Spesso un bambino si ritrova a dover fare i conti con l’incapacità di mamma e papà a separarsi davvero e, quindi, a non avere mai la possibilità di elaborare davvero lo scioglimento di quel legame, evento che già di per sé è fonte di angoscia, di non senso, di preoccupazione per sé, per il proprio futuro e per quello di quei due adulti così rabbiosi, ambigui, disorientati o apparentemente amichevoli.
Nel caso in cui un matrimonio fallisce e l’uomo e la donna decidono di rescindere il legame che per anni li ha uniti e che ha eventualmente dato vita ad altri esseri umani, solo separandosi davvero possono poi stabilire una nuova unione, un’unione che consenta loro di allearsi per proteggere e allevare la prole, «di comune accordo», come recita la legge. Per fare questo è necessario che si crei uno spazio, non solo geografico ma anche psichico, in cui il figlio può diventare pensabile, o ri-pensabile, come individuo a sé e non più come un possedimento esclusivo e/o una mera appendice dell’altro dal quale è impossibile distinguerlo, differenziarlo. Pensiamo, per esempio, a quelle frasi micidiali dette al figlio magari nei momenti di esasperazione: «Sei tutto tua madre!», oppure «Sei proprio come tuo padre!», sottintendendo: inetto, disordinato, traditore, inaffidabile, vigliacco, bugiardo, ecc. ecc.
Prendiamo in esame due diverse tipologie di separazione tra un padre e una madre: i separati «furiosi» e i separati «amici».
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I separati furiosi sono in un certo senso quelli più conosciuti, quelli che riempiono di urla di rabbioso desiderio di vendetta gli studi degli avvocati e sono anche i più rappresentati nella letteratura e nella cinematografia (e tutti pensiamo a Kramer contro Kramer, ormai film culto del genere, talmente rappresentativo da essere diventato quasi sinonimo di certe separazioni e delle conseguenti battaglie giocate sulla pelle dei figli). È proprio quella furia, quella sete mai appagabile di vendetta che li vorrebbe i più separati tra i separati e quell’ostilità come propulsore di insanabili scollamenti, di irrimediabili rotture, di violenti e definitivi strappi, ma che proprio a causa della sua natura emozionale diventa passione che si sostituisce a passione.
L’odio prende il posto dell’amore. Altrettanto intenso, altrettanto ineluttabile e quindi densa materia, che invece di dividere tiene insieme, che incolla e inchioda i protagonisti nello stesso identico luogo per anni, se non, a volte, per tutta la vita.
Io ti odio, sono delusa da te, mi hai esasperata e ferita e tradita, non voglio più comunicare con te, ma nella mia mente continuo a pensare, incessabilmente, ai motivi del mio odio, li ricordo, li accarezzo, li soppeso, continuo a controllarti in ogni modo, tu, oggetto d’odio nella mia mente. Gli effetti di questa colla emozionale sulla psiche dei figli sono naturalmente terribili. Spesso quell’odio viene rappresentato al figlio giornalmente, o a week-end alternati, attraverso parole, azioni, interrogatori, commenti apparentemente casuali, decisioni inspiegabili; richiamando ogni volta in causa, con una forza micidiale e distruttiva, il presunto o la presunta assente, l’altro genitore. E questo, oltre a lederne costantemente l’immagine interna – quell’immagine con cui quel giovane individuo si dovrà comunque confrontare per tutta la vita – riporta in vita un legame, quello coniugale, che seppure sotto il segno dell’odio e dell’incomunicabilità continua ad essere più che mai intenso e attuale.
Federico, 8 anni, la madre e il padre, due valenti professionisti, sono separati da tre anni, conflittualità alle stelle. Pare che se le siano date più volte di fronte al bambino, prima della separazione. La mamma, per lavoro, sta frequentando una scuola che la fa stare lontana da casa per diversi giorni alla settimana. Il padre solo da poco ha una sua abitazione. Il bambino, affidato alla madre, vive di fatto con la nonna materna. Ognuno dei due ha di recente allacciato un’altra relazione, ognuno dei due non tollera che l’ex coniuge abbia un’altra relazione, ognuno dei due, nonostante le indicazioni della psicoterapeuta che li segue, ha ben presto fatto conoscere e frequentare il nuovo compagno a Federico. Il padre dice che ha intenzione di portare il figlio in vacanza con la sua nuova compagna e i figli di lei che hanno più o meno l’età di Federico. La psicoterapeuta lo sconsiglia vivamente di fare una cosa del genere, ma soprattutto gli raccomanda di non costringere suo figlio a condividere il tempo, gli spazi e l’affetto di suo padre – che già vede poco – con questi due bambini che oltretutto sono per lui, oltre che possibili rivali, due emeriti sconosciuti. Dopo qualche mese, la madre di Federico chiede alla psicoterapeuta cosa ne pensa se il suo nuovo compagno frequenta più assiduamente suo figlio, che d’altra parte già frequenta spesso anche se naturalmente il bambino non sa assolutamente che si tratta del suo compagno, ma che è solo un amico, e poi il suo ex marito lo ha addirittura portato in vacanza con la compagna e i suoi due figli e: «Lei, dottoressa, non ha idea di come questo sia stato un trauma per il bambino, che li odiava e quando era da me pensava costantemente al fatto che quei due potevano giocare con la sua play-station e rompergliela. Un vero egoista e incosciente, il mio ex marito, ma quindi se lo fa lui perché io non lo posso fare?». La psicoterapeuta cerca di farle capire che questa decisione non può essere presa da lei reattivamente al comportamento del papà e che deve limitarsi a pensare a quello che lei può o non può fare per aiutare suo figlio ad elaborare questa difficile separazione nel miglior modo possibile. Dopo poco tempo il bambino racconterà alla sua terapeuta di aver dormito nel lettone con mamma e Giuseppe. «E chi è Giuseppe?». «Il fidanzato di mamma!», risponde lui. E aggiunge di essere un po’ preoccupato per i suoi genitori, perché li vede strani, sono sempre tanto arrabbiati l’uno con l’altra. Papà non fa altro che chiedergli dettagliate relazioni su come passa il tempo quando è con mamma e lei, quando la sera lui telefona al figlio, lo costringe a usare il vivavoce per sentire cosa si dicono.
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Passiamo adesso alla tipologia dei separati «amici». Mi riferisco qui a quelle ex coppie che non riescono a sostenere il peso della responsabilità di una tale scelta nei confronti dei figli e quindi, «di comune accordo», magari sostenuti dal fatto di odiarsi un po’ meno di quelli citati prima, oscurano continuamente tale scelta con una cortina fumogena fatta di confusione e ambiguità, di cose tipo «andiamo a mangiare la pizza tutti insieme», o «sì, siamo separati, ma quindici giorni all’anno andiamo assieme al villaggio», oppure di padri che all’alba piombano nella casa coniugale per fare colazione con i bambini, o di visite ai figli fatte sempre nella stessa casa, «perché, dottoressa, non so davvero dove portarli e poi non so proprio cosa fargli fare». E magari quel tempo che il papà potrebbe passare con il suo bambino viene impiegato per fare i conti dell’assegno familiare di fronte a una tazza di caffè, sull’ex tavolo della ex cucina, mentre il figlio gioca da solo nella sua stanza.
Sebbene qui la questione sia meno ammantata di passione, e in genere la conflittualità sia notevolmente più bassa, non è meno complicata da un punto di vista psichico per i figli. E quella conflittualità, che comunque c’è, anche se in forma latente, viene agita attraverso comportamenti incoerenti e confusivi. Il più delle volte i genitori, mossi dalle migliori intenzioni, dicono di aver pensato che così il bambino ne avrebbe sofferto meno, oppure riferiscono di aver ceduto alla pressione delle richieste dei figli di passare più tempo tutti insieme, ma poi si affrettano ad assicurare che naturalmente loro lo hanno spiegato, al figlio, che non si tratta di una riconciliazione, ma solo di qualcosa che stanno facendo per il suo bene.
Come si può pretendere che un bambino colga certe sfumature, che fra l’altro spesso non sono nemmeno tanto chiare per i suoi genitori? Come si può pensare che quella pizza o quella colazione o, peggio ancora, quella vacanza non attivino ogni volta nel bambino l’illusione che mamma e papà faranno pace? Come può evitare tutte le volte di spiarne ogni gesto, ogni espressione, ogni sguardo, nella speranza che questa volta torneranno insieme? Per poi rimanere ogni volta inevitabilmente deluso e disingannato. Ma questo disinganno non gli impedirà di investire nuove illusioni al prossimo incontro. Quante volte, in questo giochetto del «ci vediamo solo per il suo bene», il bambino è portatore inconsapevole anche delle speranze e delle illusioni di quello dei due che ha subito la separazione e che magari vorrebbe riconciliarsi, ma non riuscendo ad esplicitarlo usa il figlio? Con quale realtà deve fare i conti quel bambino?
Tutta quell’ambiguità, quella mancanza di chiarezza, non gli permettono di collocarsi da nessuna parte, né come figlio di una coppia che sta ancora insieme, né come figlio di una coppia separata. Quell’unione che si è spezzata è il presupposto della sua esistenza, ed è assolutamente comprensibile che ogni figlio cerchi in ogni modo di ricomporla, che non riesca a comprendere quella rottura che lo fa sentire rotto in due a sua volta e che cerchi altresì di negarla ogni qualvolta se ne presenti l’occasione.
Ma la realtà, per quanto dolorosa, è un’altra: mamma e papà non si vogliono più bene, papà se ne è andato a vivere in un’altra casa e io lo vedrò ancora meno di prima. È questo che, purtroppo, deve elaborare il bambino, spesso in solitudine. Dentro a tanta confusione, a tanta colla emozionale, forse è bene interrogarsi: a chi è lasciata, in ultima analisi, la più dura fatica di separare e separarsi? Al figlio.
BIBLIOGRAFIA:
– Di Renzo M., Ruffa M.L. , “Il bambino tra separazioni possibili e impossibili” Relazione presentata al Convegno «Affidamento condiviso: una conquista, una responsabilità», Caltanissetta 24 giugno 2006