Aiutare gli altri è un valore indiscusso dell’umanità intera e rappresenta, come ha sempre rappresentato, la possibilità più efficace di continuare la nostra evoluzione a partire dalla sopravvivenza della specie fino a giungere alla massima espressione spirituale di gratitudine verso il dono della vita. E nell’aiutare gli altri è incentrata la vita di ognuno di noi.
L’aiutare gli altri consiste anche in molti mestieri; qui, nello specifico, parleremo delle professioni di aiuto nell’ambito della salute e delle condizioni fisiche e psicologiche vissute dalle persone che aiutano gli altri in difficoltà, a rischio della vita, nelle diverse fasi critiche della vita, nelle malattie invalidanti, nelle malattie terminali, nei comportamenti sociali deviati, nelle difficoltà del crescere e accudire giovani vite senza l’apporto di aiuti familiari e sociali condivisi – che noi sappiamo avvenire quando la rete affettiva supportiva viene a spezzarsi.
Tra il 1985 e il 1992 Charles R. Figley, professore capo del programma di Ricerca Stress Psicosociale alla Florida State University, sviluppa il concetto di “Compassion Fatigue” spiegando che è caratterizzato dallo stato di estrema tensione e preoccupazione che vivono coloro che attraversano la grande sofferenza di chi aiutano. Questa tensione comporta, per chi aiuta, un possibile trauma, come quando si assiste alla potente minaccia di morte o invalidità e/o alla inevitabile morte dell’altro come accade, per esempio, al personale di pronto intervento medico.
La Compassion Fatigue è dunque uno stato di profondo esaurimento fisico, emotivo e spirituale accompagnato da un acuto dolore emozionale ed è riconosciuto nell’ultimo decennio come lo stato soggiacente il Burnout negli operatori sanitari che lavorano nei settori di chirurgia, malattia mentale, medicina d’urgenza, ostetricia, medicina generale, medicina rurale e psicologia d’emergenza nonché nei volontari impegnati nel settore salute ed emergenza.
E’ uno stress di tipo vicario denominato Secondary Traumatic Stress Disorder; i suoi effetti sono molto simili a quelli del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) come descritto e classificato nel DSM-IV.
Chi sceglie di svolgere una professione di aiuto con una elevata implicazione relazionale ha in sé la predisposizione caratteriale per farlo, e i doni dell’empatia e della compassione si uniscono armoniosamente alle profonde passioni specifiche individuali. Da qui si sviluppano le motivazioni per studiare e approfondire questi campi dell’agire umano.
E’ un pregio che nella continua ricerca verso il miglioramento si siano affrontate le insidie che soggiacciono le professioni di aiuto in quanto questo ci porta a lavorare nello specifico di variabili discriminanti discostanti che nel tempo fanno la differenza tra onnipotenza e potere reale come la capacità di autocontrollo, la pazienza, il livello adattivo al cambiamento repentino, l’entusiasmo, l’ottimismo, le competenze formative in continuo aggiornamento, la capacità di portare a termine i compiti, la capacità di rialzarsi dopo una sconfitta, il riuscire a vivere in condizioni precarie, la cooperazione e la condivisione, la fiducia negli altri. E non meno importante di tutte le cose sopra citate, è la capacità di chiedere aiuto e di farsi a sua volta aiutare quando è necessario.
Dunque il rischio di depauperazione è pari alla sua espressione nel burnout istituzionale dove declina la qualità del lavoro e il ruolo del lavoro stesso e il clima in cui esso si svolge ed è riscontrabile dopo che per lunghi periodi ci si è concentrati esclusivamente sui bisogni degli altri senza concretamente prendersi cura di se stessi.
C.R.Figley spiega: ”Il rispetto per gli altri può dare energia e portare via l’energia in generale ma nel tempo l’energia può defluire e il caregiver può diventare meno compassionevole o può “bruciarsi” (burnout)”. Il rischio è che questo affaticamento della compassione venga percepito quando a malapena si riesce ancora a funzionare, diventando un rischio anche per le persone che si stanno in quel momento aiutando, scambiando per stanchezza e cattivo umore un estenuante e protratto stato di tensione fisica e psichica avvenuto gradualmente attraverso una lenta ma continua diminuzione della compassione nel tempo.
La metafora di sentirsi “come un disco rotto” dove la puntina del grammofono cade sempre nello stesso solco e la melodia si fissa incantata è appropriata per esprimere appieno il surplus psicofisico del soggetto che vive uno stato di Compassion Fatigue.
Si inizia non dando peso ai propri bisogni fondamentali e si giunge ad un apice in cui mangiare adeguatamente, dormire di un sonno ristoratore, svolgere esercizio fisico rigenerante, curare la propria igiene personale e avere svaghi sani non sono più priorità ma fastidiosi intoppi.
Anche il ritiro sociale è diffuso tra i professionisti dell’aiuto che spesso cambiano atteggiamento diventando distanti e inaccessibili ad alcune persone che da loro si aspettano comprensione.
La dimensione personale e il vivere con le persone significative diventa fonte di conflitti e si tende ad evitarla buttandosi a capofitto nel problema dell’altro di cui si è e ci si sente fortemente responsabili denotando, però, ai propri stessi occhi, una inaccettabile lenta indifferenza ad alcuni aspetti della cura o mal celando una anestesia emozionale di fronte alla morte di chi si stava curando.
Può accadere, così, che qualcun altro si accorga di incongruenze nell’agire e nella comunicazione di che vive la Compassion Fatigue.
Ad una indagine più approfondita riscontriamo che lo stato cognitivo del soggetto in Compassion Fatigue volge ad un deterioramento con un crescendo di credenze patogene: il soggetto lamenta una forte riluttanza verso il cambiamento, una incapacità a credere che un certo miglioramento sia possibile anche se si tratta solo della qualità dello stato emotivo della persona che si segue, una mancanza di visione del futuro, nello stesso tempo, una incapacità a completare i compiti necessari alla cura anche dell’altro.
Si sviluppano forti sentimenti di incompetenza e di dubbio di sé e ci si muove come burattini per “non sentire” il senso di vergogna di cui in realtà si è pervasi, per non riconoscere di avere dei limiti perché ci si pensava onnipotenti e indistruttibili nel livello empatico e nell’assunzione di responsabilità.
Il soggetto si sente profondamente ferito nelle aspettative ideali di se stesso e prima ancora che agli altri è a se stesso che vuole nascondere lo stato delle cose continuando a “fare” incessantemente.
Riconoscere questi sintomi è la chiave per avviare un processo di guarigione per se stessi e chiedere aiuto non è solo auspicabile ma necessario.
La valutazione del benessere e della risoluzione nel tempo verso questo traguardo è compito dello Psicologo Psicoterapeuta, il quale valuterà l’assunzione in carico del soggetto per una psicoterapia ricostruttiva.
Se il soggetto che vive uno stato di Compassion Fatigue è giunto ad un abuso di sostanze farmacologiche o di droghe pensando erroneamente di reggere meglio la fatica, il lavoro di risanamento sarà svolto in equipe con lo Psichiatra.
Il sostegno psicologico è indicato nei casi meno gravi e dove ancora ci sia una netta consapevolezza dei propri bisogni psicofisici.
Il counseling e il couching lavorano sulla motivazione e sulla crescita personale e in questo caso non sono adeguate in quanto la priorità è la ricostruzione dell’equilibrio emozionale necessario all’acquisizione di uno stile di vita sano.
Anche i gruppi di auto-mutuo-aiuto non sono utili in questa fase, alcuni pazienti a posteriori hanno dichiarato che parlare del proprio stato di Compassion Fatigue con qualcuno nella stessa condizione non è la strada da percorrere perché il rischio è di girarci intorno invece di affrontarlo. Ci vuole, in sostanza, qualcuno che osservi oggettivamente da fuori ciò che sta accadendo. Mentre la psicoterapia di gruppo ad approccio umanistico-esistenziale è un aiuto sostanziale ed apprezzato soprattutto dagli infermieri.
Le terapie sul corpo come la bioenergetica sono valide come passaggio successivo al riconoscimento di “dove si è” e nel periodo di rafforzamento del nuovo stile di vita.
Infine, la terapia d’elezione per la Compassion Fatigue degli operatori che si occupano di malattie mentali e di disagio psicologico è la supervisione individuale e di gruppo che viene effettuata periodicamente sia come forma di analisi del controtransfert sia come forma di prevenzione al profondo disagio di Compassion Fatigue.
Adottare misure per equilibrare la propria vita e imparare a bilanciare la vita in mezzo al caos sono parole d’ordine per non incorrere nella Compassion Fatigue.
BIBLIOGRAFIA
° Figley C.R. “Compassion Fatigue: coping with secondary traumatic stress disorder those who treat the traumatized.”, Brunner/Mazel, New York, 1995
° Maslach C. (1975) “La syndrome del Burnout. Il prezzo dell’aiuto agli altri.”, Cittadella Editrice, Assisi, 1997
°Quarta Edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV), 1994
°Trombini G. “Come logora curare. Medici e Psicologi sotto stress.”, Ed.Zanichelli, Bologna, 1994
Dott.ssa Anna Mostacci Psicologa Psicoterapeuta
E-mail: anna.mostacci@gmail.com