In nome del Padre, della madre e del coniuge – Le apparenze sociali – L’ossessione identitaria

C’è un dibattito che arrovella i paesi di cultura occidentale, visto il significato per loro rivestito dall’invocazione che apre la principale preghiera della religione professata dai più:  il “nome del padre”. Che sia questo uno, e forse il fondamentale, motivo che impedisce di modificare qualcosa nella tradizione del cognome si è largamente autorizzati a supporlo.

Nonostante si riconosca da varie parti che l’obbligatorietà del cognome paterno si dimostri come un retaggio di un’arcaica concezione di famiglia patriarcale e si inviti ad accordare a entrambi i genitori uguale diritto nell’attribuire ai figli il proprio cognome, la statistica è marcatamente a favore della soluzione paterna, molto ma molto di più rispetto al doppio cognome e solo un’esigua minoranza propenderebbe per il cognome materno, il quale, dobbiamo sottolinearlo, per tanto tempo, forse troppo, come nel caso dei cognomi di fantasia, di santi del giorno o di località, ha rivelato una vergognosa mancanza di legittimazione da parte di qualcuno, appunto il detentore della patria potestà.

Il cognome rappresenta, ancora, come una specie di sedimentazione, in ognuno, della storia e (perché no?) anche della geografia e dei suoi risvolti antropici, che colloca la nostra identità in precise coordinate spazio-temporali quanto mai utili a definirci (Esposito non è affatto la stessa cosa di Brambilla, a seconda che ci si situi in Campania o in Lombardia). Quando ci si presenta si forniscono dei dati descrittivi che inseriscono la nostra individualità in una cornice che solamente l’omonimia può incrinare indelebilmente e allora sì che è necessaria un’ulteriore distinzione: di paternità, maternità, provenienza, grafia nella scrittura, aggiunte di altri nomi o indicazioni si soprannome.

Non è questione da poco per chi, come me, si chiama Ierace, la cui iniziale può essere trasformata facilmente in J, G, o in Y, magari preceduta da una muta H, e la finale, a seconda di dove ci si trovi diventa “e” o “i” (Gerace, Geraci siculo); in Sicilia, sommando il tutto, si arriva perfino a Iraci. Ma questo, direte Voi, sono fatti tuoi. E no, perché si potrebbe ripetere un ragionamento analogo per Rossi, Bianchi e Verdi, Russo, Ferrari, Colombo, Romano, ecc. che risultano i più diffusi assieme a Ricci, Conti, Marino, Costa e Greco. Lo avevo anticipato, non è cosa da poco!

In Giappone, fino al XIX secolo, l’uso dei cognomi era quasi esclusivamente riservato all’aristocrazia. Cognomi matrilineari esistevano in Cina prima della dinastia Shang (1600-1046 a.C.), ma, nelle società patriarcali, anche se non proprio “per omnia sæcula sæculorum”, il cognome di nobili e plebei è stato sempre quello dell’unico titolare dell’autorità all’interno del più piccolo nucleo comunitario, il “pater familias”.

Adesso che, in periodo di parità tra i sessi, si vuole lasciare alla famiglia la piena libertà di attribuirsi un proprio statuto anagrafico, cosa sta succedendo? Stiamo assistendo agli ultimi colpi di coda di un patriarcato, che consapevole del proprio tramonto, manifesta una certa resistenza a cedere le armi o è la figura del padre che mantiene, tutto sommato, almeno nell’immaginario collettivo, i tratti essenziali, anche se forse non più dell’autorità, almeno quelli della tradizione e dell’identità? Si ricordino i tormentati rapporti mitici tra Telemaco e Ulisse, Agamennone Oreste ed Elettra, Edipo Laio e Giocasta, per non proseguire con la successiva generazione della saga
tebana: Antigone, Ismene, Polinice ed Eteocle.

In un articolo di Silvia Vegetti Finzi (e si noti la compresenza dei due cognomi, il suo, di lei, e quello del marito, in una donna, di certo, pienamente emancipata), apparso sul “Corriere della Sera” (del 26 maggio 2013), al quale ha fatto eco (con la minuscola) l’Umberto con la maiuscola, ne “La bustina di Minerva” de L’Espresso (n. 22 del 6 giugno 2013), il dilemma viene brillantemente affrontato in una dimensione profondamente psicologica: “la figura paterna è diventata così fragile che, esautorarla ulteriormente”, la danneggerebbe in maniera del tutto gratuita, in netta antitesi “con la necessità di conferma e di sostegno” invocata dalla maggior parte. “In confronto all’evidenza fisica, corporea della maternità semper certa, concedere al padre la trasmissione del cognome può essere considerato un risarcimento simbolico che riequilibra la naturale asimmetria della generazione”.

Nei paesi ispano-americani, eccetto che in Argentina, i figli assumono sia il primo cognome del padre che il primo della madre. Negli Stati Uniti d’America, una coppia può decidere di chiamare il figlio con il cognome della madre, o comunque di aggiungerlo, anteponendolo al cognome paterno. Cosa succederebbe, se però alla discussione sulla trasmissione del cognome potessero partecipare pure i nonni, sia quelli autorizzati dal presunto padre che quelli per diritto matrilineare?

Eco (con la minuscola) si ferma ironicamente al paradosso della logica genealogica, non sempre razionale, e prospetta uno scenario iperbolico che riporta ancora una volta ai cognomi di fantasia, non del tutto dissimili da quelli di provenienza (geografica o storica), professionali o di clan. In Irlanda, buona parte dei cognomi si sono formati con la particella gaelica “Ó”, che per l’appunto indica la discendenza da un comune avo.

Per molto tempo, l’identificazione formale ha, normalmente, incluso il luogo d’origine e, sino a qualche decennio fa, pure il patronimico. Nell’antichità si faceva ricorso alla denominazione della gens d’appartenenza. I “tria nomina” della Roma repubblicana non davano adito a dubbi. Perché un prenome, paragonabile al nome proprio di persona, distingueva l’individuo, il nomen, paragonabile all’odierno cognome, denotava l’appartenenza a una stirpe, e il cognomen, che potrebbe essere considerato una sorta di soprannome, poteva indistintamente rappresentare un contrassegno personale o quello peculiare di un determinato ramo di famiglia. Pochissimi restavano riconoscibili per un irripetibile signum o supernomen (Augusto, per esempio).

Da allora, per definire le caratteristiche della persona, è rimasto popolarmente in vigore il soprannome, che un tempo era molto spesso un pregio o difetto fisico, l’indicazione del padre e della madre, o del mestiere dei familiari. Da questo punto di vista,  Chioggia è davvero un caso demografico unico. La singolarità campana invece prevede anche la derivazione dai santi della devozione locale (Sanfelice, Sanciro) oppure dei lunghissimi nomi composti (tipo  Castrogiovanni o Saltalamacchia). Nel medioevo questi aspetti vennero accentuati a tal punto da pervenire, in qualche modo, al cognome moderno, che in conclusione può essersi originato da una caratteristica peculiare di un antenato, dalla sua occupazione o stato sociale, dal luogo d’origine, o semplicemente dal nome dei genitori.

In Islanda la pratica del patronimico è esasperata fino al risultato di avere differenti cognomi in una stessa famiglia, a seconda del genere: ognuno assume come cognome il nome del padre seguito dal suffisso -son se maschio, -dottir se femmina. In Lituania regole simili valgono sia per i figli sia per la moglie: nei figli maschi il cognome finirà in –us, nelle figlie in –ut? e la moglie assumerà il cognome del marito con desinenza in -en?.

 

Esistono tradizioni per le quali non è ammissibile che la moglie mantenga un cognome diverso da quello del marito. In altre situazioni è permesso mantenere il cognome da nubile e in altre ancora è possibile l’esatto opposto, cioè che l’uomo prenda il cognome della moglie. In Giappone, entrambi i coniugi possono cambiare cognome e alcuni scelgono di mantenere ambedue, magari uniti con un trattino. Alle donne ungheresi sposate viene proposto persino di sostituire il proprio cognome e nome (nell’ordine tipico che, per i magiari, pone prima il cognome) con il cognome e il nome del marito seguiti dal suffisso –né.

Vincenzo Jerace (anche lui polìstenese, ma con la J iniziale), dopo la scomparsa della consorte Luisa, giusto mentre stava fondendo in bronzo la statua colossale del Redentore, collocata sulla montagna dell’Orthobène (vicino Nuoro), in ricordo di lei, aggiungeva alla propria firma  una “L”. Grazia Deledda gli avrebbe scritto il 17 agosto 1902: “Se è vero che il nostro spirito sopravive e va al di là del vento della vita, qualche sera di luna come quella di ieri sera, un convegno d’anime di poeti sardi ricorderà lo spirito dell’artista e della sua diletta, e farà ghirlanda al suo monumento, il cui simbolo d’infinita pietà e amore avrà finalmente conquistato la rude anima sarda”.

Se l’elaborazione del lutto, in Vincenzo Jerace, necessitava dell’inglobamento di qualcosa (la L) che riguardasse l’oggetto d’amore, per meglio metabolizzarlo, nel caso di Salvador Domènec Felip Jacint Dalí i Domènech emerge una cervellotica ricerca di completamento androgino. Dopo aver conosciuto Gala (Elena Ivanovna Diakonova), la sceglie quale musa ispiratrice che su di lui probabilmente esercitava una fortissima influenza stabilizzante, tanto che, dalla metà degli anni Trenta del Novecento firmava i suoi quadri con entrambi i loro nomi. “Quando quella testa scoppierà, apparirà il fiore,/ il nuovo Narciso, Gala, il mio Narciso”.

Il riferimento mitico alle Metamorfosi di Ovidio e alla nascita di Atena, già
adulta e armata, dal capo di Zeus, sembrano fin troppo evidenti, almeno quanto il narcisismo dell’autore della poesia e dell’opera “Le metamorfosi di Narciso”, quasi l’autoritratto onirico di un surrealista. Nella poesia, però Dalì fornisce un’ulteriore spiegazione che è come se chiudesse il cerchio, grazie all’espressione catalana “avere un bulbo in testa”. Guardarsi allo specchio equivale ad avere un bulbo in testa e soffrire di un complesso freudiano. Da una presenza spettrale scaturisce nuova linfa vitale, il fiore del narciso da un uovo; in secondo piano, e in contrasto con un ermafroditismo  egocentrico, poi, dei nudi rimpiccioliti, definiti “il gruppo di eterosessuali”, forse i pretendenti respinti.

Freud non aveva mai preso in seria considerazione il movimento surrealista, ma dopo aver visto il quadro di Dalì, confessò che “il giovane spagnolo, con i suoi occhi ingenui e fanatici e la sua indubbia maestria tecnica, mi ha fatto cambiare idea”.

Il suo repertorio di simboli visivi li coglieva quasi sempre dagli elementi onirici. Aveva coniato l’espressione “metodo paranoico-critico” per descrivere le modalità con cui la mente umana riesce a stabilire relazioni tra immagini che non hanno alcun nesso razionale tra loro. E così, alla stessa maniera in cui Freud analizzava il significato dei sogni, Dalì si proponeva il percorso sintetico inverso, unendo differenti parti del subconscio in una raffigurazione interpretabile. Fra i temi complessi che collegano Freud a Dalì, il narcisismo non può che essere, in assoluto, il più rappresentativo.

L’esibizionismo di Dalì, nonostante fosse davvero smisurato, non sempre riusciva a stupire se stesso: “E’ molto difficile scioccare il mondo ogni ventiquattro ore”. La vanità del resto, “proprio perché ha per oggetto il nulla”, come ammette Barbara Carnevali, in “Le apparenze sociali” (il Mulino, Bologna 2012), si dimostra “distruttiva e potenzialmente mortale, votata all’annichilimento”, e in questo intimo collegamento stabilisce uno dei suoi tratti culturalmente più persistenti in una sorta di prematuro cenotafio.

 

Il valore positivo del narcisismo potrebbe invece mettersi in gioco dinamicamente in una relazione di riconoscimento che conferisca un qualche valore protettivo all’autostima. Nella condizione di natura, soddisfatto dall’autosufficienza cognitiva ed emotiva, dettata dalla spontanea espressività immediata, priva di scopi rappresentativi, l’io non valuta lo sguardo altrui. Il problema si pone quando non ci si accontenta più di noi stessi e “vogliamo vivere nell’idea degli altri una vita immaginaria, e per questo ci sforziamo di apparire”, come scrisse Pascal, aggiungendo: “lavoriamo incessantemente ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario, e trascuriamo quello vero”.

Sembra la descrizione di chi si nasconde dietro un nickname, un nome di battaglia o nom de plume; nomi d’arte, pseudonimi, che possono essere sigle, combinazioni di lettere e numeri, ma, ancora una volta, soprannomi. Da qui all’alter ego il passo è breve; tutta questione di struttura di personalità. Spesso, se non ci si trova nel campo della risoluzione di omonimie, oppure dell’evitamento di determinate attinenze inadeguate o ancora fin’anco dell’assunzione di una falsa identità, si tratta piuttosto di simulare o dissimulare rapporti.

In “Nachgelassene Fragmente” (1880-1881), Nietzsche si dimostra illuminante per chiarire quest’aspetto della nostra ossessione identitaria: “Noi inventiamo noi stessi come unità in questo mondo di immagini da noi stessi creato”.

L’unità del “noi” è un’invenzione, una finzione fin dall’inizio, spiega Francesco Remotti (“L’ossessione identitaria”, Laterza, Bari 2010). E’ ciò che i “noi” immaginano di essere, o meglio le loro costruzioni identitarie, in quanto finzioni, letteralmente plasmate, a incidere sui loro stessi modelli. Insomma è il nazionalismo, come sostenne Ernest Gellner (“Nations and nationalism”, 1983) a creare le nazioni e non viceversa.

La distinguibilità da ciò che è diverso, e quindi la separatezza necessitano di uno sforzo immaginativo superiore all’afferrabilità dell’identità. Robert Lowie aveva provocatoriamente proposto una definizione di cultura intesa come “quella cosa fatta di stracci e toppe” (“Primitive Society”,1920), per sottolineare come sia la carenza di organicità e di coerenza a incrinare i mal riusciti tentativi di sistematicità. L’eterogeneità è parte integrante del disegno e l’alterità è insita all’identità che è fatta di negoziazione e compromessi. E’ la contaminazione a sostanziarci, essendo sempre, nolenti o volenti, figli di un meticciamento antropologico, nel cui originario sincretismo, le famiglie  dei noi e degli altri coesistono, in quanto genitori, fratelli, nonni, zii, cugini. Cos’è la regola dell’esogamia se non un esplicito e programmatico ricorso all’alterità a fini riproduttivi, e di conseguenza biologici, demografici, antropologici, sociali.

In “Identifying Identity: A Semantic History” (1983), Philip Gleason evidenziava la conflittualità tra le due difficoltà, di fare a meno del termine identità, a causa delle aspettative ormai generalizzate sul suo utilizzo e quell’altra di fornire adeguata definizione del suo contenuto semantico. Da un punto di vista analitico, il concetto di identità rimanda a quello di sostanza. Ma, dal punto di vista filosofico, ciò è superato dalla trasformazione, secondo un processo storico coinvolgente. Un ricorso sempre più consistente al termine identità appare parallelo al decremento della generalizzazione in favore di interessi particolaristici, al tramonto di un’impostazione universalistica.

Mentre è stato Milton Hyland Erikson a contribuire in maniera determinante a ricercare “qualcosa di interno” in strutture psichiche profonde, in grado di persistere “attraverso il mutamento”, il costrutto sociologico s’è orientato verso l’artificio, scaturito da un’interazione tra individuo e società, quindi mutevole “secondo le circostanze”. E qui si torna nuovamente al problema della rappresentazione del sé, del presentarsi e dell’apparire in un contesto sociale in cui l’attore deve recitare su di uno scenario che provveda alla costruzione di una “realtà” originariamente incompleta.

Non vi sono dunque solide strutture materiali a supportare la rappresentazione, ma semplici intrecci e occasioni, con le loro interazioni e dialettiche, a influenzare continuamente ciò che, di volta in volta, si assembla. Insomma, per rimanere nella metafora teatrale: si recita a soggetto.

Ludwig Wittgenstein (“Philosophische Untersuchungen”, 1953) sosteneva che la via maestra esiste solo nella nostra illusione, la realtà è fatta di viuzze laterali. E Stephen Mitchell (“Relational Concepts in Psychoanalysis. An Integration”, 1993) ha proposto il superamento di quest’impasse, ridefinendo la mente, non più dall’interno, bensì sulla base dei campi di queste interazioni e transazioni.

Ogni io, ogni noi, si costituisce proprio grazie all’apporto dell’alterità. Nelle lingue europee si impiega l’espressione noi-noi e noi-altri per segnalare ulteriormente, in prima battuta, la contraddizione, e subito dopo la singolarità della configurazione dell’intreccio e della compresenza. In romanesco questo gioco di contrapposizioni viene reso ancora più efficace a sottolinearne peculiarità ed esclusività: noantri, voantri.

Paradossalmente il rapporto d’identità s’afferma nel riconoscimento dell’alterità: il ”je est un autre” di Arthur Rimbaud avrebbe trovato complementare corrispondenza in un “tu-sei-me”, perché, grazie alla Psicotematica di Bernardino Del Boca, è possibile seguire la trama delle relazioni di cui è intessuto il reale, tenendo contemporaneamente anche conto della dinamica delle trasformazioni che quelle connessioni alimenta.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

Carnevali B.: “Le apparenze sociali”, il Mulino, Bologna 2012

Eco U.: “La bustina di Minerva”, L’Espresso, n. 22, 6 giugno 2013

Gellner E.: “Nations and nationalism”, Blackwell, Oxford 1983

Gleason Ph.: “Identifying Identity: A Semantic History”, Journal of American History, LXIX, 4, 910-931,1983

Lowie R.: “Primitive Society”, Liveright, New York 1920

Mitchell S.: “Relational Concepts in Psychoanalysis. An Integration”, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1993

Remotti F.: “L’ossessione identitaria”, Laterza, Bari 2010

Vegetti Finzi S.: “Perché non si riesce a cambiare la tradizione del cognome del padre”,  “Corriere della Sera”, 26 maggio 2013

Wittgenstein L.: “Philosophische Untersuchungen – Philosophical Investigations”, Blackwell, Oxford 1953