La professione dello psicoterapeuta, come tutte le professioni riconosciute dallo Stato, è soggetta e regolamentata da norme e leggi di natura giuridica e deontologica aventi il fine di tutelare le persone e la professione stessa. Preso tra due fuochi quali l’obbligo giuridico e la responsabilità etica, il terapeuta spesso si sente vincolato e limitato nella sua attività mettendo in atto un atteggiamento difensivo o di chiusura che lo rende impermeabile e poco sensibile a quegli aspetti che, ad una prima analisi, possono sembrare spinosi e pericolosi ma che, con un maggior grado di consapevolezza e di apertura, possono rivelarsi ottime occasioni per migliorare la propria professione e distinguerla qualitativamente dalle altre. Uno di questi è l’uso del contratto in terapia.
Delineato nel vigente Codice Civile e reso obbligatorio in tutte le professioni dal Decreto Legge 1/2012, rinominato “Cresci Italia”, il contratto terapeutico è diventato una realtà che ogni professionista è tenuto in qualche misura a considerare regolando i propri comportamenti rispetto ad esso. L’art. 9 comma 3 del suddetto decreto infatti recita: «Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso, previamente resa nota al cliente anche in forma scritta se da questi richiesta, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. L’inottemperanza di quanto disposto nel presente comma costituisce illecito disciplinare del professionista»[1]. Adeguandosi a queste richieste, l’Ordine Nazionale degli Psicologi ha predisposto un fac-simile di un “Atto di conferimento di incarico professionale, riconoscimento di pattuizione parcella e di avvenuta informazione” per far sì che tutti i professionisti abbiano un modello condiviso, ma lasciando carta bianca a chi volesse, per qualche motivo, modificarne il formato nel rispetto degli obblighi di legge.
Il contenuto del documento è volto a specificare sostanzialmente i dati del cliente (anagrafica e codice fiscale) e quelli del terapeuta (anagrafica, codice fiscale, indirizzo dello studio, partita IVA, numero di iscrizione all’Albo dell’Ordine degli Psicologi, autorizzazione all’esercizio della psicoterapia e informazioni sulla polizza assicurativa). In seguito viene indicato il tipo di attività professionale eseguita e la metodologia utilizzata; la durata, la frequenza e il compenso pattuito. Infine c’è lo spazio per la sottoscrizione di entrambi i soggetti coinvolti. Fin qui niente di particolarmente complicato per i professionisti in quanto si tratta di esplicitare e rendere in forma scritta alcuni degli elementi fondamentali del setting terapeutico (fatta eccezione forse per la voce riguardante la “durata” della terapia, che può facilitare le psicoterapie brevi, che hanno una durata prevedibile, penalizzando forme di psicoterapia a lungo respiro). Per fortuna tra gli psicoterapeuti c’è un’attenzione particolareggiata a questi temi, base di partenza per l’instaurarsi di una buona alleanza terapeutica e per un’ottima riuscita della terapia. Riferire e consegnare al cliente le suddette informazioni in forma scritta, tuttavia, non va sottovalutato in quanto, in caso di lite giudiziaria, il documento prodotto fungerà da prova delle informazioni veicolate e della correttezza professionale. Esso, inoltre, rappresenta quanto basta per legge a delineare il rapporto giuridico patrimoniale che un intervento terapeutico viene a creare tra i due attori coinvolti. Ad una attenta analisi notiamo che esso è orientato in maniera sbilanciata verso una veicolazione di informazioni di tipo professionale (e amministrativo) e manca completamente qualsiasi riferimento in merito al motivo specifico che ha portato il soggetto a richiedere un intervento terapeutico. Il contratto professionale, così come lo abbiamo delineato finora, esula da un qualsiasi tipo di contratto terapeutico in quanto la parcella del professionista è giustificata semplicemente dall’impegno e dal tempo che dedicherà al soggetto (quantificate nel contratto stesso), secondo quanto accordato all’avvio del trattamento. Il contratto terapeutico è logicamente e sequenzialmente successivo: esso rappresenta l’accordo in merito agli obiettivi concreti che la coppia terapeutica si prefigge di raggiungere ed è privo di effetti giuridici. Qualche professionista più sensibile lo considera facente parte del processo stesso di terapia. Per legge, quindi, una persona che si rivolge ad un terapeuta paga l’onorario solamente per la professionalità metodologica che quest’ultimo ha acquisito durante gli anni di formazione e per il tempo che gli ha dedicato in vista del raggiungimento dell’obiettivo concordato. Chiarisco meglio il concetto: «dal punto di vista del diritto, l’obbligo non è quello del raggiungimento del risultato, ma soltanto quello di destinare al cliente il tempo e l’opera intellettuale. La conseguenza è che, anche se lo scopo non viene raggiunto, dovremo considerare adempiente lo psicoterapeuta che, comunque, ha mantenuto il suo impegno (Giusti, 1998)»; e ancora «il cliente paga perché l’operatore faccia attenzione a lui invece che agli affari suoi, come farebbe se non stesse lavorando, e lo faccia con l’intenzione di fare qualcosa che lo aiuti: se poi la qualità del lavoro non lo soddisfa, non gli resta che cambiare operatore (Quattrini, 2003)». Questo aspetto risulta più chiaro se consideriamo la psicoterapia, al pari di professioni come quelle mediche e giuridiche, facente parti di una categoria distinta secondo il principio dell’obbligazione di mezzi e non di risultati[2]: anche per la terapia infatti, il successo o l’insuccesso del trattamento non è legato esclusivamente alle azioni del professionista ma dipende in gran parte da fattori che non sono sotto il suo diretto controllo. Tutto ciò rappresenta l’informazione più problematica da trasmettere ai propri clienti: questi ultimi entrano in terapia con un tale carico di “aspettativa” nei confronti del clinico e del trattamento che bisogna ridimensionare la relazione terapeutica veicolando da subito gli opportuni dati affinché sia chiaro a tutti questo cruciale aspetto. Ciò che è opportuno comunicare (e provare a mettere in pratica) è la possibilità che il clinico, con i suoi comportamenti, ha di favorire il processo di cambiamento facendo tutto il possibile affinché esso sia portato a conclusione nel miglior modo possibile. Come acutamente è stato detto da Cirillo infatti, il medico che trascura l’ammalato o l’avvocato che diserta le udienze [o il terapeuta che non prova “interesse” per il proprio cliente] sono per ciò stesso inadempienti, anche se il malato dovesse guarire o la causa essere vinta per qualche fortunata congettura [o il cliente dovesse star meglio grazie ad altri fattori avulsi dalla terapia]; così come gli stessi professionisti andranno esenti da ogni responsabilità, anche in caso di esito infausto della malattia o di sconfitta in giudizio [o di peggioramento delle condizioni psichiche], qualora dimostrino di essersi comportati con la diligenza che il caso richiedeva e senza trascurare nessuna delle attività concretamente esperibili in rapporto al necessario bagaglio di conoscenze tecniche che fanno da corredo a ogni professione intellettuale.
E alla base di un comportamento ottimale di un terapeuta, a mio avviso ci potrebbe essere la possibilità di rendere esplicito il contratto terapeutico, rendendo il cliente più attivo nella scelta degli obiettivi da raggiungere e rendendolo principale protagonista del suo processo di cambiamento. In una professione come la nostra, dove la chiave di ogni soddisfazione personale e professionale è legata alla “relazione” che si viene ad instaurare nella coppia terapeutica, si ha l’obbligo non giuridico ma etico, di rendere chiari, concreti e verificabili i risultati che si intende conseguire insieme. Spesso, tuttavia, il contratto terapeutico, parte integrante del processo terapeutico, viene tralasciato o trascurato, senza mostrargli la giusta importanza. Questo comportamento è il risultato di un’impostazione metodologica che non lascia troppo spazio a questo strumento; altre volte è semplicemente la conseguenza di una superficiale attenzione prestata dai terapeuti a questo specifico tema. Comunicare al cliente solamente il contratto amministrativo/professionale e trasmettere in maniera poco chiara il contratto terapeutico può confondere la persona e certamente la “passivizza” almeno in parte durante il processo terapeutico. Eppure per capire l’importanza di chiarire, rendere comprensibili e condivisibili gli obiettivi della terapia non bisogna andare troppo lontano: basta leggere tra le righe l’Art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi, e il corrispettivo Punto A (comma 1) del Codice Deontologico degli Psicoterapeuti, in cui si sottolinea l’importanza di rispettare “l’autonomia e l’autodeterminazione” di tutti coloro che si avvalgono di una prestazione psicologica o psicoterapeutica.
Alla luce di quanto esposto fino ad ora, la presenza del contratto in terapia, in tutte le sue forme, può rappresentare un’ottima occasione per assolvere agli obblighi di legge, agli obblighi professionali e a quelli etici; esso inoltre può migliorare considerevolmente la qualità della psicoterapia come professione, tracciando un solco netto e distinguendola completamente da tutte quelle forme di pseudo-terapia o che si spacciano come tali. Infine, l’utilizzo del contratto in forma chiara e condivisa può fungere da simbolo per ritrovare una nuova identità professionale che ci possa identificare in maniera univoca agli occhi della collettività.
BIBLIOGRAFIA
BUONAIUTO G., Il contratto in terapia. Guida pratica al primo approccio con il paziente,
FerrariSinibaldi Editore, 2013, Milano.
CIRILLO F. M., I limiti della responsabilità civile del professionista intellettuale, in
www.studiolegaleriva.it/public/responsabilita-professionista-intellettuale.asp.
GIUSTI E., PASTORE F., Dialoghi sulla deontologia in psicoterapia: intervista all’avvocato sugli
aspetti giuridici della professione, Armando Editore, 1998, Roma.
QUATTRINI G.P., La gestalt nella scuola di formazione di Firenze, in “Informazione Psicoterapia
Counselling Fenomenologia” n° 1, gennaio – febbraio 2003, ed. IGF. Roma.
[1] Per la visione completa del testo:
http://media2.corriere.it/corriere/pdf/2012/DL_LIBERALIZZAZIONI-testo-24-pulito.pdf
[2] Nell’obbligazione “di mezzi” il professionista è tenuto soltanto a dispiegare il proprio impegno senza essere obbligato a garantire al cliente il raggiungimento di un certo “risultato”; nell’obbligazione “di risultati”, invece, il professionista è obbligato nei confronti del cliente proprio ad uno specifico risultato, ossia fino alla soglia dell’impossibilità sopravvenuta derivante da causa a lui non imputabile.