“Nella vita non si patisce mai per le idee… ma si soffre immancabilmente quando vengono toccati i sentimenti: è lì che hanno origine il dolore e l’angoscia. Se l’oggetto viene a mancare, abbiamo la sensazione e persino il desiderio di morire… È importante comprendere il significato psicologico di questo desiderio, perché non si tratta di una volontà vera e propria di morire. La morte è intesa come un passaggio simbolico da una fase esistenziale a un’altra, un momento di trasformazione” – Aldo Carotenuto (1933-2005).
L’atto di autoannientamento andrebbe distinto innanzitutto dal suicidio “assistito”, eticamente differente dall’eutanasia, come dal cosiddetto suicide by cop, in cui possono essere individuate le due grandi categorie di quando si provocano gli inseguitori, preferendo una fine “eroica” piuttosto che essere arrestati, e di chi decide, per qualsiasi motivo, di coinvolgere altri nel progetto letale e la commissione del crimine ha l’originario e precipuo intento di provocare una reazione da parte delle forze dell’ordine.
Con questo nuovo, formale, criterio identificativo si è ipotizzato di poter retrospettivamente riconoscere diversi casi accaduti in un più o meno recente passato, tipo quello di Mal Evans, musicista britannico e manager, famoso per essere stato l’assistente personale e il roadie (tecnico viaggiante) dei Beatles, con cui aveva collaborato per “Sergeant Pepper“, il quale, dopo lo scioglimento del gruppo, nel 1976, all’intimazione della polizia, si rifiutò di deporre un semplice fucile ad aria compressa.
Paradigmaticamente, questo “malessere” dell’individuo si potrebbe, dunque, accostare al comportamento antisociale di tipo delinquenziale o postribolare. Tanto appare poco agevole, infatti, spiegare il suicidio ponendolo sullo stesso piano di una malattia specifica.
Edwin S. Shneidman (1918-2009) era solito assimilare tale condizione a quella dell’innamoramento.
“Si pensi a quanto è inebriante l’essere innamorati. Corpo e mente si ritrovano al massimo di benessere e felicità. – spiega Maurizio Pompili, in “La prevenzione del suicidio” (il Mulino, Bologna 2013) – Poniamo di capovolgere questo stato in tutta la sua valenza: troviamo un malessere che ben si avvicina a quello dei soggetti a rischio di suicidio. In altre parole, viene qui posto l’accento sul fatto che il suicidio è una dimensione dell’individuo più che una malattia di un certo organo, apparato o sistema”.
L’estrema sofferenza che si prova per l’insoddisfazione di bisogni vitali viene definita dallo stato soggettivo del momento con modalità distorte, proprie a quella condizione psichica e, in ogni caso, non adeguatamente funzionali a gestirla, per via dell’assunto dell’unicità del proprio dolore mentale.
Nell’ambito di tanta commistione di sfiducia e disperazione, John T. Maltsberger, nell’evidenziare i fenomeni del fallimento (breakdown) dell’Io, ha proposto un modello di suicidal collapse, il cui “crollo” comporterebbe il dinamismo di quattro aspetti interconnessi, non necessariamente in sequenza, ma i cui ultimi due sono decisamente determinanti per la definitiva involuzione del Sé (self-devolution).
Quale metafora esemplificativa viene impiegata l’esperienza descritta da un classico della letteratura fantastica di Edgar Allan Poe (1809-1849), “A Descent into the Maelström” (1833), a cui fa diretto riferimento il titolo (The descent into suicide) del lavoro di Maltsberger, pubblicato su The International Journal of Psycho-Analysis (2004).
Il racconto sarebbe stato scritto ben prima della cocente confessione a John Pendleton Kennedy (1795-1870), nella lettera dell’11 settembre 1835: «Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino a ora avvertito. Mi sforzo invano sotto questa malinconia e credetemi, quando Vi dico che malgrado il miglioramento della mia condizione mi vedo sempre miserabile. Consolatemi Voi che lo potete e abbiate di me pietà perché io soffro in questa depressione di spirito che se prolungata, mi rovinerà…»
Il fenomeno, che si verifica nei pressi dell’arcipelago delle Lofoten, lungo la costa atlantica della Scandinavia, e che i norvegesi chiamano moskenesstraumen, sarebbe simile a un gorgo, come quello omerico di Cariddi, causato dalla marea nello stretto, angusto e poco profondo, tra Lofotodden e Værøy, con in mezzo l’isolotto di Mosken, dove i vortici renderebbero molto pericolosa la navigazione alle piccole imbarcazioni. Attirate verso il centro, dove si apre un abisso a forma di cono che le risucchia, vengono, infatti, violentemente scaraventate verso il fondale, dal quale è impossibile scampare. Il pescatore che riesce miracolosamente ad aggrapparsi a un barile vuoto, rappresenta l’Io paralizzato che osserva, impotente, il naufragio della sua nave (il Sé), sopraffatta dalle catastrofiche correnti dei sentimenti.
Il diluvio affettivo è un’emergenza mentale che spinge alla disperazione più intensa, riconoscibile nella mimica e nel linguaggio non verbale del corpo intriso di questo vissuto. La calma apparente andrebbe interpretata come ambigua e pericolosa dissociazione del pensiero, in seguito alla definitiva deliberazione, pertanto rasserenante.
All’inondazione emotiva si reagisce con una lotta altrettanto disperata. L’angoscia peggiora le intenzioni, compromettendo il rendimento relazionale, mentre i comportamenti divengono autolesionistici. Riesce a dominare l’insostenibile sensazione di impotenza solo la formulazione d’un piano d’attacco al nemico interiore che si è impossessato d’un corpo vissuto come alieno.
Sotto l’effetto dell’oppressione, la disintegrazione avviene nella completa perdita dell’autocontrollo.
Intervengono allora grandiose fantasie magiche di salvezza dall’incombente annichilimento, mediante la sopravvivenza possibile in altre dimensioni del Sé mentale, ipoteticamente separato dal fisico, nettamente rifiutato. In quest’immaginario la soppressione del corpo permetterebbe una svolta e una vita differente in un, a questo punto, ambito altrove. Il fallimento dell’esame di realtà è ormai al suo culmine e prende il sopravvento una smodata superbia narcisistica, che esagera all’inverosimile il talento per la fuga da parte di chi costituisce un’eccezione, grazie a dei poteri illimitati.
In “Man’s search for meaning” (1959), Viktor Emil Frankl (1905-1997) sosteneva che i soggetti a rischio di suicidio hanno perso di vista il senso della loro vita, riducendosi in balìa degli eventi esterni come quei rami in continua oscillazione a causa delle raffiche d’un vento che prima o poi sarà in grado di spezzarli. E difatti, una vita priva di ciò che si ritiene indispensabile può indurre a concludere che non valga la pena d’essere vissuta. Questo smarrimento si ripiega e contorce nell’angoscia, nell’insonnia, nell’incapacità di concentrarsi, e spinge a compromettere ulteriormente la gestione delle emozioni negative con scelte di comportamenti espressamente controproducenti.
Se i conflitti relazionali divengono determinanti costituiranno un richiamo alla vendetta e alla punizione. E l’immagine della reazione degli altri rinvigorisce ancor più l’ambivalenza del desiderio.
Se risulta più imperiosa la necessità di non pensare, per evitare le elucubrazioni, si cercherà momentaneo sollievo in qualcosa di effimero o in un vago vagabondare, entrambi malriusciti tentativi di fuga.
L’autore de “La prevenzione del suicidio” (il Mulino, Bologna 2013) fa risalire la nascita della suicidologia al momento in cui Shneidman, nel 1949, dovette affrontare lo studio delle note di accompagnamento all’atto suicidario raccolte nell’archivio del Los Angeles Hall of Records. Prima di allora, i biglietti lasciati dai defunti che si apprestavano a morire erano stati oggetto d’un articolo pubblicato dall’American Mercury nel 1931 da Howard Wolf (Suicide notes, 24, 264-72).
A distanza di qualche anno, Shneidman pensò di confrontare, in cieco, le note che aveva trovato in quell’archivio con quelle simulate da parte di persone non suicide, iniziando così un primo tentativo di studio del suicidio con metodo scientifico (Shneidman e Farberow 1956 e 1957).
I messaggi affidati alla deriva costituiscono “sempre” delle parole “mai” pronunciate o non comprese, dei “non detti”, veri e propri “messages in a bottle”, nonostante l’estrema similitudine e monotonia che si rilevano nella piattezza della loro banalità e nell’inadeguatezza dimostrata nello sforzo d’esprimere un turbinio emotivo del tutto personale (Shneidman, Suicide notes reconsidered, 1973).
Peter Tripodes sottolinea la trasformazione dei processi psichici nell’imminenza del gesto, caratterizzata da una più netta incapacità, disorientamento, ritiro in se stessi, i quali si ripercuotono indubbiamente sul contenuto medesimo di quanto viene scritto in balìa di tanta confusione mentale, con l’evidente risultato di dimostrarsi sterile nel fornire spiegazioni plausibili. Con la sua marcata riduzione attentiva, il restringimento del campo di coscienza comporta quella “visione tunnel” che Al Alvarez, in “The savage god” (1971), ha definito come un “mondo chiuso”.
La differenza maggiore con i tentatori che non portano a termine il loro intendimento sembrerebbe risiedere in una sorta di isolamento, quasi consapevole dell’insuccesso, per cui nello scritto che non viene indirizzato a nessuno si tralascia il riferimento alla richiesta di perdono. L’intento suicidario quindi potrebbe essere valutato proprio dal contenuto della nota approntata.
Non è quindi soltanto possibile riconoscere la simulazione, anche a fini medico-legali, ma persino, distinguendo tra le note vere quelle più ricche d’autoaccusa o di ostilità, rintracciare nominativi o istruzioni per chi le trova. Nelle note non simulate, in genere più lunghe delle altre, si rintraccia minore riflessività da parte dell’estensore e delle sintomatiche polisemie dei significanti affettivi, come la parola amore.
Elemento inconfutabile non è tanto l’evento traumatico, che potrebbe essere giudicato a prima vista scatenante, ma la presenza dell’autoaccusa che nelle note vere supera il sentimento di rabbia che caratterizza i messaggi falsi.
La psicopatologia forense invita pure a ben esaminare la dinamica dell’evento, ricercando macchie d’inchiostro sulle mani della vittima (cutaneous ink sign). Visto che coloro che lasciano note dimostrano un intento suicidario maggiore rispetto ai tentatori, i quali solitamente non accompagnano il loro gesto con dei messaggi, di fronte allo scritto di un mancato suicida bisogna considerare molto alto il rischio che già si è corso e che il medesimo tentativo si ripeta.
Il soggetto suicida comunica più spesso d’aver provato preoccupazione per una perdita, o per il rifiuto da parte d’una persona per lui significativa, con cui s’è identificato (Leenaars A. & Balance W. 1981). I giovani, in particolare, manifestano espressamente dei contenuti riconducibili agli enunciati freudiani (Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse, 1917), ed essendo più critici verso se stessi, contengono maggiore aggressività autodiretta, pur comportandosi come se stessero reagendo verso un oggetto “esterno” (introiettato), piuttosto che contro di loro.
In “Man against himself” (1938), affinché si possa compiere il suicidio, Karl Menninger presuppone la coesistenza di tre componenti psichiche, prevalentemente di desiderio: quello d’uccidere, d’essere uccisi, e di morire. Distruggere qualcosa di prezioso costituisce un efficace attacco sadico che risponde a un’intenzione punitiva o a quella di compiere una vendetta, ma oltre la rabbia, e il desiderio di fuga, ciò che traspare di più nelle note di coloro che l’atto lo completano sono i pressanti contenuti d’autoaccusa. L’aggressività e il dispetto sono pertanto decisamente e incontrovertibilmente più autodiretti.
A lasciare messaggi sono più frequentemente anziani, non affetti da malattia mentale, soggetti di sesso femminile, quanti scelgono il giorno d’inizio settimana, il cosiddetto “blue Monday”, o ricorrono alla modalità dell’avvelenamento (Heim & Lester 1990). Quest’utilizzo potrebbe correlarsi direttamente a un’interiore necessità di esternazione della colpa, mentre chi sceglie l’impiccagione dimostrerebbe più rabbia e aggressività. In precedenza Ray Chynoweth (1977) si era limitato a rilevare quelli che compiono l’irrimediabile gesto con armi da fuoco.
Le tradizionali “ultime volontà” caratterizzano le note degli anziani, vedovi o divorziati, che abbiano risentito recentemente della perdita del partner, ancora soggetti di sesso femminile, quanti ricorrono all’elettricità.
Gli uomini fanno riferimento al dolore fisico e a quello psichico, alla depressione, come a difficoltà interpersonali, descrivendo più dettagliatamente gli eventi precipitanti che li hanno condotti all’irreversibile decisione (Lester & Heim 1992). Le donne sono più inclini a una maggiore preoccupazione interpersonale, indirizzano il loro messaggio a qualcuno, e chiedono esplicitamente perdono.
La svalutazione nelle performances lavorative e sociali, l’abbassamento dell’autostima, l’autoaccusa, l’insorgenza di malattie incurabili pesano sulla risoluzione delle persone anziane. Per Anton A. Leenaars (1992), i loro messaggi costituiscono comunicazioni di disperazione assoluta.
Per quanto riguarda i soggetti giovani, invece, la prospettiva psicoanalitica intravede nell’atto d’aggressività autodiretta, oltre a un ambivalente attaccamento all’oggetto, o alla sua perdita, la sua internalizzazione. Gli adolescenti un po’ più grandi d’età tendono alla concretezza, lasciando istruzioni particolareggiate, senza per questo indirizzarle ad alcuno, e senza provare a dare giustificazioni motivate al gesto, scelgono metodi d’intossicazione (Posener J., LaHaye A., Cheifetz P. N. 1989).
I destinatari d’un messaggio sperimentano le conseguenze più gravi dell’episodio luttuoso. Per i lettori della nota è notevole il disagio di non poter ritrasmettere i propri sentimenti o il forte disturbo d’essere stati motivo d’un eventuale perdono che comunque presupporrebbe una colpa implicitamente attribuita con un meccanismo del tutto manipolativo. Mentre l’autoaccusa sarebbe un metodo d’assunzione della piena responsabilità per aver troncato una relazione problematica.
Ridurre il rischio di contagio o dei comportamenti imitativi dovrebbe costituire una pratica di normale profilassi che riconduca ogni evento alla complicazione di crisi psicosociali da trattare in tutti i modi possibili, evitando pericolosi sensazionalismi, glorificazioni, e identificazioni.
Nell’ipotizzare nessi significativi tra storie di suicidi ed eventi a questi riconducibili, David P. Phillips (1979) avrebbe riscontrato una connessione tra amplificazione mediatica d’un certo atto e incremento del numero di incidenti nella settimana successiva alla divulgazione della notizia. Un effetto che si realizzerebbe soprattutto se a essere coinvolto è un personaggio d’una certa notorietà, sostiene Ira M. Wasserman (1984), ricordando i comportamenti imitativi suscitati dalla lettura dell’opera simbolo del movimento dello Sturm und Drang. Il romanzo epistolare “Die Leiden des jungen Werthers” (1774) di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) suscitò sia il fenomeno denominato in tedesco “Werther-Fieber” (febbre di Werther), sia i primi esempi di suicidio mimico, a cui i sociologi hanno attribuito l’appellativo di “effetto Werther”.
Nel caso della rockstar Kurt Donald Cobain (1967-1994), la vedova Courtney Michelle Harrison (Love) ha presentato il suicidio del marito connotandolo drasticamente di tratti negativi, con uno stile comunicativo che ha immediatamente arginato i tentativi di comportamento imitativo che avrebbero potuto attuare i fans dei Nirvana.
Giuseppe M. S. Ierace
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Ierace G. M. S. Psicoanalisi e fede, la sofferenza d’una vita senza senso…, https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/psicoanalisi-e-fede-la-sofferenza-d%E2%80%99una-vita-senza-senso%E2%80%A6-se-in-principio-non-e-amore/9089/
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