Sviluppi traumatici

Abusi, maltrattamenti, o semplice trascuratezza emotiva (neglect), influenzano negativamente lo sviluppo mentale, facendolo evolvere in una generica vulnerabilità a vari disturbi psicopatologici. Alcuni autori (Herman 1992, van der Kolk  et al. 2005) avrebbero circoscritto in una specifica sindrome la condizione che intacca in particolar modo le funzioni integratrici della coscienza e della memoria.
Il tentativo di assimilare i frammenti mnesici in una sintesi che consenta la “presentificazione” ha indotto, a volte, falsi ricordi, con conseguenti infondate accuse di abusi e maltrattamenti, destinati a sollevare delicate problematiche medicolegali (Loftus 2003). La produzione di tali memorie falsate dipende, con buona probabilità, dalla propensione a fantasticare tipica di ciascuno, e non piuttosto dal trauma o dalla dissociazione ad esse ricollegabili, e ancora meno forse da un intervento psicoterapeutico, per quanto incauto possa rivelarsi (Dalenberg & Palesh 2010). La ricerca ossessiva di prove, o la ricostruzione approssimativa di vicende storiche poco chiare, neppure intesa a convalidare delle esperienze personali, non rientra difatti tra gli scopi della psicoterapia. Se poi, alla verità accertabile, subentrano dubbi e incertezze sui reali accadimenti, il rischio dell’investigazione è persino di essere decisamente controproducente (Dalenberg & Palesh 2010). Del resto, un’impossibile ricerca di verità va tollerata almeno quanto l’angoscia del dubbio o la perplessità dell’incertezza, nella considerazione che un eccesso di fiducia nei ricordi potrebbe rivelarsi un allontanamento dall’obiettività e, dunque, un’ipotizzabile certificazione di menzogne.
La vulnerabilità a sviluppare dal trauma un disturbo psicopatologico usufruirebbe di fattori protettivi (resilience) in grado di resistere alle avversità (Bertetti 2008). Il termine anglosassone, che suggerisce flessibilità ed elasticità, è stato preso in prestito dal linguaggio della fisica, indicando infatti quella capacità di un materiale di assorbire urti senza subire persistenti deformazioni. In psicologia assume il valore di dinamico adattamento ad ogni significativa fonte di tensione, con il quale si oppone uno sforzo cosciente, nell’affrontare avversità, pressioni, traumi, tragedie, o minacce, oneri, frustrazioni, al fine di risolvere problemi personali e interpersonali, tentando di  tollerarne i conflitti e minimizzarne lo stress che ne deriva. Nel produrre l’emersione di tali fattori protettivi, l’evento traumatico verrebbe addirittura trasformato positivamente in un’esperienza formativa. Ma, trattandosi di un processo suscettibile di sviluppo, piuttosto che un tratto stabile della personalità (Rutter 2008), le sue variabili sono numerose, e sia di tipo psicobiologico, sia socioculturale.

Wen-ShingTseng, nel suo “Manuale di psichiatria culturale” (edizione italiana a cura di G. Bartocci, Cic edizioni internazionali, Roma 2003), a proposito delle strategie di coping culturalmente determinate in alcune società, con effetti che si ripercuotono sui risultati delle psicoterapie, cita il detto popolare cinese “Sai-weng-zhi-ma”, il cavallo del vecchio signor Sai. Nel racconto la sorte del vecchio signor Sai mutava a seconda delle circostanze, ed, in ogni frangente, al lato sfavorevole si opponeva il risvolto positivo, e viceversa. Quando perse il cavallo domestico, gli amici sentirono il dovere di confortarlo, ma il vecchio non si scompose più di tanto. Il cavallo perduto infatti tornò in compagnia di un altro quadrupede selvatico. Gli amici stavolta si congratularono, ma il signor Sai non trovò in ciò niente di buono. Quando il figlio tentò di cavalcare il selvaggio, venne disarcionato e restò zoppo, ed ancora una volta gli amici tornarono a consolarlo, e Sai rispose che non c’era di che dolersene. A causa di questa invalidità il figlio venne esonerato dall’andare a combattere e rischiare così di perdere la vita.
Il proverbio cinese ricorda l’imprevedibilità dell’esistenza, nel corso della quale si può andare incontro ad accadimenti, che di per sé sono sempre neutri, ai quali è però la nostra personale visione filosofica che, senza mai dimenticarne i risvolti di segno opposto, deve fornire al momento giusto la coloritura più idonea per facilitarne la, più o meno, rassegnata accettazione (Tseng, Lu e Yin, 1995). Ricavare elementi positivi da eventi negativi, insieme con strategie di evitamento, minimizzazione, distanziamento, attenzione selettiva, o confronto positivo, si annovera tra gli stratagemmi emotivi (coping) posti in essere per risolvere i problemi e le difficoltà in cui ci si può imbattere (Lazarus & Folkman 1984). Alcuni di questi programmi sono diretti all’ambiente, nel tentativo di modificarne pressioni, barriere, risorse, procedure, altri progetti, diretti espressamente all’io, si poggiano su dei mutamenti motivazionali o cognitivi, quali la modificazione del livello di aspirazione, la riduzione del coinvolgimento dell’io, la ricerca di canali alternativi di gratificazione, lo sviluppo di nuovi standard di comportamento, oppure l’apprendimento di nuove capacità e procedure.

Il maggior fattore di “resilienza” sembra essere la sicurezza nell’attaccamento precoce del bambino (Dozier & Rutter 1999, Berlin et al 1999). In seguito, l’adesione ad un credo religioso o la pratica di una qualche forma di spiritualità, proteggono altrettanto bene dagli effetti patogeni dell’esperienza traumatica (Granqvist & Kirkpatrick 1999). “Forse, ogni profonda e sincera ricerca di senso esistenziale anche dopo aver subìto esperienze avverse gravemente traumatiche – scrivono Giovanni Liotti e Benedetto Farina in “Sviluppi traumatici” (Raffaello Cortina, Milano 2011)- è un fattore che facilita, nell’adulto, lo sviluppo della resilience”.
Questi stessi autori suggeriscono una “seconda fonte di riflessione”, relativa al contrasto offerto da parte della creatività nei confronti degli effetti patogeni di un evento traumatico, impedendo di precipitare in quell’abisso assurdo dell’alienazione post-traumatica, da Voltaire  definito come “nulla sepolcrale”. “…Squallidi disquisitori delle miserie umane,/anziché consolarmi, le mie pene rendete ancor più/ amare;/ e in voi non vedo che lo sforzo impotente/ di indomito ferito che vuol dirsi contento… E voi ricomponete, da questo caos fatale,/ dal male di ogni essere, la gioia generale?… Il passato non è che spiacevole ricordo,/ oscuro è il presente se non c’è avvenire,/ se il nulla sepolcrale distrugge l’io pensante./ Tutto ben sarà un giorno: è questa la speranza?/ tutto oggi è bene: è questa l’illusione./ I saggi mi ingannavan, solo Dio ha ragione…” (François  Marie Arouet de Voltaire: “Poema sul disastro di Lisbona” – 1755 – o “analisi della filosofia del Tutto è bene”, traduzione di Francesco Tanini).

La vulnerabilità psicologica può essere il risultato di modelli di sviluppo della personalità forgiati dalla cultura. I piccoli che vivono stati di abbandono, a causa delle scarse cure materne, da adulti, divengono caratterialmente propensi ad arrendersi facilmente di fronte alle avversità, per via della loro bassa soglia di tolleranza alla frustrazione.
Uno dei modi migliori per illustrare il condizionamento di coping si ricava dalle modalità di reazione al dolore, considerato uno stress psicosomatico al quale si risponde individualmente in maniera diversa, a seconda della sensibilità, della soglia di percezione nocicettiva, dei tratti di personalità e delle particolari necessità di far fronte alla sofferenza. Strategie psichiche “confrontazionali” (a partire dall’affermazione dell’esistenza del problema), quali azioni dirette (cercare aiuto, richiesta di sollievo), o ricerche di notizie, oppure non-“confrontazionali”, o ancora progetti rivolti a reprimere l’azione, il coinvolgimento, i moti di sofferenza, ovvero diffidenza verso i palliativi, preoccupazione, ecc. sono pattern di reazione culturalmente condizionati.
Fattori socio-culturali influenzano la valutazione dei problemi e la medesima percezione dello stress, a seconda delle circostanze di vita o dell’atteggiamento verso  gli inconvenienti. Non sarebbe dunque l’evento in sé, ma la valutazione soggettiva che se ne fa ad avere un impatto psicologico diretto e pesare grandemente sulle conseguenze patologiche degli sviluppi traumatici.
Eventi stressanti possono, inoltre, influire nell’insorgenza di gravi malattie. La specificazione dei tipi di eventi, da alcuni studiosi, verrebbe persino rapportata a determinati disturbi circostanziati. Casi di cardiopatie sarebbero riconducibili ad accadimenti in ambito lavorativo (Theorell 1976); l’infarto, ad esempio, si presenterebbe “ad un anno” di distanza dall’incremento di responsabilità professionali (Theorell 1974). Una categoria di circostanze in cui avviene un abbandono (separazione dal coniuge, divorzio, morte di un parente stretto, trasloco da parte di alcuni membri della famiglia, matrimonio dei figli, ecc.) è fortemente correlata con l’esordio depressivo (Paykel E. S. 1974). Altri ricercatori hanno fatto un’empirica distinzione tra eventi di “perdita” e quelli di “pericolo”, riconducendo genericamente ai primi la depressione ed ai secondi i disturbi ansiosi (Finlay-Jones & Brown 1981).

Il programma di ricerca della developmental psychopathology si occupa di indagare quelle caratteristiche dei contesti interpersonali in cui affondano le loro radici gli “sviluppi traumatici”, sempre però nell’ambito di quei rapporti funzionali, innescati dall’esposizione alla minaccia, tra i vari sistemi coinvolti, secondo l’organizzazione gerarchica della loro specifica architettura, attaccamento da una parte e dall’altro gli arcaici meccanismi di difesa: fight, flight, posture, freeze, submit.
I problemi più importanti da affrontare, nel corso del trattamento, derivano direttamente da quella persistente sensazione di essere trascurati, dalla paura di abbandono emotivo, come pure dalla perdita di fiducia nella relazione di aiuto.
I termini spregiativi di “iper-dissociativismo” e “pan-traumatismo” (Williams 2009), che alludono ad una distorsione metodologica, racchiudono eloquentemente la critica che, con maggiore frequenza, viene mossa a quanti riconoscono nel trauma l’etiopatogenesi di una disparata varietà di disturbi psicopatologici: da quelli dissociativi, ai quali, secondo alcuni autori, manca un’etiologia traumatica certa (Kihlstrom 2005), al disturbo borderline di personalità, per cui pur sussiste il dubbio sul ruolo delle memorie traumatiche (Paris 1998, Watson et al. 2006), ma la cui forte rilevanza ha fatto ipotizzare uno “spettro” di disturbi (organizzato e disorganizzato) di personalità post-traumatici (Classen et al. 2006); dai disturbi da attacchi di panico, con o senza agorafobia (Gulsun et al. 2007, Marshall et al. 2000, Michelson et al. 1998, Pastucha et al. 2009), al disturbo ossessivo compulsivo (Fontenelle et al. 2007, Grabe et al. 1999, Lochner et al. 2004, Rufer et al. 2006); dai disturbi da uso di sostanze (Anda et al. 2002, Dube et al. 2002, Edwards et al. 2006 Enoch 2006,  Johnson et al. 2010) ai disturbi del comportamento alimentare ( Ardovni 2006, Fuller-Tyszkiewicz  & Mussap 2008, La Mela et al. 2010, McShane & Zirkel 2008,  Vanderlinden & Vandereycken 1997); dai disturbi somatoformi (Roelofs et al. 2002, Sar et al. 2004, Spitzer et al. 2008) ai disturbi dell’umore (Garno et al. 2005, Lewis et al. 2010, Lu et al. 2008, Thase 2009, Weich et al. 2009, Wills & Goodwin 1996); da generiche turbe ansiose (Fontenelle et al. 2007, Warshaw et al. 1993) alle franche psicosi (Conus et al. 2009, Moskowitz et al. 2008, Read et al. 2005, Ross 2009, Spauwen et al. 2006), fino alla valutazione dello sviluppo traumatico quale fattore di rischio psicosomatico (Dong, Anda et al. 2004, Dong, Giles et al. 2004, Dube et al.2009, Felitti 2009).
Nella pratica clinica usuale esiste, comunque, qualche difficoltà  nel diagnosticare i sintomi dissociativi, innanzitutto per la maggiore prevalenza di altri aspetti psicopatologici, che distolgono l’attenzione dai segni predittivi degli “sviluppi traumatici”. La sintomatologia ansiosa o depressiva si dimostra più costante e molto meno ondivaga dei multiformi sintomi dissociativi.
Il più delle volte, il soggetto non riesce a far riferimento a sintomi quali quelli di “compartimentazione”, come amnesia o stati non integrati dell’io, di cui proprio non ha coscienza, oppure teme di denunciare esperienze perturbanti, quali la “depersonalizzazione”, da cui viene letteralmente terrorizzato, per evitare di essere etichettato pregiudizialmente come alienato. La “verbalizzazione” di tali esperienze dissociative è particolarmente difficile, perché costringe a ricorrere frequentemente ad allusioni, metafore, similitudini (“come se…”), in ogni caso, poco chiare, impalpabili, e non sempre decisamente specifiche o forse neppure pertinenti.

Due differenti classi di sintomi clinici contribuiscono alla distinzione tra due tipi fondamentali (Holmes et al. 2005) di dissociazione: detachment (distacco) e compartmentalization (compartimentazione). I primi rinviano direttamente all’esperienza si sentirsi estraniati dalle proprie emozioni, dal proprio corpo, dal senso di realtà familiare, dall’identità stessa. Questa “alienazione” è quella che definisce meglio la perturbante alterazione dell’esperienza del mondo circostante (derealizzazione) e della coscienza individuale (depersonalizzazione), quella cosiddetta cioè “in prima persona”, o coscienza “fenomenica”, da distinguere dalla coscienza “cognitiva”, “di accesso”, o “in terza persona” (Di Francesco 2000). La coscienza fenomenica si caratterizza per l’evidente natura qualitativa, “preverbale”, dei suoi componenti (qualia), come sensazioni, sentimenti, emozioni, immagini mentali, tra cui soprattutto l’immagine corporea (Damásio 1999). Se è vero, come qualcuno sostiene (Albasi 2009), che il primo effetto patogeno del trauma è quello di “far perdere la confidenza con l’esperienza interna”, i sintomi di detachment (distacco, alienazione) esprimerebbero maggiormente l’effetto psicopatologico disintegrativo delle esperienze traumatiche. Mentre i sintomi dissociativi di compartimentazione (compartmentalization) sarebbero invece propri della coscienza cognitiva, “in terza persona”, oppure “di accesso”, in quanto i suoi componenti sono “verbali”, ovvero rappresentati da immagini mentali alle quali si ha, appunto, “accesso” attraverso la verbalizzazione. Paradigmatici di compartmentalization sono l’amnesia dissociativa, in cui il processo dissociativo non rende più accessibile il ricordo, e gli stati non integrati dell’io, in cui lo sviluppo traumatico impedisce la sintesi di significati in grado di fornire coerenza alla rappresentazione semantica della propria storia personale.

Transitori, o episodici, possono rivelarsi gli eventi tali da evocare forti emozioni ed interrompere così il collegamento fra i livelli funzionali sovrapposti ed integrati, secondo la tesi esposta da Pierre Janet già ne “L’Automatisme Psychologique”  (1889), la quale interpreta la “dissociazione” come un cedimento strutturale, secondo il classico schema di John Hughlings Jackson, nell’ordinamento gerarchizzato delle funzioni cerebrali.
La condizione di ottundimento emotivo, emotional numbing di Holmes e collaboratori (2005), può perdurare dopo il trauma con una gradualità che dal sopportabile può toccare gli estremi dell’annichilimento e della cosiddetta “morte interiore”.
All’interno di un disturbo dissociativo, o caratteropatico, ricollegabile a sviluppi traumatici, potrebbe fare la sua comparsa un’altra modalità di depersonalizzazione, detachment, sotto forma di “assenza”, irrealtà, vuoto mentale terrifico, fascinazione, incantamento (“blank spell”), talmente intollerabile da richiedere una riappropriazione dell’esperienza di sé autolesiva, con induzione di ferite da taglio, ustioni e tutto ciò che, attraverso il dolore, possa procurare l’impressione di “esserci” (Linehan 1993, Nock 2010).
La sensazione di estraneità a se stessi può presentarsi come esperienza di passività, o di perdita della consapevolezza di costituire i soggetti delle proprie azioni e di essere in grado di controllarle (self-agency). Marlene Steinberg e Maxine Schnall l’hanno definita , nel 2001, con la felice espressione: “The Stranger in the Mirror”, che dà il titolo al loro lavoro su ciò che descrivono come “The Hidden Epidemic”.
Altre volte, la depersonalizzazione patologica si esprime con la sensazione di distacco dal corpo o da sue parti, non si sa fino a che punto assimilabile alle modificazioni dell’immagine corporea, proprie del dismorfismo, e del disturbo del comportamento alimentare (dismorfofobia).
Un ulteriore stato di alienazione, depersonalizzazione, corrisponde alla percezione di distacco fisico, allontanamento materiale dal proprio corpo, tanto da poterlo osservare come in uno specchio, analoga all’autoscopia ed all’“out of body experience”, causate da processi di disintegrazione delle funzioni cerebrali superiori (Blanke et al. 2004).
La “derealizzazione” è un detachment dall’esperienza della realtà esterna, durante la quale si ha l’impressione di separazione dal mondo circostante, divenuto intangibile, irreale, “piatto”, “senza colore”, “senza vita”, “come le cose e le persone di un sogno” (Brown 2006). Può trattarsi di fenomeni di dispercezione, in cui gli oggetti cambiano forma (metamorfopsie), contorni (disopsie), misura (micropsia, macropsia), come può avvenire sotto l’effetto di diverse droghe psicoattive, oppure in cui non si riconoscono luoghi (agnosie) e persone familiari (prosopoagnosie, prosopometamorfopsie), come accade nell’illusione del sosia, o sindrome di Capgras. Altri sintomi di distacco  sono le alterazioni della vigilanza: quantitative (torpore, sopore, “svenimento”, o pseudo-crisi), qualitative (disorientamento, trance estatica, stati crepuscolari, oniroidi, ipnoidi, confusionali).
Il processo dissociativo, indotto dal trauma, può essere di ostacolo alle operazioni di sintesi, integrazione e regolazione degli stati dell’io, finalizzate a procurare un senso coeso e unitario del sé, evidenziando allora la coesistenza di stati diversi dell’io, oppure manifestando “fughe”, caratterizzate da confusione circa la propria identità, amnesie, o ancora distorsioni della memoria.

L’emergenza di ricordi traumatici infantili, dimenticati e dissociati, si potrebbe accompagnare ad una falsa memoria degli avvenimenti. Oltre che configurarsi come “sindrome del falso ricordo” (Taub 1999), in cui le relazioni si incentrano tutt’attorno alla rievocazione di un evento ritenuto reale, la compartimentazione potrebbe produrre una dissociazione, ad esempio, tra i vari tipi di memoria, semantica o episodica. La prima, contraddistinta da significati generali applicabili indipendentemente dai singoli ricordi, contribuisce alla descrizione generale che ciascuno costruisce di sé, l’altra, caratterizzata da una precisa collocazione spaziotemporale degli engrammi mnesici, fornisce le narrazioni autobiografiche della storia personale dell’individuo (Tulving 1985).

Il disturbo dissociativo dell’identità è un’altra forma di compartimentazione, in cui la scomposizione degli stati dell’io non è disorganizzata, ma si aggrega in “alter” ego, alternanti, multipli, i quali possono rappresentare vere e proprie identità dissociate, oppure si hanno modificazioni di stato dell’io, parziali, incomplete, subdole, che si esprimono con comportamenti particolari, legati a singoli aspetti della personalità, ciascuno dotato di un proprio senso di sé (van der Hart et al. 2006). Una tale sintomatologia va distinta, in diagnostica differenziale, dai deliri d’influenzamento, dalle allucinazioni o dalle fluttuazioni dell’umore dei disturbi bipolari a cicli rapidi.

“Gli stati dell’io non integrati – chiariscono Giovanni Liotti e Benedetto Farina in “Sviluppi traumatici” (Raffaello Cortina, Milano 2011)- sono caratterizzati da atteggiamenti e rappresentazioni di sé divergenti, che non riescono praticamente mai ad avere accesso simultaneo alla coscienza dove le operazioni metacognitive potrebbero permettere la costruzione di strutture di significato capaci di creare una forma di coesione se non di coerenza fra loro”.

Questi stati però sono pure peculiari del disturbo borderline di personalità, ed in tal caso la teoria psicoanalitica li attribuisce al meccanismo di difesa dello splitting (scissione), psicodinamicamente diverso dalla “dissociazione”, che, come dice  Philip M. Bromberg, in “Awakening the Dreamer: Clinical Journeys” (2006), “entra in azione perché il conflitto è intollerabile… non perché è spiacevole”.

 

Ellert R. S. Nijenhuis (2009) ha elaborato la dizione “dissociazione somatoforme”, argomentando come sintomi dissociativi e somatoformi trovino negli sviluppi traumatici comuni radici, sia in accordo con la classica teoria dell’isteria di Pierre Janet, sia con le prime concezioni freudiane.
“Paralisi e contratture isteriche possono essere provocate dalla suggestione ipnotica e questi prodotti artificiali hanno, fin nei minimi dettagli, le stesse caratteristiche degli attacchi isterici spontanei che spesso vengono provocati da un trauma” (Sigmund Freud: “Autobiografia”, 1924).

La sintomatologia dissociativa somatoforme, per alcuni autori (Decety & Lamm 2007, Haven 2009) sarebbe da riconnettere, piuttosto che alla mancata superiore regolazione sui sistemi inferiori (top-down), ad un comune deficit integrativo di tipo bottom-up: difetto di integrazione dei dati provenienti dai centri nervosi inferiori, sedi delle afferenze somato-viscerali (bottom), con le facoltà riflessive e le modalità di rappresentazione della coscienza (up). Ad essere coinvolti nella dissociazione somatoforme, da un lato, volizione e memoria esplicita, dall’altro, gli schemi percettivo-motori che contribuiscono a formare lo schema corporeo, l’immagine sociale, nonché ad avvertire dello stato emotivo. La dissociazione somatoforme, pertanto, comprende sia sintomi di conversione, che sindromi dolorose psicogene e somatizzazioni (sindrome di Briquet).

Le più comuni somatizzazioni di origine postraumatica sono i disturbi a carico del sistema gastrointestinale, muscolo-scheletrico (dolori lombari), genitourinario (minzione dolorosa, dispareunia, vaginismo, menorragie, disfunzione erettile, indifferenza sessuale…). Nella conversione sono alterati invece controllo e consapevolezza di funzioni motorie volontarie e sensitive, con conseguenti: pseudoparalisi, pseudo-crisi, disturbi dell’equilibrio (astasia-abasia), deficit sensoriali e neurologici in genere, transitori e reversibili.

A proposito dell’evoluzione psicobiologia dello stress postraumatico Bessel A. van der Kolk (1994) ha coniato: “the body keeps the score”, per sottolineare come la componente implicita (somatica) della memoria, dissociata dagli eventi causali, ricordi ciò che la mente ha dimenticato.

Va rilevato che le aree cerebrali deputate all’elaborazione cognitiva del dolore fisico si attivano parimenti nel caso del dolore provocato da problemi relazionali (Eisenberger et al. 2007, 2006, 2003). Sarebbe tale sovrapposizione a determinare la modulazione sul dolore fisico da parte della rete interpersonale.

“Curioso come il dolore fisico, anche quando ha causa stabile, se non peggio indeclinabile, si possa attenuare e crescere, mutare di intensità e qualità, secondo le occasioni e gli incontri” (Leonardo Sciascia “Il Cavaliere e la morte”, 1988).

Giovanni Liotti e Benedetto Farina in “Sviluppi traumatici” (Raffaello Cortina, Milano 2011) ammettono che i processi disintegrativi potrebbero agire confondendo l’origine dell’esperienza vissuta come minacciosa, arrivando a procurare così un dolore localizzato ed identificato come prodotto da cause materiali, mentre in realtà sarebbe da attribuire a particolari condizioni relazionali.

 

Il livello più alto di controllo cosciente (highest level di jacksoniana memoria) corrisponderebbe alle funzioni metacognitive (Dimaggio & Lysaker 2010, Falcone et al. 2003) o di “mentalizzazione” (Allen et al. 2008, Fonagy & Target 2008) e pertanto sono esse le più sensibili all’effetto delle emozioni , qualora queste ne minassero le modalità operative con eccessiva veemenza (Liotti & Prunetti  2010). Tali deficit  metacognitivi intaccano l’autoreflessività, l’integrazione della compartimentazione, il mastery profilattico di depersonalizzazione, con perdita del senso di self-agency.

La difficoltà di percepire ed identificare gli stati emotivi (alessitimia) viene associata a diversi tratti di personalità ed a varie condizioni di sviluppo, come alle esperienze traumatiche interpersonali dell’infanzia, soprattutto neglect ed abuso (Helling 2009, Mclean 2006). La sua patogenesi viene attribuita ad uno stato di compartimentazione strutturale della personalità, in cui mancano le facoltà mentali superiori di rappresentazione e di esecuzione, e l’integrazione delle informazioni relative alle variazioni dello stato corporeo, prodotte dalle emozioni (Clayton 2004, Decety & Moriguchi 2007, van der Hart et al. 2006). Essendo correlato a dissociazione, disregolazione emotiva e somatizzazioni, il livello di alexitimia risulta elevato soprattutto nella variante “complessa” del disturbo postraumatico da stress (McLean et al. 2006).

Talvolta, è stata riconosciuta un’apparente dissociazione fra percezione di sé e del mondo in un dato momento e registrazione di tale percezione nella memoria autobiografica. Esperienze riferite come di distacco emozionale possono coesistere con sintomi di compartimentazione dissociativa, per l’impedito accesso alla memoria delle emozioni provate. Altra correlazione importante, sia in caso di presenza sia in quello di tendenza alla dissociazione, riguarda la capacità di concentrazione, nel senso cioè di riuscire ad escludere dall’attenzione, e dunque dalla coscienza, gli stimoli irrilevanti e quelli disturbanti (De Prince & Freyd 2004, De Marni Cromer et al. 2006).

Si è proposto di interpretare la dissociazione, non come un taxon categoriale (Ogawa et al. 1997), ma come il polo di un continuum in cui all’estremità opposta persistano degli spostamenti d’attenzione fisiologici, quelli che permettono cioè una normale concentrazione, proprio grazie all’esclusione delle informazioni disturbanti (Bromberg 1998, 2006).

Il rapporto tra trauma e dissociazione sarebbe, comunque, multifattoriale (Giesbrecht Mercklebach 2008), piuttosto che lineare (Kihlstrom 2005), e sono sufficienti, in età infantile, esperienze di grave mancanza di sintonia comunicativa ad innescare il processo dissociativo, mentre, a volte traumi importanti non lo avvierebbero. Da qui il maggior rilievo da dare al contesto interpersonale, da cui è partita la reazione patologica all’evento, inquadrabile nella cornice della teoria dell’attaccamento di John Bowlby (1969, 1988). Come scrive Philip M. Bromberg, in “Standing in the Spaces: Essays on Clinical Process, Trauma, and Dissociation” (1998): “il fantasma senza pace di Pierre Janet, scacciato dal castello da Sigmund Freud un secolo fa, ritorna oggi per tormentare i suoi discendenti”. Anche Henri Ellenberger (1970) ha posto in risalto i grandi meriti anticipatori di Pierre Janet e ne ha riconosciuto l’importanza, paragonandolo a “Pompei”, col definire la sottovalutata influenza della sua opera “una grande città sepolta sotto le ceneri…”.
Non tanto forse ai clinici, quanto agli psicoterapeuti, pragmaticamente, importa più riconoscere e comprendere l’impatto culturale (Tseng 2003) sui modelli di reazione cui fa ricorso il singolo individuo per fronteggiare lo stress.
Giuseppe M. S. IERACE

 

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