“Buon giorno Signor Dottore, mi chiamo Sciptar, ho bisogno di parlare con lei perché mi sento teso ed infelice”. E’ così che circa un anno fa Sciptar esordisce appena seduto sulla poltrona del mio studio. E’ un uomo di quarant’ anni di corporatura robusta, dai modi ossequiosi, addirittura, a tratti eccessivamente formali. I suoi movimenti sono molto rigidi, come se ognuno di essi per essere eseguito necessitasse di molta più energia di quella che effettivamente serve, come se i suoi arti fossero di pietra e le giunture di ferro ed ogni piccolo spostamento, dovesse in qualche modo essere controllato e calibrato; dietro a questa rigidità è chiaramente percettibile la sofferenza. Tiene lo sguardo basso ha un tono di voce mesto e il ricordo di questa sofferenza è segnato indelebilmente da solchi profondi sulla fronte. Il suo corpo è qui, presente nel mio studio ma i suoi occhi osservano il passato, la storia, la sua storia e la storia della sua terra: una terra di popoli in lotta.
E’ così che Sciptar inizia a raccontarmi della sua vita, del suo passato e del suo disturbo fisico che lo accompagna da anni: l’estiatosi epatica. Inizia così il tortuoso e sofferente racconto della sua venuta al mondo in una città della Serbia non per amore ma per la violenza subita da sua madre, una bella signora serba, e del suo odio per il padre albanese, della sua vita con il patrigno. La sofferenza, l’orrore e la paura di Sciptar hanno radici molto profonde, profonde quanto possono essere le origini della vita; e così tappa per tappa continua a raccontarmi dell’odio per lui del suo patrigno, del suo fratellastro, e della nuova consorte del suo patrigno.
Una vita senza affetto e senza amore, una vita di violenze subite senza possibilità di difendersi: una vita di aggressività repressa. Quale organo invece del fegato avrebbe potuto essere il bersaglio di tutta questa aggressività autodiretta? “Dottore: mi è venuto un fegato grosso così … stando per trent’ anni nella casa del mio patrigno, non potevo fare e dire niente … lui mi riempiva di calci e pugni, … ero molto triste ed arrabbiato”. L’aggressività non agita ma trattenuta ed autodiretta era diventata col passare del tempo astio e rancore, poi pessimismo ed amarezza ed infine depressione. L’odio, il rancore, la tristezza sono i sentimenti che albergano in quest’uomo dalla statura alta e dalla corporatura robusta, ma non sono gli unici; la guerra è l’oggetto della sua più grande sofferenza. Si può avere paura di una guerra che coinvolge nazioni diverse, differenti etnie persone con una storia simile o diversa, la guerra e i suoi orrori è tanto più paurosa quanto più è vicina; la guerra di Sciptar è al suo interno, nella parte più intima di lui: è nel suo concepimento. E’ una guerra combattuta in ogni parte del suo corpo, in ogni sua cellula, attimo per attimo da sempre e per sempre. Sciptar è terrorizzato da questa guerra ed il suo sguardo triste e spaventato ne esprime tutto l’orrore. Tutta questa aggressività deve essere contenuta, trattenuta e bloccata perché vissuta come pericolosa e distruttiva per sé e per gli altri. Ecco quindi il motivo della sua rigidità. Tutto, in Sciptar ricorda la rigidità: i movimenti già descritti, i disegni che riproducono fedelmente la sua postura, ed i suoi vestiti (la seconda pelle che deve contenere tutto il suo caos emotivo interno): i vestiti che indossa sono infatti Jeans, scarponi e camicie inamidate.
L’aggressività e la rabbia soffocata durante tutta la vita erano gli argomenti che Sciptar rigidamente portava e con estrema puntualità ripeteva seduta dopo seduta: “il mio patrigno mi picchiava con la cinghia dei pantaloni, perché diceva che ero un buon a nulla … la mia matrigna mi toglieva i soldi che guadagnavo per comprare i vestiti al mio fratellastro …e io non potevo fare nulla, ero un ragazzino, ero indifeso.” Occorreva che tutta la rabbia soffocata per tanto tempo avesse modo di emergere ed essere accolta senza essere avvertita come pericolosa o distruttiva. Cosa avrebbe voluto dire se avesse potuto in quelle occasioni, Sciptar? Abbiamo così iniziato un lavoro di drammatizzazione di quelle scene arcaiche che non lo lasciavano libero di giorno e non lo facevano dormire la sera: in un gioco di cambio di ruolo, recitava ora il ruolo del patrigno aggressivo poi di quello che avrebbe voluto dire in quelle occasioni. Seduta dopo seduta il suo aspetto era meno teso ed il suo sguardo meno preoccupato, la drammatizzazione delle scene infantili era stata in grado di liberarlo dall’angoscia di quei ricordi nella sua prima casa. La guerra di Sciptar però non era finita, in lui convivevano odiandosi due parti inscindibili: la parte serba e buona (immagine della madre) e quella brutale e violenta dell’albanese (riflesso del padre). Il suo hobby è disegnare, e in quel periodo i suoi disegni avevano come unico tema soldati serbi ed albanesi, in posizioni statuarie o in lotta, coperti di sangue, corazzati di armature e protezioni e non, per lui era indifferente; ciò che gli premeva di più era poter rappresentare la sua aggressività. Una persona così rigida, non cambia velocemente, anzi, tende a mantenere tutto in uno stato che gli permetta sempre di poter controllare ogni singolo particolare comprese le emozioni e gli affetti. Così, il più piccolo cambiamento nel disegno era indice di una modificazione del suo pensiero, del suo modo di muoversi, e della sua capacità di sentire i suoi desideri ed affetti.
Circa due mesi fa Sciptar è arrivato nel mio studio per il suo appuntamento settimanale con una luce nuova negli occhi; indossava delle comode scarpe da ginnastica e dei pantaloni di tela, sotto al braccio aveva un grosso fascicolo di disegni. Dopo essersi velocemente seduto, ha iniziato a mostrarmi i suoi ultimi lavori. Fra i dieci disegni, i primi che aveva eseguito erano ancora il militare serbo e quello albanese, dal terzo al quinto erano sempre i due personaggi in un campo di fiori: le loro braccia non portavano più dei fucili mitragliatori o coltelli affilati ma erano dall’atteggiamento rilassato. Altri quattro rappresentavano solo fiori colorati l’ultimo era stato disegnato sul retro del primo ed era una persona sulla sommità di una collina con le braccia aperte e che guardava l’orizzonte
Sciptar aveva così iniziato la parte più significativa della sua trasformazione, aveva in quella occasione compiuto un percorso, concluso con un disegno che mi ha spiegato rappresentare la speranza, la speranza di qualcosa di buono per sé nel futuro. Fino ad allora non era mai stato in grado di pensare al domani, la sua fissità nella quotidianità e il suo pensiero che tutto è statico ed immutabile erano per lui fondamentali; così come il resto dei comportamenti ed atteggiamenti rigidi anche il pensiero doveva seguire questa linea. Il futuro per Sciptar cominciava a colorarsi di colori più vivaci e di una speranza di una vita migliore. La seduta si è conclusa con una considerazione molto importante per lui: “Dottore, mi sono reso conto che io non c’entro niente, hanno fatto tutto gli altri”; l’idea di portare dentro di sé la colpa per la violenza subita, il terrore e la disperazione ad essa legata erano svaniti. Attualmente Sciptar ricordi non ha più bisogno di parlare di quegli antichi, mentre si fa sempre più vivo in cui l’interesse per un futuro, di speranza proprio quello che aveva disegnato sulla linea dell’orizzonte di quella collina.
“Questa donna sa che al di là della collina ci sono persone a lei care… la sua famiglia… suo marito e i suoi figli, tenta di vederle e… alza le braccia per salutarle”. I primi disegni che Sciptar portava erano disegnati a pennarello, con tratti molto decisi e contorni molto ben definiti, e le persone che disegnava erano molto rigide e la vicinanza al margine basso del foglio ai piedi delle figure era pronunciato (ciò stava ad indicare una grande necessità ad aderire alla realtà). Ora, a confronto di allora i materiali che utilizza per disegnare rendono più leggere le figure, la figura è più centrale che sta ad indicare un miglior equilibrio e nel corpo c’è movimento, che nello specifico in questo disegno è un movimento di apertura. Per arrivare fino a qui Sciptar ha fatto un cammino, anche questa donna per arrivare sulla sommità della collina ne ha fatto uno, che come il suo non è concluso: la donna è arrivata quasi sulla sommità della collina e la sua aspettativa e la sua sicurezza di vedere le persone a lei care è alta. Sciptar ha fatto molta strada per arrivare a questo punto, ma finalmente intravede un futuro migliore e la sua certezza di vedere la situazione cambiare in meglio, avendone il riscontro giorno dopo giorno, sono di sprone per lui per proseguire su questa strada e per avere un giorno anche lui una vita con una famiglia sua.