“Noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme “. Plutarco “Dispute conviviali”
Questa riflessione filosofica riconosce all’atto di stare a tavola una vocazione comunicativa che va ben oltre l’atto nutritivo. A questa dimensione funzionale si affianca una attribuzione di senso per i gesti dei convitati (che non siano di pietra). Le modalità di consumazione (“circostanze”) assurgono a valore culturale trascendente le sostanze nutritive.
In “Pour une psycho-sociologie de l’alimentation contemporaine” (1961), Roland Barthes sostiene che la “circostanza” superi la sostanza in una autonomia che non tiene più conto della funzione quanto del significato, tant’è che eccitanti, quali caffè, tè, o cioccolato, vengono offerti in momenti socializzanti di distensione e di riposo. E ciò è possibile cha avvenga in seno alle società dell’abbondanza, che nella loro economia possono trascurare gli scopi nutrizionali, per comunicare significati accessori dal “valore aggiuntivo”.
In un tale codice linguistico, la carica simbolica degli alimenti eleva l’opulenza della tavola a ridondante metafora della vita. Etimologicamente convivio sta per “cum vivere”: si vive insieme perché si mangia insieme, e viceversa, in uno stesso universo simbolico.
Se la comunità si definisce a tavola, la separazione delle tavole, delle cucine, si configura come la nascita di nuovi nuclei familiari, in cui un altro capofamiglia sta a capotavola nel compiere il gesto rituale di spezzare il pane con le proprie mani.
All’interno di uno stesso gruppo si definiscono i rapporti tra i singoli ed i ruoli loro attribuiti. Nelle comunità patriarcali, gli uomini stanno seduti al desco e le donne invece impegnate a servire, o in cucina. Gli ospiti di prestigio occupano un posto d’onore ed a loro è riservato il boccone migliore, perché l’assegnazione delle porzioni, come quella dei posti, segue una formalizzazione che ne segnala la gerarchizzazione a seconda del rango.
Mangiare in solitudine equivale al rifiuto della cucina, e con essa della cottura e della cultura che esprime.
L’avvento del costume democratico ha imposto la diffusione delle tavole rotonde. Ma il campo d’azione continua ad essere delimitato dalla definizione delle buone maniere da rispettare nel mantenimento di significato dei gesti. La barriera sociale si è spostata così dalla forma del tavolo (rettangolare) all’impossibilità di infrangere le regole del galateo, che esclude chi, per vari motivi, non le conosce o non le comprende: appoggiare il tovagliolo in grembo, non mangiare appena serviti, riporre il cucchiaio sul piatto sottostante… non parlare a bocca piena.
Si parla per come si mangia, e viceversa; le maniere a tavola sono ritualizzate da convenzioni abbastanza simili a quelle che consentono lo scambio di informazioni (si ricordi l’esempio dello “Stammtisch”). Il senso e la stabilità del dialogare poggiano su di una grammatica ed una sintassi; senso e stabilità di un sistema alimentare sono il risultato di una struttura al cui interno ogni componente, con il suo significato, contribuisce a realizzare che non partecipi, alla fin fine, ad una semplice somma di prodotti. Gli alimenti divengono le unità significative di base (morfemi) che compongono un lessico suscettibile di ricevere influenze diverse di disponibilità, accessibilità, consumo… Le opzioni economiche e culturali affiancheranno la scelta dettata dal gusto.
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Spesso l’accoglienza o il rifiuto si richiamano ad un medesimo significato che prelude alla ricerca o all’astinenza. La carne, per i vegetariani, risponde ad un’opzione culturale che fornisce la misura del distacco dal valore nutritivo comunemente attribuitole da chi invece la predilige. In determinati contesti religiosi o esoterici, l’esclusione di certi cibi, o bevande, è funzionale alla dimensione igienico-profilattica, a quella penitenziale, oppure è un esercizio propedeutico al rafforzamento della volontà.
Procedure di sostituzione e di incorporazione mediano sapori e saperi, adeguando il gusto alle necessità, allineando l’empirismo alla scienza. Strategie di sopravvivenza e risorse ambientali a portata di mano si sono tradotti in espressioni molteplicemente diversificate in ambito culinario. Nello stesso tempo però tutte le cucine sono il frutto della storia di scambi culturali che introducono un pizzico di universale nel calderone del particolare.
Incontrovertibile il dato caratteristico della cultura umana della convivialità; mangiare insieme quale sinonimo di condivisione di vita (cum vivere) ed imprescindibile premessa per l’elaborazione di significati quali la compagnia (cum panis) nel compiere l’atto, la scelta alimentare, la spinta al consumo, il modello di comportamento, la comunicazione non verbale, il valore identitario.
Cosa il cibo significhi e come si comunichi a tavola rivestirebbero un’altissima valenza psicosociologica. In “Anthropologie structurale” (1958), Claude Lévi-Strauss formulava l’analogia tra cibo e linguaggio, riproponendola nei tre tomi delle “Mythologiques”: “Le cru et le cuit” (1964), “Du miel aux cendres” (1966), “L’origine des maniere de table” (1968). Più recentemente il parallelo tra i sistemi alimentari e linguistici è stato tracciato da Massimo Montanari (“Il Cibo come Cultura” Laterza, Bari 2004), e da Francesca Rigotti (“Gola, la passione dell’ingordigia”, Il Mulino, Bologna 2008).
La preparazione degli alimenti e la loro cottura corrispondono alla morfologia. I procedimenti , più o meno lunghi o complicati, per ottenere le pietanze renderanno conto dei rapporti tra le unità di senso e gli ingredienti di base. Con gli stessi cereali si possono eseguire ricette di piatti molto differenti: pane, pasta, polenta, pizza, focaccia, torta… Aggiungere all’insieme del composto un dolcificante, a seconda se miele, uva passa, mosto cotto, zucchero di canna o raffinato… designa una precisa destinazione ad un ambito calendariale festivo, oppure alla delicatezza di uno specifico sapore.
I criteri di successione, o gli accostamenti, delle pietanze rivelano una sintassi, alludendo a forme di perifrastica che sottintendono o prevedono un seguito. Il piatto “forte” diviene il protagonista della frase, nelle sue relazioni con altri componenti, che potrebbero essere ridotti a perifrasi di distrazione o di attesa. La polenta si associa alle verdure ed al pane si accompagna il companatico (cum panis), che di nuovo sottolinea linguisticamente lo stretto rapporto tra insiemi conviviali.
L’eventuale isolamento dell’ingrediente principale dallo sfondo che gli è congeniale si ripercuote sulla costruzione delle parole e sulla salute dei commensali. All’assenza di qualsiasi integrazione alla polenta di mais, va attribuita, ad esempio, la comparsa della pellagra fra i contadini del nord-Italia, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. La pasta asciutta va abbinata, quanto meno, al formaggio, dopo che per la sua diffusione fu determinante la crisi di approvvigionamento nei mercati di carne della Napoli del seicento. Zuppe e minestre sono talmente includenti da eleggersi a “piatto unico”. Le torte, che abilmente nascondono i loro componenti , possono differenziarsi ancora di più.
“In funzione dei soggetti principali si definiscono, nella struttura sintattica del pasto, i ‘complementi’ che eventualmente precedono, accompagnano, seguono: antipasti, intermezzi, contorni, ‘dessert’ (come siamo soliti chiamarli oggi). – scrive Massimo Montanari in “Il Cibo come Cultura”- Alle salse si potrebbe forse riconoscere un ruolo analogo a quello dei morfemi grammaticali, privi di significato autonomo ma essenziali (come le congiunzioni o le preposizioni) per determinare natura e qualità dei protagonisti. I condimenti rientrano piuttosto nella funzione aggettivante della grammatica, o in quella avverbiale. La loro scelta può essere infatti legata a ragioni sia economiche (la disponibilità di risorse) sia rituali (nell’Europa cristiana il calendario liturgico con i suoi obblighi ‘di magro’ e ‘di grasso’) che conferiscono alle vivande una collocazione spaziotemporale tipica degli avverbi”.
Come designa un certo periodo dell’anno, l’alternanza dei condimenti può rivelare un costume in senso geografico (l’opzione tra oli e burro); mentre l’esclusione dello strutto definisce modalità salutistiche o religiose.
La retorica di adeguare all’argomento il discorso, con cui si intendono suscitare certi effetti, a tavola si traduce in allestimento, presentazione, servizio, consumazione. Nei generi consumati, nei modi di consumo, nella destinazione d’uso, si esprime uno stile di vita, un’identità di facciata che si vuole trasmettere formalmente, un messaggio, insomma, quale che sia l’intenzione o il contenuto. Le lungaggini conviviali sono lontane dalla maniera sbrigativa con cui si esaurisce una “colazione di lavoro”.
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La consolidata struttura del sistema alimentare tende a riprodurre modelli di riferimento, mantenendo ai protagonisti principali della vicenda nutritiva le medesime posizioni specifiche. Le strategie di sopravvivenza, di fronte ad un inaspettato allontanamento dell’abitudinario, si sforzano di conservare il linguaggio familiare dell’invarianza, di modo ché la sostituzione con l’alterità non pregiudichi la pratica dell’identità e della medesima cultura di riferimento.
Ogni sistema linguistico accoglie qualche variazione nella sua struttura morfologica e sintattica. Una volta individuata questa variante da impiegare al posto del prodotto di cui si lamenta la penuria, si adatta la risorsa disponibile alla tecnica conosciuta. Dal frumento, per il pane, si passa ai cereali inferiori, alle leguminose (fava), alle piante foraggere, alle verdure, ai frutti (castagne, “pane d’albero”), alle ghiande , alle radici, alle erbe selvatiche, senza tralasciare di sperimentare semi di uva e fiori di noccioli, e persino certe tipologie di humus commestibili (divenute fuor di metafora “terra che nutre”). Man mano ci si allontana dalla norma, si accresce però una prudenziale attenzione. Garanzia di riconoscimento del cibo verrà assunta dalla morfologia, perché tutto, dall’argilla alle ghiande, dalle fave alla verdura, sarà proposto sotto “forma di pane”, sia pur “pane di carestia”. E’ la rinuncia alle pratiche della consuetudine, alle tecniche già affermate che testimonia la perdita dell’identità e della cultura, più di qualsiasi fantasioso ingrediente.
Il modello che assegnò alla pasta asciutta, con condimento di formaggio, il nuovo ruolo fondamentale di piatto unico, in seguito alla carestia napoletana del XVII secolo, è rimasto fortemente identitario per i meridionali. La messa a coltura di segale ed avena coincise con il declino del frumento. Dichiaratamente vincenti furono i prodotti provenienti da oltre oceano, come patata,mais, pomodoro, peperone. E questo sta a dimostrare la grandissima capacità rigeneratrice e trasformativa dei sistemi alimentari, a fronte della possibilità di rafforzare l’immagine culturale, attraverso il meccanismo di difesa dell’introiezione.
Si assimila l’ignoto, ripresentandolo con modalità note, e già consolidate. La patata, offerta da Parmentier per essere trasformata in pane, diventa l’ingrediente principale per l’impasto degli gnocchi. Con il successo della patata, si è assistito pure all’oscuramento della rapa, il cui consumo era assai diffuso in campagna. Il mais si attesta ai primi posti di una classifica per la preparazione del piatto base della cucina contadina, la polenta, che prima dell’era di Colombo, vedeva inscritti farro, miglio, panìco, sorgo. L’assoggettamento alla consuetudine è stato inevitabile per la sua accettazione incondizionata che ha determinato la progressiva scomparsa dei rivali, tanto da incarnarne le connotazioni nominali: millet (miglio) in Francia, tengeribùsa (miglio marittimo) in Ungheria, in Italia melica o melega (sorgo), granturco o granoturco, granone, grano siciliano, frumentone, formentone, formentazzo, biava (quasi tutti derivati da lingue minoritarie o dialetti locali). Ai suoi esordi il pomodoro non ancora maturo veniva fritto in padella, finché maturo e sobbollito a lungo, non andò incontro alla fortunata trasformazione in salsa, adeguatamente adattata ad una fisionomia peculiare della tradizione spagnola, italiana e di altri paesi europei. La riduzione morfologica a qualcosa di noto, che lo rendeva compatibile all’impiego tradizionale, ne poteva accettare anche la novità di gusto e di colore. Il peperoncino rispose alla tacita, ma sentita, richiesta di spezie, formulata dalle classi subalterne ad imitazione delle usanze aristocratiche. Questo vuoto di offerta fu colmato a tal punto da trovare fertili radici in Ungheria come in Calabria.
L’introduzione di tè e caffè ha invaso il campo di vino e birra, con la loro sostituzione quali bevande di socializzazione fuori pasto. Anche in questo caso, al di là forse degli intrecci di interessi economici, politici o igienico-sanitari, a venire innescato è un meccanismo di trasferimento di funzione, e non una modalità aggiuntiva, per rendere permeabile la struttura linguistica del comportamento alimentare.
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La psicosociologia riconosce all’alimentazione la valenza di codice comunicativo non verbale, che, sia al di dentro e sia al di fuori della comunità d’appartenenza, esprime significati di vario tipo: economici, etnici, estetici, religiosi… Innanzitutto il valore simbolico è preminente nella trasmissione di contenuti culturali, nel riconoscimento di identità, come nella funzione di deposito di istanze tradizionali. Stare a tavola in un certo modo diviene veicolo di auto- rappresentazione, come pure di potenziale scambio di emozioni. Massimo Montanari lo definisce “il primo modo per entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui è più facile – almeno in apparenza – che decodificarne la lingua”.
La contaminazione in cucina si rivela molto spesso un arricchimento culturale insostituibile, ricercato da una curiosità intellettuale altrimenti di difficile gratificazione da parte di atteggiamenti di diffidenza dettati da ossessioni ortoressiche. La storia dell’alimentazione ci insegna che le identità culturali si sono via via adattate al contatto con l’alterità, sottoponendo l’ideale e rigida invarianza ad un’incessante ridefinizione. La civiltà che nacque dall’incontro-scontro tra tradizione romano-italica e quella barbarica assistette all’integrazione della scelta alimentare che ruotava intorno a pane, vino e olio in un ampliamento con quella in cui la proposta si limitava a carne, birra e grasso di maiale. La netta separazione geografica avveniva sulle sponde meridionali del mediterraneo, in cui la fede islamica rifiutava l’impurità di alcolici e carne di maiale, e non riconosceva neppure la carica simbolica che il cristianesimo attribuisce alle sostanze eucaristiche (pane e vino) ed al rito dell’unzione con l’olio santo.
L’apporto fornito dall’islam alla gastronomia universale fu più consistente in campo agronomico con l’immissione in agricoltura di nuove tecniche e nuove piante: riso, agrumi, canna da zucchero,melanzane, spinaci. I musulmani arricchirono poi il gusto culinario con il sapore agrodolce ed il dolce- salato e fecero conoscere ai siciliani, tra le tante altre cose, l’uso della pasta secca.
Alla luce della storia, le identità alimentari non sono poi così originarie, autoctone, o tradizionali, bensì frutto di incontri, incroci, invenzioni. La stessa decantata “dieta mediterranea” non può essere considerata “unica”, ma semmai un insieme di espressioni di lenti processi costruttivi. Accanto alle similitudini, piuttosto limitate, si manifesta una varietà estrema tra la cucina cretese, la libanese, la dalmata, la calabrese, la provenzale… In comune, di antico sembra ci sia soltanto la triade pane, vino, olio, e poco altro. I sapori attuali che circolano sulle sponde del mediterraneo sono nati l’altro ieri, con l’arrivo nel medioevo di melanzane e carciofi, e successivamente di peperoni, pomodori, patate, mais, fagioli americani. Anche l’apporto dell’ingrediente di base del pesto alla genovese, il basilico, non risale ad un periodo anteriore al rinascimento. E le verdure in genere sono sempre state relegate ad una gastronomia povera. Persino l’olio d’oliva era destinato ad altri usi, all’illuminazione (lampante) come alla cosmesi. Il modello attuale di dieta mediterranea si dimostra molto artificioso, risultato ultimo cioè di pratiche alimentari nate dall’incontro di culture, tecniche, gusti, nonché dalla libera circolazione di uomini e merci. “noi siamo il punto fisso: l’identità non esiste all’origine bensì al termine del percorso”, conclude Massimo Montanari. E la similitudine la fa con la pianta che ci nutre, le cui radici storiche si espandono lontano, man mano che si approfondiscono nel terreno.
Giuseppe M. S. Ierace
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