Tutti crediamo nella preoccupazione buona

Tutti crediamo, in cuor nostro, di sapere “cos’è la preoccupazione” e sorridiamo quando assistiamo qualcuno attraversato da questa sensazione, magari dispensando una qualche rassicurazione generica. Eppure è proprio nella pratica quotidiana che ci si accorge quanto sia difficile tranquillizzare un preoccupato, e ancor di più, riuscire a tranquillizzare se stessi nei momenti difficili. Che si tratti di superare un esame, affrontare un problema di salute, o gestire delle difficoltà di lavoro, la preoccupazione sembra scaturire dall’impossibilità di una previsione certa di un evento, evento che si vorrebbe controllare completamente, ma che sembra sfuggire di mano.

Per chiarire il discorso sulla relazione tra preoccupazione e controllo prendiamo in considerazione il controllo affettivo.

Quando parlo di controllo affettivo, mi riferisco al tentativo di gestire il comportamento dell’altro, rendendolo prevedibile ed inoffensivo.

Mi riferisco anche al desiderio di poter negare l’autonomia e l’indipendenza dell’altro, fino a gestire la vita dell’altro in maniera asfissiante.

Molte volte è sottesa l’idea che l’amore e la preoccupazione debbano viaggiare sulla stessa strada; ed anzi spesso si ritiene che la preoccupazione sia la misura con la quale si può misurare l’amore provato verso l’altro.

Come se ci fosse una equazione perfetta tra i due, si tende a pensare che quanto più si ama qualcuno tanto più si sarà preoccupati.

Eppure non è difficile individuare nella preoccupazione uno strumento di potere e di controllo sull’altro, una forma di potere che non dà spazio all’autonomia dell’altro, tenendolo in uno stato di subordinazione e di dipendenza infantile.

Si tratta molte volte di un potere che nasconde il suo autoritarismo dietro le motivazioni dell’amore eccessivo, o della presunta debolezza dell’altro, ma anche della eccessiva pericolosità del mondo.

Una madre raccontava:

“ Mio figlio ha perso la testa per una donna che a me non è mai piaciuta. Io forse mi ero affezionata a quella precedente, lui me ne ha portato a casa varie. Comunque la nuova ragazza mi sembrava volgare, mi sembrava che volesse approfittarsene di lui, e così ho tentato di convincerlo in tutti i modi a lasciarla. D’altronde è mio compito aiutarlo(?), e così ho iniziato a mandare dei messaggini sul telefonino di mio figlio fingendomi una amante. Lei alla fine ha creduto che lui avesse un’altra e lo ha lasciato. Forse da fuori può sembrare che io sia stata un po’ troppo, non so, invadente, ma lui non poteva capire, era troppo innamorato, non aveva testa, e lei voleva solo approfittarsene. L’ho fatto solo per il suo bene. Forse un giorno me ne sarà grato”.

Curioso modo di volere bene quello di intrudere nella vita del figlio, ergendosi a giudice e artefice del suo destino, a tal punto da utilizzare un escamotage violento e aggressivo.

Violenza che si scherma dietro il pretesto dell’amore, e che si agisce sulla base dell’imposizione dei propri pregiudizi.

Una violenza che appare come un “eccessivo amore” o come “cuore di mamma” e che assume le forme della naturalezza del comportamento protettivo, mentre viene esercitata in realtà con estrema disinvoltura.

Una violenza che non può mai essere contraddetta, perché, come si suol dire “la mamma è sempre la mamma”, ed ogni forma di autonomia diviene un sabotaggio al rapporto, ogni movimento inaspettato un tradimento ed una ferita profonda.

Nel resoconto della madre emerge un’ immagine di una relazione molto netta dove il figlio ha precise caratteristiche.

Il figlio in questione non è mai un uomo libero di scegliere, ma un cucciolo da proteggere, e da salvaguardare, incapace com’è di badare a se stesso.

Come si può notare dall’esempio, il controllo veicola un messaggio doppiamente negativo: da una parte si misconosce la libertà dell’altro, dall’altra si afferma la sua inettitudine. Un’ ipotesi che possiamo formulare rispetto alla relazione che il preoccupato, consapevolmente o inconsapevolmente, crea con l’altro, è che si tratti di una relazione non paritaria, contrassegnata da un dislivello.

Il dislivello è quello tra un adulto ed un bambino, con tutto ciò che ne consegue. È caratterizzato da una anticipazione dei bisogni e dei desideri dell’altro, da una sostituzione dell’altro.

Questo discorso eredita in parte la struttura di relazione che si può avere con un bambino piccolo che, ancora inesperto, si caccia nei guai senza avere strumenti per potersi barcamenare.

Nei rapporti tra adulti la situazione, almeno a livello ideale, dovrebbe essere ben diversa: ci dovrebbe essere il presupposto di una condizione di individualità percepita, di dipendenza adulta. La strada dei rapporti spesse volte invece prende altre direzioni.

Un aspetto implicito nel dialogo tra il preoccupato e colui che preoccupa è il dislivello di potere tra i due. Chi è preoccupato per l’altro sa o, almeno, presume di sapere, cosa sia bene e renda felice l’altra persona. Questo presuppone inoltre una consapevolezza piena dei mali della vita, delle brutte strade da prendere, delle pieghe pericolose che le situazioni prendono, come anche delle cattive amicizie che deviano.

Mentre i preoccupati si ritrovano vincolati ad una esistenza fatta di ansie e diffidenze, “i preoccupanti” si ritrovano, non di meno, ad essere prigionieri di una colpevolizzazione estenuante. Da entrambe le parti comunque vi è la persistenza di un modello relazionale che porta a sostenere dialoghi sbilanciati.

Entrambi sono incastrati in un rapporto di potere che li sottopone ad una reciproca schiavitù, limitando libertà di movimento ed autonomia personale.

Se poi prendiamo per vera la considerazione secondo cui amare significa accettare l’altro, difendendo la possibilità che ognuno possa esprimere le proprie diversità e la propria autonomia, si capisce bene quanto la preoccupazione sia un impedimento al rapporto.

Con ciò non voglio dire che non esista una preoccupazione, per così dire, buona; sto ancora una volta prendendo in considerazione l’ipotesi che quando un rapporto è basato unicamente sulla preoccupazione dell’uno sull’altro, si sta portando quel rapporto verso l’asfissia, e verso la immobilità.

Quando le attese preconfezionate diventano i padroni incontrastati delle relazioni risulta difficile vedere l’altro come persona nelle sue peculiarità.

Stiamo parlando in definitiva di una forma di amore che toglie la possibilità di considerare l’altro una persona adulta e che ne azzera la personalità.

NienteAnsia