In un’alternanza di entusiasmo e scetticismo, si sente sempre più spesso parlare di ACT…ma di cosa si tratta? L’Acceptance and Commitment Therapy (più sinteticamente ACT, pronunciata come una singola parola) è una delle terapie definite di terza generazione che costituiscono la più recente evoluzione della terapia del comportamento. Essa fa ampio uso di strumenti linguistici come metafore e paradossi, abilità di mindfulness e moltissimi esercizi esperienziali, associatici ai tradizionali interventi comportamentali. La sua efficacia è dimostrata sperimentalmente per una vasta gamma di condizioni cliniche: depressione, disturbo ossessivo compulsivo, stress lavoro-correlato, dolore cronico, fobia sociale, ansia, panico, disturbo post traumatico da stress, anoressia, abuso di sostanze…
Nell’ACT, unico è il modello di psicopatologia, ma infinite le possibili declinazioni. La “semplicità” del modello (sottesa però da una complessa e solida base teorica e scientifica, abilmente tradotta e resa accessibile), parallelamente alla sua infinita duttilità, ne rende semplice ed efficace l’applicazione clinica. Le stesse caratteristiche rendono agevole l’applicazione dell’ACT in età evolutiva, grazie alla possibilità di tradurre esercizi e metafore tradizionali in un linguaggio immediatamente accessibile anche ai più piccoli.
Un breve accenno ai fondamenti teorici: l’ACT si fonda sulla Relational Frame Theory (RFT; Hayes et al., 2001), una teoria scientifica del linguaggio e della cognizione. In questo contesto il termine linguaggio fa riferimento sia al suo uso privato che a quello pubblico: facciamo uso pubblico del linguaggio, ad esempio, quando parliamo, raccontiamo o disegniamo; quando invece pensiamo, immaginiamo, pianifichiamo o, semplicemente, ci preoccupiamo, ne facciamo un uso privato.
Essa riconosce che il linguaggio è fondamentale per lo sviluppo, la trasmissione e il progresso della cultura umana poiché consente di per poter descrivere o categorizzare e rende possibili la creatività e il problem solving. Tuttavia, il linguaggio è anche fonte di sofferenza: le ricerche suggeriscono infatti che molti degli strumenti cognitivi che utilizziamo per risolvere i problemi, spesso ci intrappolano anche in situazioni che producono dolore (Hayes e Smith, 2010; Hayes et al., 2001). Ad esempio, l’abilità di creare una relazione del tipo se…allora… (necessaria per fare piani), ci rende capaci di predire eventi spiacevoli e di provare paura per qualcosa che forse (ma solo forse!) in futuro si presenterà. In maniera simile, costruendo relazioni valutative e comparative (abilità necessarie nel problem solving per fare valutazioni e confronti) possiamo paragonare noi stessi con un ideale e sentirci inadeguati, possiamo percepirci come inferiori agli altri o temere il giudizio altrui pur non avendone mai avuto esperienza diretta.
Poiché le persone soffrono, almeno in parte, perché possiedono il linguaggio, e poiché le stesse abilità verbali sono estremamente utili e irrinunciabili, ne consegue che la sofferenza è una parte inevitabile della condizione umana. Ciascuno di noi possiede dunque una mente in grado di evocare dolore in qualunque momento…proprio grazie al linguaggio!
Tuttavia, esiste la possibilità di imparare a gestire meglio le abilità che il linguaggio stesso ci ha dato; per questo motivo lo scopo dell’ACT è quello di insegnare a gestire il dolore in modo efficace per agevolare la messa in atto di azioni in linea con ciò che più è importante nella vita di ciascuno (Hayes e Smith, 2010; Harris, 2011; Luoma et al., 2007).
Un altro elemento chiave dell’ACT è l’enfasi posta sulla necessità di alterare il contesto in cui si verificano gli eventi interni, piuttosto che il loro contenuto. L’obiettivo della terapia non è tanto la modifica di pensieri ed emozioni attraverso la disputa logica e razionale, quanto piuttosto la creazione di contesti che possano alterare la relazione della persona con le proprie esperienze interne (siano esse pensieri, emozioni o sensazioni fisiche), indebolendo la tendenza all’evitamento esperienziale e favorendo l’azione efficace in linea con i propri valori (Hayes, 2004; Wilson, 2009).
L’ACT propone un modello di psicopatologia che include sei processi patologici a cui corrispondono altrettanti processi terapeutici. Fare ACT significa lavorare su questi processi ritenuti responsabili di quella che tecnicamente viene definita inflessibilità psicologica e che viene riconosciuta come elemento chiave nella strutturazione di una condizione psicopatologica (indipendentemente dal tipo di psicopatologia). Di seguito una breve descrizione dei processi patologici:
Fusione
Essere fusi significa restare intrappolati nei pensieri e nelle emozioni; in presenza di una condizione di fusione, essi dominano la nostra consapevolezza e hanno una grande influenza sul nostro comportamento. Se siamo fusi con i nostri pensieri ed emozioni ci faremo guidare da loro…e non sempre ci porteranno nella direzione da noi voluta; anzi, il più delle volte ci allontanano da ciò che per noi è importante, dai nostri obiettivi e dai nostri valori. La fusione costituisce il polo opposto del processo terapeutico chiamato defusione.
Evitamento esperienziale
L’evitamento esperienziale è il tentativo (del tutto spontaneo in ciascuno di noi) di cambiare la forma, la frequenza o l’intensità di eventi interni quali pensieri, emozioni e ricordi. In parole semplici, l’evitamento esperienziale fa riferimento alla tendenza a eliminare o allontanare esperienze emotive o pensieri spiacevoli. All’estremo opposto, in termini terapeutici, si colloca l’accettazione.
Dominanza di passato e futuro concettualizzati
Come effetto dell’evitamento e della fusione, si ha la tendenza a perdere contatto con il momento presente, ossia con l’esperienza nel qui ed ora; l’immediata conseguenza è che si passa molto tempo a rimuginare sul passato o a pianificare e prevedere il futuro. Anche in questo caso è possibile identificare un processo terapeutico corrispondente: il momento presente.
Attaccamento al sé concettualizzato
Fa riferimento alla tendenza a legarsi con forza e ad aderire rigidamente ad una descrizione di sé stessi (sia essa positiva o negativa) autoformulata. Questa descrizione è basata su dati oggettivi, ma non solo; generalmente include anche valutazioni sul ruolo che abbiamo, sui nostri desideri, sui nostri punti di forza e le nostre carenze, su ciò che amiamo e su ciò che detestiamo. Al polo opposto si colloca il concetto di sè come contesto.
Mancanza di chiarezza o di contatto con i valori
In alcuni casi il comportamento è guidato principalmente dalla fusione (ossia dal rigido attaccamento e dipendenza) con pensieri inefficaci e dall’evitamento di esperienze spiacevoli, piuttosto che da ciò che per l’individuo più conta nella vita. Ciò causa inevitabilmente scarsa motivazione, un minor senso di vitalità e pienezza, assenza di significato. Al contrario, obiettivo primario del processo terapeutico è chiarire ed entrare in contatto con i valori in maniera tale che divengano guida all’azione.
Mancanza di azione/impulsività/persistenza nell’evitamento
Con questa espressione si fa riferimento alla presenza di modalità di azione inefficaci, che non funzionano poiché non sono in grado di garantire una vita ricca, piena e di significato per l’individuo. Si può trattare di azioni impulsive e automatiche, anziché consapevoli, oppure azioni volte all’evitamento piuttosto che al perseguire un valore o, ancora, di completa inattività. All’estremo opposto troviamo l’azione impegnata.
Dopo aver presentato i punti cardine del modello provo a descrivere nella maniera più sintetica possibile come si declina il processo terapeutico all’interno del protocollo ACT.
Innanzitutto, in una prospettiva ACT, qualsiasi sia il problema presentato dal cliente e qualunque sia la categoria diagnostica di riferimento, il terapeuta si pone due interrogativi fondamentali:
– in quale direzione vuole andare il cliente?
– cosa lo sta ostacolando nel proseguire in quella direzione?
A differenza dell’approccio “topografico” dei manuali diagnostici, l’ACT propone una concettualizzazione “funzionale” del problema presentato: ciò significa che la concettualizzazione, così come la scelta dell’intervento, si focalizza sulla funzione dei comportamenti piuttosto che sulla loro forma. Capire la funzione di un comportamento (dove per comportamento s’intendono non solo le azioni osservabili, ma tutto ciò che la persona fa, incluso il pensare e il provare sentimenti) significa comprendere da dove viene e a cosa serve. Ad esempio, molti disturbi d’ansia sono mantenuti dallo stesso processo, l’evitamento esperienziale: nel Disturbo Post Traumatico da Stress, ad esempio, il paziente sta evitando pensieri e sentimenti correlati ad un evento traumatico; nel Disturbo di Panico sta evitando le sensazioni che si presentano durante un attacco; nel Disturbo Ossessivo Compulsivo ciò che viene evitato sono i pensieri ossessivi. Nonostante la forma/contenuto di ciò che viene evitato possa variare notevolmente, è possibile identificare un processo comune che assolve sempre alla medesima funzione (in questo caso l’evitamento esperienziale). Viceversa, è possibile che comportamenti topograficamente simili abbiano una funzione diversa (Luoma et al., 2007; Hayes et al., 2006).
In generale, l’obiettivo che ci si pone in un intervento ACT è quello di aumentare la flessibilità psicologica permettendo al paziente di acquisire la capacità di mettere in atto azioni consapevoli, di valore ed efficaci e di essere disponibile ad affrontare emozioni e pensieri spiacevoli. In sintesi, si tratta di favorire il passaggio da una modalità EVITANTE, FUSA, INCONSAPEVOLE e caratterizzata da AZIONE INEFFICACE a una modalità DISPONIBILE, DI VALORE, CONSAPEVOLE e caratterizzata da AZIONE EFFICACE (Harris, 2011).
In generale, il punto di partenza privilegiato per un intervento ACT è la creative hopelessness. Cosa significa? Significa promuovere, in primo luogo, la consapevolezza del fatto che cercare costantemente di controllare le nostre emozioni (assumendo che “più possiamo controllare come ci sentiamo, meglio staremo e migliore sarà la nostra vita”) è in realtà un ostacolo. Si promuove tale consapevolezza esaminando ciò che il cliente ha fatto e cerca di fare per far fronte alle problematiche che lo hanno indotto a chiedere un consulto psicologico. Ciò che il più delle volte emerge è la tendenza a mettere in atto frequentemente ed in maniera pervasiva strategie di controllo. In generale, rientra nelle strategie di controllo tutto ciò che facciamo per allontanare pensieri o emozioni indesiderate; tutte le strategie di controllo sono azioni primariamente motivate dall’evitamento esperienziale. Le strategie di controllo possono comprendere qualunque cosa: esercizio fisico, preghiera, meditazione, uso di alcol, distrazioni di qualunque tipo o, più semplicemente, il ripetere fra sé e sé che non è nulla, che non dobbiamo sentirci ansiosi o arrabbiati…ma cercare di controllare emozioni e pensieri spiacevoli ha senso? Funziona? Attingendo alla diretta esperienza del cliente, si mette in luce la non funzionalità delle azioni volte al controllo (Harris, 2010; Harris, 2011).
Successivamente, l’applicazione di un intervento ACT prevede la presa in esame dei processi patologici individuati, caso per caso, come responsabili dell’inflessibilità psicologica e quindi delle problematiche riportate dal paziente. Come ho accennato, l’intervento è basato su sei processi terapeutici. A seconda dei casi, alcuni di essi assumeranno maggiore rilevanza e verranno più ampiamente affrontati ed “allenati” nel corso della terapia. L’obiettivo ultimo è la promozione della flessibilità psicologica.
Nonostante sia utile descriverli in maniera distinta, è opportuno sottolineare che tale suddivisione è del tutto artificiosa:
“The divisions we make in the process model, an ostensibly unified event, are made for purely practical reasons. Breaking the model up into manageable parts allows us talk about the whole process picture in a manageable way. Yet, as we’ll see, all of the processes are entailed in all of the others. In comparison, we might analyze running in terms of its speed, rhythm, and biomechanics. But the running is still one thing. Speed, rhythm and biomechanics are ways of looking at the unified act of running. In a certain sense, they are inseparable from one onother. Likewise the six ACT core processes ought to be thought of as analogous to a gem cut into six facets. You could look into any of the six facets, but what you would see in that facet would be the reflections of each of the others”.
Wilson, 2009
L’obiettivo generale che un intervento ACT si pone è di insegnare abilità che consentano di occuparsi di pensieri ed emozioni in modo efficace, per far sì che abbiamo un impatto e un’influenza minori, di chiarire ciò che è veramente importante per poi stabilire obiettivi e intraprendere azioni che rendano la vita ricca e significativa.
Di seguito riporto più in dettaglio quali sono gli obiettivi che ci si pone nel lavoro su ogni singolo processo.
Accettazione: apprendere una modalità alternativa all’evitamento esperienziale per rapportarsi agli eventi privati (pensieri ed emozioni) indesiderati. L’accettazione non è di per sé il fine, ma è il mezzo per incrementare la capacità di mettere in atto azioni efficaci e utili, in linea con i propri valori (Luoma et al., 2007). Accettazione significa infatti lasciare spazio ai pensieri e ai sentimenti, indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o dolorosi; significa abbandonare la lotta ed entrare in contatto con pensieri ed emozioni con pienezza e senza difese, affinché l’evitamento esperienziale cessi di essere una barriera per l’azione.
Defusione: comprendere la vera natura dei pensieri e rispondere ad essi in base alla loro utilità, piuttosto che in modo letterale. Più semplicemente, migliorare le abilità di defusione significa guardare i pensieri piuttosto che guardare dai pensieri, notarli lasciandoli andare e venire, piuttosto che rimanere intrappolati in essi. Viceversa, con il termine fusione si indica la tendenza a rimanere intrappolati nei pensieri, permettendo ad essi di guidare il nostro comportamento. è possibile raggiungere tale obiettivo facendo sì che il paziente impari a notare il proprio processo di pensiero e comprenda, sempre in modo esperienziale, che i nostri pensieri non controllano le nostre azioni. Come per le strategie di controllo, anche la fusione non è di per sé negativa; diviene oggetto di attenzione terapeutica quando i pensieri rappresentano delle barriere per vivere in linea con i propri valori (Harris, 2011).
Sé come contesto: connettersi con una parte di sé che costituisce un “punto di vista” dal quale è possibile osservare pensieri e sentimenti; è un luogo in cui questi pensieri e sentimenti si muovono. è un luogo da cui possiamo osservare la nostra esperienza senza esserne coinvolti: posso notare i miei pensieri, le mie emozioni, il mio corpo, il mondo esterno; posso notare anche il mio stesso notare. Ciò che viene notato cambia continuamente, mentre la prospettiva da cui ha origine il processo del notare rimane invariata (Harris, 2011). Entrare in contatto con il sé che osserva è più simile a provare a ricordare qualcosa che conosciamo già (come una vecchia canzone ad esempio) che scoprire o costruire qualcosa di nuovo (Hayes e Smith, 2010). Questo processo è strettamente connesso alla domanda “Chi sei tu?”. Si identifica con l’espressione sé come contesto il processo stesso mediante cui siamo consapevoli, momento per momento: “Sono la persona che ha fatto esperienza di tutti i pensieri, sentimenti, sensazioni fisiche, ed eventi esterni che hanno fatto parte della mia vita. Sono anche il contesto in cui gli eventi futuri della mia vita si evolveranno”. Con l’espressione sé come contenuto, invece, ci si riferisce al contenuto di tale consapevolezza: “sono un cattivo figlio”, “sono una ragazza timida”, “sono una persona impulsiva” (Wilson, 2010). Nessuna concettualizzazione di sé (intesa come insieme di affermazioni fatte dalla propria mente riguardo sé stessi, che prendiamo come verità assolute) può corrispondere esattamente alla realtà poiché gli esseri umani sono complessi. Dicendo “Io sono X”, non si dice tutta la verità. Sicuramente ci sarà stato un momento in cui non lo si è stati. Questo vale, naturalmente, anche per le concettualizzazioni positive (Hayes e Smith, 2010).
Azione impegnata: favorire l’ampliamento di pattern di azione efficace, ossia l’attuazione di comportamenti che consentano il raggiungimento di obiettivi concreti congruenti con i valori e gli obiettivi della persona. Lavorare su questo processo significa incrementare la capacità di agire nella direzione voluta: i valori vengono utilizzati per fissare obiettivi e gli obiettivi, a loro volta, vengono scomposti in azioni specifiche. Parte integrante del lavoro sull’azione impegnata è costituita dall’identificazione delle barriere (ostacoli all’azione) e dal loro superamento mediante gli altri cinque processi presi in esame nella terapia.
Valori: chiarire cosa è importante nella vita del cliente, i suoi desideri profondi rispetto a ciò che vuole essere e fare. I valori possono essere genericamente definiti come “qualità globali desiderate dell’agire continuativo” (Hayes et al., 2006; Harris, 2011). Chiarendo i valori e connettendosi con essi si aiuta il paziente ad utilizzarli come guida e fattore motivante per l’azione.
Momento presente: promuovere la consapevolezza del momento presente (tutto ciò che avviene nel qui ed ora, non solo nel mondo esterno, ma anche nel mondo interiore). Ciò consente di percepire accuratamente cosa sta accadendo per poi utilizzare tutte le informazioni per modulare adeguatamente il comportamento (Harris, 2011). Quando si è in contatto con il momento presente, infatti, si è più flessibili e responsivi nei confronti di ciò che sta realmente avvenendo, dentro e fuori di noi.
Al di là di tecniche e modelli, un elemento che caratterizza l’ACT è l’importanza attribuita alla relazione terapeutica e la sua natura paritaria. Per l’ACT dare piena attenzione a un altro essere umano con sincera apertura, assenza di giudizio e curiosità, è già di per sé terapeutico. Il terapeuta è sulla stessa barca del paziente: anche il terapeuta frequentemente rimane intrappolato nella propria mente, perde il contatto con il presente e si impegna in inutili battaglie con pensieri ed emozioni; allo stesso modo anche il terapeuta può perdere contatto con i propri valori e agire in maniera inefficace. Terapeuta e paziente sono sulla stessa barca perché tutto ciò fa parte della comune esperienza umana.
In assenza di una relazione terapeutica compassionevole, aperta e rispettosa, tutti le tecniche di intervento risulterebbero inutili (Harris, 2011).