“I nostri ricordi rappresentano una grandissima parte di ciò che siamo” (Steven Pinker)
Si dice che non ricordare equivalga a non guardare in faccia la propria vita, eppure il rapporto tra memoria, coscienza, personalità ed attività mentale è ancora più stretto e complesso, al di là di qualsiasi prevedibilità.
“Pensare per l’uomo significa soltanto istituire paragoni per valutare le relazioni tra le cose: perciò il pensiero non può precedere l’esistenza della memoria”. Nella “Storia della mia vita”, Casanova aveva già fornito una spiegazione all’amnesia infantile: il bambino, tutto proteso com’è verso il futuro, non ha ancora avuto il tempo di accumulare ricordi sufficienti. Le strutture limbiche del cervello infantile non raggiungono la maturità che anni dopo.
A circa sette-otto mesi di gestazione il feto sarebbe già in grado di memorizzare uno stimolo, mantenendone il ricordo per qualche tempo. I primi abbozzi di movimenti delle labbra, che potrebbero rassomigliare ad un accenno di sorriso, comparirebbero un po’ prima, a sei mesi, gli sbadigli a tre mesi, mentre contemporanei sarebbero le timide tracce di sonno REM (sogno) e l’atto di sfregarsi gli occhi con le dita. Quello che sarà uno dei pilastri della coscienza e della personalità risulta un sistema piuttosto complesso che arriverà a maturazione molto più tardi. Tra le trenta e le trentaquattro settimane di gestazione potrebbe avere inizio una qualche esperienza di memoria a breve termine, mentre i primi ricordi permanenti cominceranno a registrarsi con la maturazione dell’ippocampo deputato a scomporre le esperienze e smistarle alle varie aree di immagazzinamento per il lungo periodo.
Dal lato opposto, l’anziano è trattenuto nel passato da una sovrabbondanza di rimembranze. La memoria che va man mano scomparendo in lui è quella episodica, dichiarativa, quella cioè ancora inesistente nel bambino. Questa memoria “a breve termine” registra tutto senza discrimine alcuno, finché l’oblio non interviene offrendo la possibilità di rinnovarne la capacità contenitiva, come il cancellino su di una lavagna.
La coerenza e la continuità della persona dipendono dal meccanismo con cui l’immagine-movimento, di cui parlava Bergson, fornita dalle percezioni, verrà o meno fissata in quella “rappresent-azione”, per come suggerita da Jean-Didier Vincent, che sarà poi consumata repentinamente, in un suo uso immediato, oppure relegata allo stoccaggio più duraturo. Si tratta di una memoria di lavoro transitoria, a breve termine, intesa a conservare le informazioni giusto il tempo necessario al loro fruttuoso impiego, per poi, bene o male, cancellarle quasi del tutto. A causa, infatti, della sua capacità limitata, deve evitare una facile saturazione. Un eventuale potenziamento non finalizzato di tale memoria sarebbe determinato da una compromissione del filtraggio e della cancellazione, con conseguente permanenza di informazioni non pertinenti, se non proprio superflue. In ogni caso, disporre di una memoria superiore alla media, al momento opportuno però, rientra tra gli aspetti distintivi delle capacità intellettive.
Corteccia frontale ed ippocampo, in base al luogo ed al momento, organizzano le rappresentazioni mentali sotto forma di mappe cognitive che verranno evocate da un meccanismo “evenemenziale”. La memoria “a lungo termine” opera delle scelte dettate dallo stato emotivo, le quali possono rendere stabile l’effimero oppure ne occultano ogni traccia.
“Ritenere qualcosa significa dimenticare il resto… – scrive Jean-Didier Vincent in “Viaggio straordinario al centro del cervello” (Ponte alle Grazie, Milano 2008) – Lodato sia l’oblio che da vita al ricordo!”
Oltre alla cancellazione determinata dalla fragilità delle tracce, l’oblio cala sui ricordi insopportabili alla coscienza, la quale li reprime per difendersi da istanze troppo impegnative, impellenti e di difficile soddisfazione. Nel compartimento della memoria a lungo termine si depositano ricordi selezionati da questa procedura indispensabile al funzionamento ed alla conservazione delle tracce mnesiche. Il modello di tale prassi è assimilabile a quello dell’evoluzione delle specie: rafforzamento di ciò che si rivela più adeguato e trascuratezza per quanto rimane. Certe combinazioni sinaptiche, destinate alla transitorietà, vengono eliminate, altre, che hanno dimostrato una loro utilità, scampano all’aleatorietà e si mantengono stabilizzate dal loro stesso valore adattativo, secondo una progressiva elaborazione di rappresentazione individuale del mondo. Dietro l’attività di una via afferente, avviene la depolarizzazione della membrana cellulare con (PLT) potenziamento sinaptico a lungo termine (regola di Hebb).
Cambier e Verstichel, in “Le cerveau réconcilié”, hanno sottolineato l’importanza dell’oblio nei rapporti con la vita affettiva. Lo stato d’animo sposta il confine tra i due tipi di memoria inconscia e cosciente. Sconfinata l’una, limitata l’altra da un’inflessibile censura. Alcuni ricordi dimenticati riemergono soltanto in presenza di un’emozione equivalente a quella che li aveva rimossi. Il famoso caso dello “smemorato di Collegno” è caratteristico di una simulazione, alla stregua di come può esserlo di un’amnesia psicogena, l’amnesia letteraria del “viaggiatore senza bagaglio” (amnesia retrograda totale).
Secondo alcuni (in particolare Henry Roediger), avere a che fare con una memoria deficitaria potrebbe procurare dei risvolti positivi. Uno di essi sarebbe rappresentato dalla sollecitazione che la labilità mnesica esercita sullo sforzo mentale, le facoltà ideative del pensiero (funzione “creativa” di una memoria difettosa). La concatenazione di ricordi frammentari incentiva le libere associazioni di parole, immagini, idee, favorendo la nascita di ipotesi e deduzioni; una successione fin troppo dettagliata degli avvenimenti passati peserebbe invece sulla modalità di preordinare il futuro (funzione “costruttiva” della memoria frammentaria). La cancellazione poi di eventi dolorosi risparmia inutili, spiacevoli ed improduttive sofferenze (funzione “atarassica” dell’oblio). Eppure, anche in quest’ultima funzione, la memoria compie errori madornali, non scevri di drammatiche conseguenze, per cui spesso non si riesce a dimenticare quello che si vorrebbe; ebbene si, il meccanismo deputato a dimenticare non può essere programmato volontariamente.
“La tua memoria è un mostro: tu dimentichi, lei no. Si limita semplicemente ad archiviare tutto quanto. E mantiene i ricordi a tua disposizione, o te li occulta, per poi farli comparire a suo piacimento. Forse pensi di possedere una memoria, ma in realtà è la tua memoria che ti possiede!” (John Irving).
La psicologia sociale ha evidenziato il peso considerevole esercitato sulla vita di tutti i giorni dal fenomeno dell’anticipazione (priming). Un’informazione viene recuperata più rapidamente su innesco di recenti analogie. Steel e Aronson (1995) hanno dimostrato come sia questo il modo in cui si alimentano gli stereotipi culturali.
Questo medesimo fenomeno aggrava la depressione in base al circolo vizioso: stato d’animo negativo, riflessione sugli aspetti deteriori delle proprie misere vicende esistenziali (oppure tentativi maldestri di autoterapia, come abusare di alcolici, o altre attività depressogene), ulteriore peggioramento dell’umore.
Nel caso della memoria transitoria, a livello neurotrasmettitoriale, interviene un’attività colinergica. L’acetilcolina (Ach), prodotta dalle cellule del nucleo basale di Meynert verrebbe “spruzzata” a livello del setto e dell’ippocampo. Il che ha indotto a proporre un trattamento sintomatico del morbo di Alzheimer, in cui la degenerazione neuronale del nucleo basale di Meynert impoverisce l’attività colinergica.
Da quando Alzheimer scoprì i filamenti tubolari intraneuronali di proteina tau iperfosforilata (degenerazione neurofibrillare) ed i depositi extracellulari di sostanza beta amiloide, associati agli accumuli perivascolari delle angiopatie congofile (placche senili), si è parlato genericamente, fino a non molto tempo addietro, di demenze “presenili”, in contrapposizione alle più tardive, secondo una classificazione convenzionale basata sul crudo dato anagrafico.
La trasformazione delle informazioni, provenienti dagli organi di percezione, in tracce mnesiche dovrebbe venire effettuata dai sistemi di messa in memoria situati nel circuito ippocampo-mammillo-talamico di Papez. L’incapacità di creare queste tracce mnesiche da parte di tali strutture determina la “sindrome della tela cerata”. I fatti recenti non vengono registrati, mentre quelli già acquisiti prima della malattia, non solo sono rievocabili facilmente, ma rischiano di invadere ogni campo di interesse della persona.
All’esordio si manifestano dei disturbi dell’attenzione, subito dopo quelli della pianificazione e della competenza che ledono la facoltà di risoluzione dei problemi. Ben presto la malattia coinvolge, dal punto di vista affettivo, chi si occupa del paziente (caregiver), in special modo al sopraggiungere dei sintomi della compromissione del comportamento e della vita di relazione, con eventuali disinibizione, agitazione, aggressività… Allorquando il soggetto perde la coscienza di sé, quella che era la persona di un tempo progressivamente si svuota, lasciando l’involucro corporeo di una larva senz’anima.
“Il nostro passato si cancella mentre ci diventa più difficile costruire nuovi ricordi. Dove va a finire la mia vita quando la memoria viene meno? Non sto forse già morendo? Non sto forse morendo perché non ho più abbastanza ricordi con cui nutrire il mio futuro?” (J.-D. Vincent)
A costituire il nucleo stesso del concetto di demenza, ed uno dei suoi primi segnali d’allarme, secondo Signoret e Jorm, v’è la difficoltà del “controllo”, un deterioramento di quei processi, studiati da Schneider e Shiffrin e da loro battezzati “controllati”, in relazione a quelli automatici; si tratta di procedimenti lenti, seriali, di capacità limitata, “attenzionali”, intenzionali, perché regolati dal soggetto, i quali richiedono uno sforzo mentale; Posner e Snyder li hanno chiamati “coscienti”, Hasher e Zacks “effortful”.
I pazienti che soffrono di morbo di Alzheimer non hanno consapevolezza dei loro disturbi (anosognosia). Ad una certa età è normale lamentarsi dell’efficienza della propria memoria, ebbene i veri malati di Alzheimer paradossalmente non lo fanno. Invece, le preoccupazioni, le ruminazioni, l’angoscia impediscono ai soggetti affetti da depressione (pseudo-demenza) di esercitare tutta l’attenzione necessaria a registrare gli stimoli ricevuti dai canali percettivi (visivi, uditivi, sensitivi…), in maniera soddisfacentemente idonea a consentirne un successivo richiamo.
Quando ad essere ostacolato, prima di attivare le opportune strategie cognitive messe a disposizione dai lobi frontali, è il recupero delle tracce mnesiche, si manifesta il fenomeno di chi sostiene di “avercelo sulla punta della lingua”. Altra forma imbarazzante di deficienza mnemonica è l’anomia dei nomi propri.
La perdita dei ricordi da un certo momento in poi (amnesia anterograda) è riconducibile a lesioni ippocampali. Le compromissioni del lobo parietale sinistro impediscono l’esercizio del linguaggio e della memoria di cifre. Amnesia anterograda totale e retrograda parziale, errori di riconoscimento e confabulazione, tesa a compensare il deficit di memoria, sono caratteristici della sindrome di Korsakoff, dovuta all’alcolismo che danneggia pure i nervi periferici.
In “Le cerveau intime”, Jeannerod propone una classificazione dei compartimenti della memoria in funzione, oltre che della loro accessibilità, anche del loro contenuto. Una principale distinzione riguarda i ricordi che non arrivano alla coscienza, eppure sono accessibili automaticamente(memoria procedurale), e quelli che possono essere rievocati consapevolmente (memoria dichiarativa). La memoria procedurale, inconscia, automatica, implicita, raggruppa sostanzialmente pratiche ripetute, competenze, abitudini, ed è la più resistente all’oblio.
La memoria episodica fa riferimento ad eventi esperienziali, successivamente fissati dal linguaggio in un racconto (memoria uditiva), oppure l’evento della memoria episodica si traduce in immagine mentale (memoria visiva).
Un caso del tutto particolare sarebbe rappresentato dalla memoria “spaziale”. Esistono dei neuroni che si attivano in connessione con i luoghi (place cells), incrementando o diminuendo la loro attività a seconda del posto (place field); sono cellule piramidali appartenenti ad un’area molto plastica dell’ippocampo (regioni CA1 e CA3), che vanno al subiculum per poi diramarsi alla corteccia. E’ questo tipo di memoria che intendeva sviluppare l’antica mnemotecnica quando invitava ad esercitare i ricordi per il tramite delle associazioni di immagini a luoghi.
La memoria semantica contiene tutto ciò che concerne il linguaggio, la conoscenza e quella curiosità di apprendere che forma la cultura nei suoi contenuti di rappresentazioni trasmissibili (memi), comportamenti, educazione. Durkheim avrebbe definito l’educazione come un insieme di azioni esercitate allo scopo di ottenere un’integrazione nella comunità d’appartenenza. E difatti lo spazio extracorporeo (il nostro piccolo mondo) viene fortemente plasmato dalle influenze sociali e dagli scambi relazionali.
Di solito, dai nostri ricordi estraiamo ciò di cui abbiamo bisogno servendoci del contesto, di indizi cioè che fanno esplicito riferimento a quanto andiamo cercando (memoria contestuale). Così l’informazione viene in mente in maniera quasi naturale. La spontaneità di tale meccanismo è strettamente intrecciata al contesto, per quanto riguarda pertinenza, associazione per somiglianza, contiguità, continuità, contrapposizione. E’ questa la forza trainante per accedere ai ricordi, perché l’ambiente dimostra di avere primaria importanza nell’influenzare il procedimento della memorizzazione. Alla nostra attenzione si offrono quindi le cose di cui abbiamo avuto maggiormente bisogno più di recente e più spesso, le più comuni, quelle che in circostanze analoghe sono state meglio messe in evidenza o si sono dimostrate utili.
Nel compensare la sua lentezza, questa procedura di estrazione dal contesto, fa ricorso a percorsi paralleli. Per ovviare a tale inconveniente, Anderson, in “The adaptive character of thought”, suggerisce lo stratagemma consistente nel formulare il quesito di ricerca nella maniera più corretta e dettagliata possibile, ricorrendo dunque al maggior numero di indicazioni, sempre più specifiche, onde escludere i ricordi non pertinenti, e rivolgendosi a postazioni già mappate precedentemente, piuttosto che a generiche concordanze. “In pratica, – dice Gary Markus in “Kluge- l’ingegneria approssimativa della mente umana” (Codice, Torino 2008) – ogni qual volta ricordiamo una qualsiasi cosa, c’è un contesto che sovrasta lo sfondo”. Se il contesto combacia con le circostanze della memorizzazione originaria sarà certamente più facile che non in difformità di esse.
Quando si parla di memoria è impossibile non riandare col pensiero a quel gran monumento della letteratura che è “À la recherche du temps perdu” di Marcel Proust, con l’inevitabile citazione della madeleine. Quello che Proust definì “ricordo involontario” è un esempio di come, al di sotto della soglia di consapevolezza, operino modalità di ritrovamento che scattano dietro la stimolazione più insignificante, come appunto la combinazione di gusto e odore.
Il tempo ritrovato può avere delle coloriture positive, così come configurarsi in avversione condizionata. E’ quanto succede ai topi sopravvissuti ad una avvelenamento da derattizzazione, i quali eviteranno per sempre la trappola. La semplice associazione fra uno stimolo ed un’emozione, che accomuna uomini e topi, costituisce una forma di memoria primitiva, ma quasi indelebile.
Nel recuperare i ricordi, il richiamo funziona prevalentemente per associazione, mentre il riconoscimento è una procedura del tutto passiva che non esime dai falsi.
Molto probabilmente le facoltà mnesiche si sono evolute con un indimenticabile e non assolvibile “peccato originale”, quello di dover essere messe a disposizione di organismi viventi ed agenti nel “qui ed ora”, dietro stimoli percettivi in base ai quali si aveva l’impellente necessità di rispondere repentinamente alle esigenze dell’ambiente, per cui pertinenza, ma ancor più contesto, frequenza e recenziorità (“recenza”) servivano a prendere decisioni rapide rivolte nell’immediatezza a risolvere problemi quali l’autodifesa o l’approvvigionamento di cibo. E tutto ciò a scapito della precisione, accuratezza, affidabilità.
La memoria va incontro a varie forme di disagio, o di trasgressione, note quali paramnesie: distrazione, labilità, blocco, errata attribuzione, suggestionabilità, distorsione, persistenza. Daniel Schacter li elenca come i sette peccati capitali contro la memoria (“The seven sins of memory. How the mind forgets and remembers”). I primi tre sono peccati di omissione, per difficoltà di recupero della traccia mnesica: riduzione di attenzione nella registrazione dei ricordi (distrazione), loro indebolimento con il trascorrere del tempo (labilità), ricerca infruttuosa nel recupero dell’informazione (blocco); gli altri quattro diventano peccati di commissione, ovvero casi in cui il ricordo si presenta si, ma indesiderato, oppure in forma alterata: sbaglio nell’ascrivere la giusta fonte o scambio di contesti (errata attribuzione), falsi ricordi instillati da suggerimenti (suggestionabilità), influenza delle convinzioni attuali (distorsione), inquietante reiterazione di rimembranze spiacevoli (persistenza). Suggestionabilità, errata attribuzione e distorsione hanno profonde implicazioni in ambito forense e sono all’origine di clamorosi errori giudiziari.
Del resto, una memoria attivata dal contesto è ovviamente più suscettibile a molteplici interferenze, fino a deviare verso la totale confusione. Il dato incontrovertibile che venga privilegiato il reperimento rapido dell’engramma, piuttosto che la specificità dell’informazione, provoca sovrapposizione di tracce che tendono ad accavallarsi. Posner e Keele (1968) hanno attribuito alle interferenze la maggior responsabilità nella nascita di falsi ricordi.
“Flash bulb”, brevi lampi che “fotografano” eventi straordinari, di cui in qualche modo si diviene testimoni, proprio in virtù di questa presunta confidenza con cui verranno trattati, peccano di eccesso di fiducia, nel mentre la fotografia si sbiadisce ed i particolari divengono sempre meno consistenti ed accurati. In ultima analisi, si tende a ritenere il nocciolo della questione, perdendo di vista i dettagli. Spesso non è la buona fede a dover essere messa in discussione, ma le inevitabili limitazioni imposte dall’attivazione contestuale della memoria. Basta una leggera differenza nella formulazione del quesito di ricerca per influenzare i ricordi che di conseguenza rispondono alla sollecitazione ricevuta.
La memoria subisce poi dei continui emendamenti. Col tempo i ricordi diventano labili e suscettibili ai cambiamenti. Per lo più la revisione sembra avvenire a proprio vantaggio, con il meccanismo del guadagno secondario.
La cosiddetta memoria sorgente (source memory) riguarda gli interrogativi classici delle cinque “W”: chi, dove, come, quando e perché un’informazione è stata acquisita.
Il “buffer” è un’allocazione di memoria che va aggiornato con la cancellazione del superfluo e che deve evitare ogni conflitto tra “recenza” (recenziorità) temporale e frequenza abituale. La forza dell’abitudine potrebbe avere il sopravvento sull’obiettivo più recente che si sovrappone al primo (stack), ma potrebbe succedere a volte anche il contrario. Altro conflitto si perpetra tra evento e momento, per la collocazione degli avvenimenti nella giusta sequenza. Il rimedio in questo caso consiste in una pratica deduttiva, e quindi nell’estrarre la correttezza attraverso un processo di “ricostruzione” dei fatti, ricorrendo a sicuri punti di riferimento idonei a comporre delle coordinate.
Abbiamo visto come il metodo dei “loci” della mnemotecnica abbinasse un luogo particolare (di un teatro, un giardino, una casa…) ad ogni cosa da tenere a mente. Altri stratagemmi si rifanno al ritmo, alla sintassi, alla rima, ai gesti, alle motivazioni… Artifici questi che si rivelano come nient’affatto democratici, perché non sembrano alla portata di tutti. Se non si riesce a padroneggiare tali sistemi, meglio rassegnarsi ad organizzare la propria esistenza in misura adeguata ai limiti della memoria.
Giuseppe M. S. IERACE
Bibliografia essenziale:
Anderson J. R. “The adaptive character of thought”, Erlbaum Associates, Hillsdale (NJ) 1990
Cambier J.et Verstichel P.: “Le cerveau réconcilié”, Masson, Paris 1998
Ierace G.M. S.: “I balbettamenti del pappagallo”, www.nienteansia.it
Jeannerod M.: “Le cerveau intime”, Odile Jacob, Paris 2002
Marcus G.: “Kluge- l’ingegneria approssimativa della mente umana”, Codice, Torino 2008
Schacter D.: “The seven sins of memory. How the mind forgets and remembers”, Houghton Mifflin, Boston 2001
Vincent J.-D. : “Viaggio straordinario al centro del cervello”, Ponte alle Grazie, Milano 2008