Logoterapia
Il modello di trattamento della logoterapia si ispira all’opera di Victor Frankl, medico austriaco che negli anni ’30 elaborò diversi contributi orientati nel definire un approccio curativo dei disturbi psichici attento alle dimensioni etico-esistenziali distintive del fenomeno umano.
Egli fu il primo ad utilizzare questo termine, nel 1926; da quel momento la logoterapia inizia ad offrire un quadro di riferimento per le tematiche della libertà-responsabilità e del ‘senso’ della vita, considerate basilari.
L’assunto di fondo da cui parte la logoterapia è la necessità di considerare l’uomo nella sua totalità irriducibile, come essere portatore di valori e di tematiche esistenziali che non possono essere trattate per mezzo di una modalità puramente psicologica.
La logoterapia si definisce come una psicoterapia che parte dallo spirito e ha come oggetto la coscienza (Seele), costante intenzionalità verso i valori. Il trattamento con il paziente prevede quindi il porre al centro dell’intervento le tematiche relative al senso della vita, ponendosi al confine tra filosofia e psicologia. L’agire umano è guidato, secondo questa psicoterapia, verso la ricerca del senso, della ‘verità esistenziale’ nelle sue diverse manifestazioni.
Il disagio psichico, che si esprime attraverso le nevrosi, viene considerato come una caduta nel cammino della ricerca del significato, e la sofferenza individuale non come un sintomo, ma come un’azione (Leistung) che si inserisce nella dinamica delle decisioni spirituali da prendere nel corso della vita. A tal proposito Frankl propone una nuova categoria diagnostica, chiamata ‘noogenic neurosis’, indicante una forma di nevrosi legata ad un vissuto di vuoto (vacuum) esistenziale.
La funzione del terapeuta è quella di porsi come aiuto per contrastare le diverse forme umane di ‘irresponsabilità metafisica‘, portando il paziente a poco a poco verso la presa di coscienza dell’insieme di possibilità e libertà implicite nelle sue scelte. Il trattamento prevede specifiche forme di intervento, rappresentate dalla dereflessione e dalla intenzione paradossa, supportate da due capacità tipicamente umane che diventano strumenti di riferimento: la capacità di self-trascendence e self-detachment.
Nella vita di ognuno accade di avere momenti in cui si è soggetti a disturbi temporanei, che, per lo più, sono considerati normali e non vengono degnati di particolare attenzione. Può però succedere che qualcuno affronti questi eventi come veri e propri problemi, tanto da cercare di superarli, forzando la situazione, ma ottenendo solo di trovarsi maggiormente invischiato.
Per esempio, questo si verifica quando una persona che soffre di insonnia si sforza di addormentarsi, ma finisce per essere sempre più sveglia. Per superare la situazione, Frankl propone il metodo della dereflessione, che si basa sul concetto di intenzionalità.
Nella pratica, si tratta di aiutare la persona a eliminare l’eccessiva attenzione su di sé, per sottolineare altri aspetti: perché sia efficace, tuttavia, non basta ‘distrarsi’, ma occorre accentrare l’attenzione su qualcosa di positivo. Inoltre, poiché lo scopo ultimo della tecnica è di distogliere l’attenzione della persona dal presunto problema, è importante che l’operatore non si soffermi troppo a dare spiegazioni preliminari.
Per ‘intenzione paradossa‘ Frankl intende la stimolazione al desiderio contrario: la persona viene aiutata a desiderare proprio quello che teme, usufruendo della propria capacità di autodistanziamento.
Per meglio spiegare questo concetto, Frankl parte dal ‘meccanismo di ansietà anticipatoria’, che viene spiegato dallo stesso autore nel modo seguente: “Un dato sintomo evoca, da parte del paziente, l’aspettativa, piena di timore, che una certa cosa possa succedere. Il timore, tuttavia, tende sempre a far accadere precisamente ciò che è temuto e, nello stesso modo, l’ansietà anticipatoria è soggetta con una certa probabilità a far scattare ciò che il paziente con tanto timore si aspetta che succeda. Si viene così a formare un ‘circolo vizioso’ che si sostiene da sé”.
Continuando la trattazione sull’ansietà anticipatoria, definita anche ‘ansia di attesa’, Frankl afferma: “…il paziente reagisce ad un dato sintomo con la paura che esso possa ripetersi, con l’ansia di attesa quindi. Da tale ansia di attesa consegue che il sintomo si ripresenta realmente. Un tale accadimento non fa che rinforzare il paziente nella sua originaria paura“. “…il sintomo produce una corrispondente fobia; la fobia rafforza il sintomo; il sintomo così rafforzato non fa che consolidare tanto maggiormente nel paziente lo stato fobico“.
I principali ambiti di applicazione vanno dai disturbi nevrotici alla sfera sessuale, ma negli ultimi anni nel nostro Paese sembrano essersi ampliati, includendo trattamenti per adolescenti, devianti, pazienti a rischio di suicidio, tossicodipendenti e malati di AIDS (E. Fizzotti, R. Carelli, 1990; E. Fizzotti, 1993).