Hunters, Herders, and Hamburgers: The Past and Future of Human-Animal Relationships” (2005), saremmo scomparsi come specie se non avessimo potuto nutrirci di piante e frutti facilmente reperibili.

Qualcuno, come l’archeologo Lewis R. Binford, ha suggerito che i primi ominidi consumassero i resti delle carogne già cacciate dai leoni e dopo aggredite da iene ed avvoltoi. A queste carcasse, quindi, già abbondantemente spolpate, i nostri antenati si sarebbero potuti avvicinare furtivamente solo seguendo una gerarchia che li avrebbe collocati ad uno dei gradini più bassi nella scala dei carnivori della savana.
Oggi la sola idea di mettere a tavola cadaveri putrefatti ci fa inorridire. Sono poche le cosiddette prelibatezze a base di crudità animali; la “tartare”, molto popolare in Polonia (tatar), ne è un esempio, come il “carpaccio”, inventato nel 1963, a Venezia, da Cipriani durante la mostra dedicata al pittore Vittore Carpaccio. Per lo più la carne viene sottoposta a delle procedure che la possano, in qualche modo, camuffare, come la frollatura, il condimento, e la successiva cottura.
Noi saremmo tra i pochi esseri viventi che possono “scegliere” cosa mangiare (e dunque decidere pure di diventare vegetariani!). Ma, quando si tratta di accomodarsi a tavola, questa nostra libertà di “scelta”, in realtà, si trova assoggettata ad innumerevoli influenze culturali. Nel campo della nutrizione sono molti i condizionamenti che derivano: dalla famiglia, nel corso dell’infanzia; dai coetanei, durante l’adolescenza; da pregiudizi vari, legati alla forma fisica (da giovani adulti), o imposti dalle profilassi dietetiche (da adulti un po’ più maturi); senza  contare poi le discutibili intromissioni della pubblicità, valide a tutte le età, ma invadenti per alcune categorie di persone più vulnerabili, o suggestionabili.
In molte civiltà tradizionali le motivazioni dell’esclusione della carne dall’alimentazione si poggiano su motivazioni etiche o religiose (buddhiste ed ancor più jainiste), oppure su prosaiche considerazioni di carattere economico. Eppure noi uomini possiamo stabilire “cosa” mangiare in base ad altre implicazioni, ed anche per motivi che potrebbero non avere niente a che fare con il nostro corredo genetico, le nostre tradizioni, i nostri genitori e la nostra stessa specie. E’ in questo forse che consiste “Il Segreto dei Cibi” (Nova Scripta, Genova 2009), su cui discettano Fernando Piterà, Levio Cappello e Manuela Taglietto.
Probabilmente il nocciolo della questione risiede nell’essenza medesima dell’empatia, che soltanto gli psicopatici criminali perdono, quella capacità di immedesimarsi mentalmente e fisicamente negli altri esseri viventi, sostenuta da quei neuroni “specchio” individuati da Giacomo Rizzolatti.

Gli esseri umani comunicano le proprie emozioni fondamentali di gioia, tristezza, paura, rabbia, come quella del disgusto, manifestandole per il tramite di una mimica specifica (in caso di disgusto: arricciamento del naso, abbassamento delle sopracciglia, sollevamento delle guance e delle labbra…). E’ una forma di linguaggio “non verbale”, tipico degli animali sociali, abituati a vivere insieme ed a costituire dei gruppi comunitari, familiari, o di coetanei. Gli animali sociali non possono sentirsi felici se non sono amati!
Un esempio molto calzante di attivazione indotta dall’osservazione di un’emozione è quella specifica dell’amigdala, provocata dalla visione di un viso terrorizzato. L’amigdala rappresenta un elemento fondamentale del circuito neurale mediante il quale la percezione dei segnali di pericolo genera l’emozione conforme della paura. Anche nel caso del disgusto, basta osservare sul volto di qualche altro un’espressione che lo esprima, per reagire di conseguenza, ma l’attivazione prevalente si collocherà nella regione anteriore dell’insula, laddove si trova la corteccia gustativa primaria, assicura André Holley, ne “Il Cervello Goloso” (Bollati Boringhieri, Torino 2009). Nei nostri progenitori l’emozione del disgusto trovava la sua causa principale, come pure la sua finalità decisiva, nella possibilità di “fiutare” e quindi “rifiutare” il pericolo, proprio grazie all’attivazione di quella regione corticale che analizza il cibo prima della sua ingestione.
Nell’interpretazione delle emozioni altrui interverrebbe una sorta di empatia, pel tramite della quale interiormente siamo in grado di mimare quanto esprime il viso posto sotto osservazione. Si tratta di un fenomeno analogo a quello, contestualmente visivo e motorio, mediato dai cosiddetti neuroni “specchio”, individuati da Giacomo Rizzolatti nell’area premotoria del lobo frontale. L’insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore sono entrambe coinvolte  nella percezione del dolore  e nelle reazioni viscerali e motorie connesse. Queste regioni svolgono funzioni particolarmente complesse, se si pensa al loro coinvolgimento nelle espressioni di disgusto, ed ad una loro attivazione nella reazione empatica al dolore altrui.
Se percepire un’espressione di disgusto ci induce a provarlo, anche assistere al dolore degli altri, dal punto di vista neurologico, ce li avvicina, quasi a conferma dell’adagio “mal comune mezzo gaudio”. In questi meccanismi si potrebbe presumere di individuare il fondamento della “cognizione sociale”, suffragata dalla comprensione di gesti e sensazioni altrui. Ciò che vediamo viene sottoposto ad analisi: per inferirne il tipo di emozione lo sentiamo come nostro, ne proviamo il contenuto, e per riconoscerlo ricorriamo alla nostra esperienza personale, mettendo in funzione le strutture cerebrali competenti.
I pazienti affetti dalla grave forma neurodegenerativa della “corea di Huntington”, tra gli altri sintomi, presentano una incapacità di riconoscere la mimica del disgusto. Anche i sofferenti di disturbo ossessivo compulsivo mostrano difficoltà a riconoscere espressioni di disgusto, pur essendo il comportamento anancastico facilmente correlato al  timore di contaminazione (da parte dello sporco: “rupofobia”, o dell’infetto: “misofobia”; oppure da parte delle feci: “coprofobia”, o “scotofobia”), ovvero al fastidio eccessivo per i cattivi odori (“bromidrosifobia”).
Per quanto riguarda le persone anoressiche (non tanto le “sintomatiche”, per lo più quelle ammalate di “anoressia nervosa”) si è ipotizzata una differente percezione, con difficoltà nel normale riconoscimento dei sapori. Questa differenza nella capacità di percepire i sapori risiederebbe nell’insula, che nelle persone affette da questa espressione morbosa, si dimostrerebbe meno attiva nei confronti di sapori normalmente giudicati piacevoli. Sempre l’insula, coinvolta nella regolazione delle emozioni, si troverebbe compromessa nelle modalità di percepire l’immagine corporea.
L’incapacità di immedesimarsi mentalmente e fisicamente negli altri, che siano uguali o diversi, umani o animali, corrisponde ad una grave forma psicopatica che esclude l’esercizio dell’empatia e non lascia spazio ad una facoltà superiore della psiche, quale quella di amare, che sta alla base di ogni sentimento etico ed a giustificazione dell’altruismo.
“Ahimsa paramo dharmah” significa: Non v’è religione al di sopra della Non violenza, e ciò equivale a dire che nessuna fede o credo ideologico potrà mai essere autorizzata a predicare la violenza, ma semmai dovrà sforzarsi di fare ogni tentativo per vivere senza arrecare sofferenza ad alcuno. Ahimsa è un precetto valido per l’induismo, come per il buddhismo, o il jainismo, perché invita a non nuocere a nessun essere vivente, anche quando si sta a tavola. Quando si raggiunge l’accettazione di questo precetto si ottiene un’illuminante comprensione che fornisce una nuova impronta alla nostra vita, un’ashrayaparavritti. Nel momento in cui si leggono le emozioni negli occhi degli animali e se ne percepiscono i sentimenti è molto più difficile accoglierne le carcasse come pietanze.

“Se anche potessimo sostenere che mangiare carne è naturale, tale argomentazione non avrebbe un gran peso dal punto di vista etico… Non sempre ciò che è naturale è anche moralmente giusto, e… possiamo decidere di astenerci da certe pratiche… – sostiene Jeffrey Moussaieff Masson, autore di “Chi c’è nel tuo piatto? Tutta la verità su quello che mangi” (Cairo, Milano 2009) – Non siamo forse umani proprio perché, a differenza di qualsiasi altro animale, possiamo decidere cosa mangiare? I grandi felini non hanno scelta, sono per certi versi costretti ad essere carnivori. Ma noi possiamo stabilire cosa mangiare e cosa no in base a motivi che non hanno nulla a che fare con la nostra specie, le nostre tradizioni, i genitori, e persino il corredo genetico”.
Sia anatomicamente che fisiologicamente, gli esseri umani si sarebbero, nel tempo, adattati ad un regime alimentare prevalentemente vegetale. La dentizione, ad esempio, si è evoluta in senso erbivoro: canini piccoli e smussati, invece che conici e serrati, incisivi piatti adatti più che altro a succhiare; la forma del cranio con bocca piccola più predisposta a masticare a lungo e ad ingoiare cibi morbidi, di origine vegetale. I carnivori posseggono fauci larghe e mascelle che tranciano e triturano, ingollando a grossi morsi; anche l’intestino umano è più simile a quello degli erbivori, prolungato e con una struttura a sacche.
Nutrendo con proteine e grassi animali i primati ridotti in cattività, hanno notato Jack Perry Strong e collaboratori già nel 1976, si riscontrano effetti aterogenici, a rischio cardiopatico.
Noi umani siamo insomma gli unici animali a scegliere (male) il loro cibo e ad escludere quanto, pur essendo edibile, non è sapido, o prelibato, oppure eticamente scorretto, e quindi disgustoso sia al palato sia al pensiero.
Se non è buono da pensare non sarà neanche buono da mangiare, poiché il cibo “sa” di qualcosa che riguarda tanto il sapore quanto il sapere.

Di fronte alle carcasse servite ai banchetti si avrebbe una reazione viscerale, se questa non fosse già stata repressa dalla consuetudine e superata col tempo, man mano che si vanno assimilando gli atteggiamenti culturali propri della comunità d’appartenenza. Un senso di colpa potrebbe però giacere in latenza, sotto la soglia della coscienza.
Per affrontare la quotidianità ed assicurarsi la sopravvivenza si deve necessariamente fare ricorso ad una qualche forma di generica “negazione” del reale che ci circonda; prima di ogni altra cosa della certezza della morte, soprattutto della propria. Questa forma di negazione torna utile onde intraprendere iniziative e preparare una profilassi alla depressione del tono dell’umore. Ma, allorquando questa negazione della caducità dei mortali dovesse proporsi anche per l’altrui pena, sconfinerebbe in una modalità patologica di tipo psicopatico, un’omissione nel riconoscimento della sofferenza caratteristica di quelle personalità prive di umanità e di commiserazione, che, per parafrasare La Rochefoucauld, dimostrano “una capacità illimitata di sopportare il dolore degli altri”. In virtù di questo meccanismo di negazione, ad esempio, lo squartamento del porco non viene preso in considerazione per quello che è, un atto di brutale abominio, ma addirittura tramutato in una festa da celebrare in una particolare circostanza collegata ad un’altrettanto particolare ricorrenza. In forza della negazione ci si comporta come se tra gli animali addomesticati, ormai nati in cattività, ed allevatori sia stato stipulato una specie di contratto con implicita rassegnazione del corpo, comprese le frattaglie, in cambio delle interessate cure ricevute. Vitto ed alloggio per un periodo circostanziato in cambio dell’autorizzazione ad una prematura soppressione; tutto ciò avrebbe compromesso, loro malgrado, il diritto all’indipendenza, venendo addirittura considerato alla stessa stregua di un tratto evolutivo, quello stesso che avrebbe fatto perdere ai maiali le striature della cotenna, le quali però son pronte ad essere riassunte non appena alle bestie si offre la possibilità di rinselvatichirsi.
Da un punto di vista semantico, già i termini cui si fa ricorso per definire l’animale si distanziano nettamente da quelli che ne indicano le carni da destinare al consumo, in un tentativo (maldestro) di privare il linguaggio di quelle associazioni immediate tra gli individui, viventi, e gli oggetti, inanimati, da servire come pietanze. A tavola non si dispongono cuccioli di pecore, capre, mucche, maiali, bensì qualche sineddoche e delle metonimie, che allentino il rapporto dei significati e ne mistifichino l’eventuale riconoscimento. Un conto è dire “vitello”, ben altro riferirsi genericamente a cotolette, scaloppine, pagliata, paillard, noce, nodino, piccata… “Saltimbocca!” sembra quasi attribuire una volontà alla pietanza di rifugiarsi tra fauci ritrose ad accoglierla. L’apice viene raggiunto forse da braciola e da hamburger che si distanziano notevolmente da quegli esseri che pascolano e ruminano.
Parlare di arista, cotechino, pancetta, prosciutto, salsicce… allontana dall’idea di suino. Già mortadella è dichiaratamente più lugubre, mentre abbacchio addirittura è conforme all’ovino destinato ad essere abbattuto col bastone (baculum). Al fine di ottenere della carne sempre più tenera e pallida i vitelli vengono privati del colostro materno e sottoposti ad un’alimentazione carente in ferro; quei pochi movimenti che possono fare non sono neppure in grado di sviluppare una normale muscolatura. Le diciture improntate al diminutivo ed al vezzeggiativo, come “vitellino”, significa molto più prosaicamente che si tratta di un animale a cui è stato concesso (si e no), ma in condizioni atroci, di sopravvivere meno di un mese. L’eufemismo che si aggiunge definendolo “da latte”, non significa affatto che sia stato nutrito realmente secondo natura, lasciandolo accostare al capezzolo materno.
Addomesticamento, domesticazione, allevamento suonano come delle attenuazioni semantiche impiegate al posto di un più consono “sfruttamento”, perché non si tratta di mantenere in casa e di accudire, semmai di una questione di controllo di questa sfortunata moltitudine, finalizzato al tornaconto di alcuni. In questo senso, la presunta superiorità umana consisterebbe in una fisiologica facoltà empatica, in associazione alla capacità di annullarla, secondo una provvidenziale attitudine psicopatica. Ebbene, se la prima consiste in una spontanea immedesimazione, il suo annientamento scaturisce dal rifiuto di esercitare una funzione di pensiero e di riflessione, dalla negazione cioè di un sentimento. L’impedimento principale, di natura psicopatica, si esprime nel non ammettere la complessità emotiva delle altre creature, nel non riconoscerne il diritto al godimento della loro parte di felicità. La sospensione di questa negazione si indirizza agli animali da compagnia e si giudicano abominevoli e patologici gli episodi di malversazione nei loro confronti. Gli animali selvatici vengono relegati invece in un limbo tra indiscriminata razzia ed utopica conservazione del loro primitivo stato di libertà, sia pure in regime di mera sopravvivenza. Poi ci sono le categorie di animali la cui esistenza è segnata sin dall’inizio. La loro nascita e crescita viene gestita in funzione della soddisfazione, non soltanto alimentare, di altra specie. La loro stessa esistenza è finalizzata in quel senso, di produzione, economia, guadagno. Per queste povere bestie l’alternativa sarebbe non nascere, non esistere, non riprodursi.

Wilfred Bion definisce “fatto  selezionato” ciò che causa un mutamento nel contesto delle credenze di base, in tutto quel sistema cioè di “ipotesi definenti”, tesi definite e per ciò stesso considerate “definitive”. Il “fatto selezionato” è in grado cioè di far dubitare di tutte queste  credenze e di spogliare di tutti i pregiudizi di base. In questo senso, l’integrazione del “fatto selezionato” sarebbe a tal punto dirompente da provocare, con la  frantumazione del contenitore medesimo degli assunti presenti in atto, il risveglio delle coscienze per renderle disponibili alla trascendenza, insomma quello che abbiamo indicato come ashrayaparavritti.
Le provocazioni culturali possono rientrare nella definizione di “fatto selezionato”, perché solitamente costituiscono delle esasperazioni di procedure intellettive che vanno a tessere le infrastrutture delle quotidiane attività mentali, a cui indissolubilmente ed inesorabilmente siamo nostro malgrado allacciati. Un esempio eclatante ci venne fornito, nel 1729, da Jonathan Swift nel celeberrimo pamphlet satirico “A Modest Proposal: For Preventing the Children of Poor People in Ireland from Being a Burden to Their Parents or Country, and for Making Them Beneficial to the Public” (Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità).
Pregiudizi e divieti svelano di noi stessi più di quanto facciano simboli, totem e tabù, quali escrementi, incesto, cannibalismo, cosicché il segreto dei cibi svela anch’esso insospettabili indizi.
Se, ad esempio, si accetta nel piatto la carne di manzo, questo non significa che sia altrettanto gradita quella di cavallo. Chi ritiene sacre le vacche, potrà ugualmente sacrificare le capre. Animali da compagnia, “pet” domestici e beniamini di famiglia non arrivano a tavola con facilità, per un problema affettivo, prima ancora che per quelle loro apprezzabili e dimostrate facoltà mentali. Eppure anche i suini, nonostante l’impurità, dichiarata in ambiti religiosi, rischiano di dimostrarsi maggiormente creativi dei gravissimi disabili umani. Winston Churchill aveva notato come “i cani ti guardino dal basso, i gatti dall’alto, i maiali alla pari”. Il problema nel nostro caso però è quello di mettere i porci dinanzi alle margherite oppure di offrirli alle perle.

La razionalizzazione dovrebbe farci intendere come gli allevamenti intensivi siano da annoverare tra le prime cause del riscaldamento globale almeno quanto non lo siano dell’evoluzione delle infezioni febbrili aviarie e suine, oltre ovviamente a sottoporre gli animali a sofferenze indicibili.
Ebbene, si dice che neppure i piccoli felini, “lepri dei tetti” (levri di cuppi), abbiano avuto vita facile in alcuni centri urbani, in assenza di “gattare” pronte a proteggerli. Lo testimonierebbe l’appellativo frequente di “mazzagatti”. Persino i topi sono stati serviti arrosto, al posto dei più ghiotti, ma protetti, ghiri e driomi, soprattutto in periodi di gravi penurie alimentari, come dopo devastanti terremoti, che hanno lasciato quale retaggio ingiurioso l’attribuzione di “mangia sorci” agli abitanti dei paesi più sfortunati.
Nella catena alimentare si può ammettere, e di conseguenza immettere, di tutto. Processi di trasformazione  convertiranno in proteine carcasse di animali selvatici o domestici, altrettanto quanto i residui del mattatoio. Lo richiede l’economia della produzione e del mantenimento del bestiame. Cosicché tori furiosi saranno cibo per “mucche pazze” e gatti e cani diverranno croccantini per cani e gatti. E si, perché, nonostante l’amore dichiarato, gli animali da compagnia vengono soppressi, in virtù di una concezione molto ampia dell’eutanasia, cioè non appena comincino a dare fastidio.
La carne di cane viene normalmente consumata in Africa ed in Estremo Oriente. In Nigeria gode della reputazione di afrodisiaco, nelle Filippine contrasta la malasorte; in Corea ed in Cina ha valore terapeutico, ma in questi ultimi paesi l’abitudine è talmente diffusa da aver dato origine all’espressione “Yeon”, ossia “delizioso, come carne di cane”, per qualificare la “cosa” giusta. Per secoli, in Cina i “Chow chow dalla lingua nera” sono stati allevati a scopo alimentare. Si ritiene che a rendere più saporita la sua carne sia una morte atroce. Effetto attribuibile all’adrenalina. Per cui più sarà tormentata, maltrattata e torturata la povera bestia migliore sarà la sua degustazione.
Molto probabilmente non si riuscirà mai a soddisfare la necessità di tutti popoli del pianeta, qualora decidessero all’unisono di conformare la loro abitudine alimentare convogliando il desiderio carnivoro verso un’unica fonte proteica. Il perché è semplice, non potranno esserci bistecche per tutti, né arrosti che bastino. L’essere onnivori aiuterebbe la sopravvivenza nel cercare di accontentarsi di tutto, dalle rane al topo, fino all’ultimo pasto del conte Ugolino.
L’istinto di chi consuma queste prelibatezze, proibite o ricercate a seconda dei punti di vista, siano esse cuori di capriolo o ghiri assonnati, pinne di pescecane o cervella di scimmia, conta molto più dell’affezione o della razionalità. Cani, gatti, topi, driomi ed animali in via d’estinzione sono “cibo democratico” come tutti gli altri, perché dovrebbero godere  di uno statuto privilegiato? Soprattutto quando si arriva a concludere come l’alimentazione non abbia nulla di razionale. Per lo più è desiderio, abitudine, identità, cultura, la carne come il pesce, il latte come il caffè: cultura… what else!
Giuseppe M. S. Ierace

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