“Dalla sua pace/ la mia dipende;/ quel che a lei piace/ vita mi rende./ Quel che le incresce/ morte mi dà.// S’ella sospira,/ sospiro anch’io./ E’ mia quell’ira,/ quel pianto è mio;/ e non ho bene/ s’ella non l’ha.” – Don Ottavio nel “Don Giovanni”, dal libretto di Emanuele Conegliano/Lorenzo Da Ponte (1749-1838).
La dipendenza da altri non denota soltanto vulnerabilità, ma soprattutto alienazione. La semplice ammissione d’essere gelosi ci fa provar vergogna, poiché dimostra una “nostra” inferiorità e, anche se si tratta d’un fatto specificamente linguistico, equivarrebbe tout court a un acting out.
L’immagine che abbiamo di noi, corrispondente ad amor proprio o a vanità, subisce un assalto, di cui potremmo distinguere una componente di “perdita” e un aspetto “narcisista”, ma solo “formalmente”, a seconda di come s’inquadra la natura stessa dell’amore.
La felicità procurataci in positivo, derivante direttamente dalla fiducia in un altro, oltre che ulteriormente amplificata poi in noi stessi, verrebbe compensata in un altro senso, di segno opposto, dal timore d’un’assenza di reciprocità.
Tutto ciò è “normale”, anzi, sarebbe la negazione della gelosia a stonare in questo contesto.
“Quando sembra che manchi del tutto dal carattere e dal comportamento d’una persona, è legittimo inferire che abbia subito una forte rimozione, e svolge quindi una parte tanto più importante nella vita psichica inconscia”.
In “Über einige neurotische Mechanismen bei Eifersucht, Paranoia und Homosexualität” (1922), Sigmund Freud (1856-1939) si riferisce unicamente a una “possente repressione” (“starke Verdrängung”).
“I casi di gelosia anormalmente intensa che incontriamo nel lavoro psicoanalitico si rivelano disposti a tre livelli. I tre livelli o gradi della gelosia possono essere chiamati: 1) gelosia competitiva o normale; 2) gelosia proiettata; 3) gelosia delirante. Sulla gelosia normale dal punto di vista analitico non c’è molto da dire. È facile constatare ch’essa è essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione d’aver perduto l’oggetto d’amore e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa esser distinta dal resto; infine, da sentimenti ostili verso il più fortunato rivale e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa… ”.
Il successivo approfondimento esplicativo ammette trattarsi di qualcosa “keineswegs durchaus rationell”, con particolare accentazione su “den wirklichen Verhältnissen proportional”.
“Anche se la chiamiamo normale, questa gelosia non è certo interamente razionale, ossia determinata dalla situazione attuale proporzionata alle circostanze effettive e sotto il controllo dell’Io cosciente e solo di esso; anzi essa è profondamente radicata nell’inconscio, è la continuazione dei primissimi impulsi della vita affettiva infantile e trae origine dal complesso edipico o da quello fratello-sorella del primo periodo sessuale”.
“Die Eifersucht gehört zu den Affektzuständen, die man ähnlich wie die Trauer als normal bezeichnen darf”, venne tradotto dodici anni dopo da Jacques Lacan (1901-1981): “… appartient à ces états affectifs que l’on peut qualifier de normaux au même titre que le deuil”, rendendo “die Trauer” al pari d’un comune “cordoglio”, cioè: “… il dolore provocato dalla convinzione d’aver perduto l’oggetto d’amore e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa esser distinta dal resto”. Rimarcando la difficoltà, per via della natura medesima dell’affettività, di discriminare tra componente di “perdita” e suo aspetto “egotista”.
Lacan, ovviamente, concordava con l’appendice che ne deriva: “Über die normale Eifersucht ist analytisch wenig zu sagen”, dal punto di vista analitico sulla gelosia normale, non c’è granché da aggiungere: “Sur la jalousie normale, il y a peu à dire du point de vue de l’analyse”.
“… É un dolore pienamente giustificato”(!), allora, ne deduce Giulia Sissa, in “La gelosia. Una passione inconfessabile” (Laterza, Bari 2015). “Rimuoverla significa rinforzarla, lasciarle campo libero nell’inconscio, provocare a catena la manifestazione di sintomi gravi. Tale rimozione corrisponde a ciò che prima gli stoici, e poi i moralisti barocchi o libertini, trovano così delicato e così auspicabile; il fatto di arrossirne e di avere vergogna di ammetterla…”.
Dei tre tipi di gelosia freudiana, la “competitiva” è “una risposta adulta”, “normale”, a una situazione attuale (“aktuellen Beziehungen”) che si verifica in “circostanze effettive” (wirklichen Verhältnissen) della “realtà”, perché la sofferenza viene direttamente causata dal tradimento consumato. L’afflizione rafforzando l’esperienza infantile della triangolazione edipica, rende “keineswegs durchaus rationell” e non “den wirklichen Verhältnissen proportional” la sofferenza che ne deriva.
“Ma questo vale per tutta la nostra vita psichica” (!), annota la storica della cultura e delle idee, autrice de “La Jalousie. Une passion inavouable”, inconfessabile poiché “vergognosa”, nel titolo dell’edizione francese originale, tradotta da Carlo De Nonno per Laterza ( Bari 2015).
La “proiettata” si basa su speculazioni provenienti da pulsioni d’infedeltà rivolte all’altro, nel senso che si “fantastica”, riferendone i contenuti al partner.
La “delirante” viene generata dall’omosessualità repressa, per cui il turbamento procurato dal proprio sesso, inconsciamente lo si respinge, ribaltandolo sotto forma d’attrazione erotica nutrita dal compagno, nel ripercorrere così il tragitto obbligato di una “alienazione invertita”. Il messaggio delirante è portato da “altri”, piccoli, insignificanti, indistinti: non un “altro” in particolare, ma qualsiasi “altro”, che diviene alter ego, il cui sesso subisce un rivoluzionario, ma sospettabile, drammatico quanto illuminante, cambiamento: è lei che lo ama (!).
“Solo le forme proiettive e deliranti sono patologiche, e dunque suscettibili di analisi”, conclude Giulia Sissa. La quale rileva però una differenza importante tra la proiezione di desideri profondamente repressi (per via di quella “starke Verdrängung”), all’origine di comportamenti psicopatologici (ossessivi o deliranti), e quella generica reazione sulla quale “il y a peu à dire du point de vue de l’analyse” (in base all’assioma freudiano: “Über die normale Eifersucht ist analytisch wenig zu sagen”).
La gelosia, infatti, è si “normale”, ma anche “keineswegs durchaus rationell”, in risposta a quell’instabilità del desiderio, quale pure inevitabile prodotto della “reale” esistenza di continue tentazioni.
Nel gioco sociale della galanteria, per esempio, v’è inconsciamente insito un potenziale erotico, definito da Thomas Hobbes (1588-1679) “desiderio indefinito”, continuamente riproposto sulla scena delle relazioni interpersonali. Una sorta di compromesso, insomma, attraverso cui attutire le sottili attrazioni, o le vere provocazioni, se non proprio gli adescamenti, esercitati nei nostri confronti, e ai quali non sapremmo comunque rinunciare in altro modo.
Freud parlava di “Versicherung gegen wirkliche Untreue”, ossia una specie d’assicurazione contro l’infedeltà reale, che nel renderci partecipi del “gioco delle parti”, non trascurasse del tutto le pulsioni, né codardamente le disconoscesse, attribuendole ad altri.
“Gli usi e i costumi sociali hanno tenuto conto di quest’universale stato di cose – scrisse in “Über einige neurotische Mechanismen bei Eifersucht, Paranoia und Homosexualität” (1922) – e hanno concesso un certo margine al desiderio di piacere della donna sposata e a quello di far conquiste di suo marito, nella speranza che attraverso tale concessione l’inevitabile tendenza all’infedeltà trovasse sfogo e al tempo stesso fosse resa innocua. La convenzione stabilisce che entrambe le parti non devono dar peso a queste scappatelle in direzione dell’infedeltà, e perlopiù fa sì che il desiderio destato dal nuovo oggetto trovi soddisfazione in una sorta di fedele ritorno all’oggetto che è proprio di ciascun coniuge”.
La linea di divisione tra la stuzzicante complicità d’una “Traumnovelle” (1925) alla Arthur Schnitzler e l’insidiosa angoscia dell’incubo viene continuamente riposizionata sia in funzione linguistica che comportamentale e, come suggerisce Claude Habib, con “Galanterie française” (2006): «Il n’est pas impensable qu’une même société abrite, sur un même sujet, la délicatesse et la brutalité». In seno a questa «formation de transition […] à équidistance de l’amour tendre et du libertinage», grazie a formulazioni recitative concordate, o convenzionali, una qualche logica e una certa semantica, reperibili pure in campo clinico, s’adoprano per evitare d’occupare la piena evidenza della scena mediatica.
Allorquando si riconosce “relativa al reale e all’attuale” la sofferenza, bisogna ammetterne l’irrazionalità e la sproporzione, per legittimarne paradossalmente la tendenza a una qualsiasi forma di rimozione.
O bisogna forse rilevare come negazione qualsiasi rifiuto di sancire la verità d’ogni passione?
In “Love, Hate and Reparation” (1937), Melanie Klein e Joan Riviere connotano “moralmente” le emozioni infantili. Più dell’odio, l’invidia, da cui deriva la gelosia. In ogni caso, tutta la sgradevolezza di questi sentimenti la rivolgiamo fuori di noi.
Eppure, nello spazio interiore degli adulti è forse meno plausibile l’evenemenzialità? E non esiste un sistema immunitario che espelle in automatico al di fuori tutto quel magma che può procurarci del male?
La proiezione risponde quindi a una profondissima esigenza psichica. Meccanismo della gelosia incluso.
Come ci insegna il codice galante, tutto sommato, l’ambivalenza resta comunque nei limiti della nevrosi ancora gestibile. In sua assenza la dicotomia è più netta e sfocia nella franca psicosi.
“Senza entrare nella delicata e probabilmente assai complessa e controversa questione di cosa costituisce la gelosia normale, – chiarisce Joan Riviere in “Jealousy as a mechanism of defence”(1932) – vi sono alcune caratteristiche generali sulle quali tutti concordano”.
La “normalità” della gelosia, proprio per la persistenza del “keineswegs durchaus rationell”, e la mancanza di “den wirklichen Verhältnissen proportional”, non risulterebbe essenzialmente incompatibile con la ferita narcisistica?
Molto dipende dall’atteggiamento di severità verso se stessi, alimentato dalle pulsioni aggressive provate, e che si cerca di espiare o di espellere. Ne consegue, nostro malgrado, che “ogni forma” di gelosia si riveli sistematicamente “più patologica di quanto non sembri”, in definitiva, a prima vista.
Che sia la natura medesima dell’amore ad accompagnarsi a un senso d’umiliazione, pronto a invadere il nostro campo più intimo, nell’eventualità d’una sempre possibile perdita del primo sentimento, così come, nella circostanza d’una maggiormente difficoltosa conquista, il medesimo spazio interiore aveva accolto invece un’inorgoglita fierezza?
Nell’assecondare una piega normativa (e anti-tragica) della contemporaneità, Hildegard Baumgart si chiede: “Perché le mie dita resistono così fortemente a mettere per iscritto questa parola, ‘normale’, che Freud ha invece utilizzato senza inibizioni?”.
La fondatezza della gelosia ha perso di valore, di significato, di contenuto?
Ciò che conta veramente è solo l’esperienza intrapsichica, la dipendenza dalla compulsione erotica, le relazioni (passate) con la parentela più stretta (genitori e fratelli), la propria (presente, o carente) self-esteem.
Quanto affinato da Daniel Lagache (1903-1972), in “La Jalousie amoureuse” (1997), viene accolto con precauzione dalla Baumgart, la quale però conclude poi il suo giudizio sommario con sentenza definitiva di “delusional”, nell’esercizio di clinica letteraria sulla vittima shakespeariana della perfida insidia di Jago. Quasi a conferma d’una deriva delle teorie sul Self che allontanano dalla visione tragica della soggettività, soppressa, come ci ricorda Élisabeth Roudinesco, dall’estremizzazione del moralismo e da un eccesso di medicalizzazione.
Nella Présentation alla raccolta di saggi de “La Revue Lacanienne”, dal titolo “L’intelligence de la jalousie”, Jean-Paul Hiltenbrand riconosce invece una “occasione di restituire un senso tragico in un’epoca che non ne conosce più la dimensione…”; e aggiunge: “… la gelosia protesta contro l’ingiuria fatta al miraggio dell’armonia tra due esseri il cui amore, reputato essere il più perfetto dei veicoli, si presume che costituisca il rimedio ad ogni dissenso”.
La gelosia ha probabilmente il merito di mostrarci la primordiale vulnerabilità dell’essere umano, destinato a ricercare la felicità dove può perderla più facilmente. La diagnosi non sarà tanto di condivisione d’una psicosi (Folie à deux), bensì di diffusa induzione di estesa alienazione (Folie à beaucoup).
In “La jalousie : Délices et tourments” (2006), Marcianne Blévis va alla ricerca d’un’eziologia identitaria ed evolutiva per tale inquietudine, piccina e crudele insieme.
“Essa risale a un tempo dell’infanzia o dell’adolescenza in cui la persona era abbandonata alla mancanza/necessità di quelle risposte erotiche e affettive che le avrebbero permesso di sentirsi forte, autonoma e desiderabile. Ne consegue che la gelosia può essere vista come una reazione a scoppio ritardato rispetto a una situazione che ha reso una persona indifesa e umiliata”.
Vecchie ferite non del tutto rimarginate si riaprono non appena si sgretola un sentimento sul quale troppo s’era investito in termini libidici. La perdita fa star male quanto più ci eravamo sentiti bene prima, quando la piaga era solo quella del passato. Adesso si sommano gli effetti della lesione precedente con quelli dell’attualità.
Molto verosimilmente la “recrudescenza clinica attuale” ostacola per certi versi la collocabilità di “un ‘affetto’ normale e universale” accanto alle passioni esplosive. Forse proprio in quanto “la gelosia appartiene più specificamente all’esperienza dell’amore e del desiderio, perché una certa maniera di amare è anche desiderare il possesso esclusivo dell’oggetto”. Come se una emergenza psicotica facesse capolino tra le acque turbolente della banale nevrosi quotidiana.
A una “attualità recentemente turbata” la reazione proviene da un remoto passato. Lo spostamento riguarda l’altro immaginario, nelle veci del simbolico, una cruciale confusione tra fonte di significato e linguaggio.
“L’intelligence de la jalousie”, a cui si intesta il numero de “La Revue Lacanienne”, viene individuata da Jean-Paul Hiltenbrand nel far ek-sistere il “Nome del Padre”, il grande separatore, equivocandone il simbolismo. La sua dinamica mostra infatti che l’assenza della funzione fallica (ex-clusion o for-clusion) non necessariamente si traduce in una franca psicosi.
Sospettando di un “terzo” immaginario, si salvaguarda il Terzo-Altro dalla collocazione simbolica nella costituzione paranoica, in cui l’oggetto diventa persecutore, ovvero quasi forse una compensazione del “parlêtre” all’abituale buco, mancanza, perdita di jouissance. È in questa “invariante” specifica che l’emergere dell’affetto incontra un “trou réel”.
In qualche modo, gli si oppone, in alternativa, sulle stesse pagine, l’ipotesi di Charles Melman (“Baisse un peu la jalousie”) di forclusione del fallo (“partenaire tiers”) nel faccia-a-faccia narcisistico della coppia. Questa potenza senza precedenti induce alla “femminilizzazione” del sentimento, rivaleggiando con quel sospetto che non può mancare di “ex-ister”, ma che è stata, senza alcun dubbio, la forclusione a rendere “con-sistant”.
Ci si aspettava una reciprocità al singolare, e invece nella delusione generale si riceve l’interruzione d’un’intimità esclusiva. Quel miraggio di perfezione intravisto per un attimo in un dettaglio: “Something in the way she moves…”, si rivela uno specchietto per allodole, nient’altro che un’esca!
A proposito di “Jalousie, projection, paranoïa”, nello sviluppare la nozione di “desiderio di desiderio”, Bernard Chervet definisce la passione un affetto spiacevole, dal valore di condensazione, che dissimula, nel momento in cui convoca, tutta una costellazione di identificazioni instabili, che si palesano nella loro circolarità. Si presenterebbe quale versione “normale” del prototipo paranoico, caratterizzato com’è dal sentimento di persecuzione, dal ricorso a logiche anti-traumatiche, dalla propensione a giustificare e a oggettivarsi in “scene primarie”, esterne e tangibili.
Alla base di tutto v’è però un vissuto di mancanza, in quanto l’oggetto mirato si scopre essere soltanto il desiderio dell’altro e, nel raddoppio, il desiderio dell’altro di quest’altro ancora. Situandosi la mancanza al centro della sessualità umana, si tratta forse d’una soluzione palliativa alla tendenza a scomparire del tutto nell’utero originario?
Paul-Laurent Assoun s’indirizza verso una “alienazione costitutiva del soggetto al desiderio dell’altro”, per giungere, riprendendo le parole scritte da Freud a Binswanger nel 1920, a una “comprensione più profonda della vita psichica, sia normale che patologica”. Nella sua onnipresenza, è difatti in grado di rivelare costantemente “la posizione inconscia del soggetto tra desiderio, amore e godimento”.
Ne “Les complexes familiaux dans la formation de l’individu” (Essai d’analyse d’une fonction en psychologie), Jacques Lacan richiama l’ambiguità originaria tra antagonismo ed emulazione. Il potente interesse per il rivale è destinato a esprimersi con odio, invidia, gelosia, dal suo lato negativo, mentre dall’altro lato si nutre un “interesse essenziale” che confonde amore e identificazione. L’ossessione monomaniacale finisce però per fissarsi sul misterioso fascino del terzo, in cui si riversa la maggior sofferenza, come la maggior felicità.
L’”identificazione mentale” ripercorre la triangolazione edipica, dove il genitore dello stesso sesso rappresenta un “ostacolo” all’amore con il genitore di sesso opposto.
Nel Seminario VIII compare la mitica definizione di amare, come di “dare ciò che non si ha”, in un’asimmetria da “psicologia del ricco” estranea al regime economico degli scambi calcolati. Fin quando il ricavo non si scopre essere l’irrompere d’un’infelicità e l’illegittimità del dolore non si appella alla giustizia dell’alcova.
In questo caso la “coincidenza” non risulta un’equivalenza del “sintomo” psicopatologico, anche se la diagnostica lacaniana conia il neologismo “jalou-issance”, condensando passione (jalousie) con godimento (jouissance).
In “Encore: Le séminaire, livre XX”, ritroviamo così una giustificazione ai sottotitoli (italiano “inconfessabile” e francese “inavouable”) del testo della Sissa. “La clinica testimonia che il momento della ‘jalouissance’, in cui erompe la passione di gelosia, invade, non si può confessare, ci fa vergognare”.
Marie- Magdaleine Chatel sviluppa questo gioco di parole lacaniano in una familiare frèr-ocitè, fatta però più di invidia e odio, e paradigmatica nell’infida doppiezza esercitata sul Moro di Venezia, con la differenza perciò che l’irresistibilità della sofferenza si prova solo nel paradosso del godimento.
Ricapitolando, l’insegnamento freudiano comunica, per prima cosa, l’importanza di non includere tutte le forme di gelosia sotto le uniche categorizzazioni proiettive e persecutorie, ma soprattutto che non ammettere la gelosia, non confessarla, è un meccanismo di difesa nevrotico che ci protegge dalla vergogna.
L’inquietudine proviene dalla fragilità del sentimento che si vuol tanto rivendicare. “En ego, confiteor, Non nisi laesus amo” (Ovidio, Artis Amatoriae: III, 598). Il rimosso coincide pertanto con l’incomunicabile.
Anne Deburge-Donnars si chiede se la gelosia possa alimentare la pulsione, quasi fosse una modalità di amare.
La curiosità per l’altro (non necessariamente secondo, ma anche fallico “partenaire tiers”?) verrebbe vissuta come “una formidabile promozione della fantasia”. La passione sarebbe stimolante, persino “strutturante”, poiché “consente d’uscire dalla relazione fusionale con la madre introducendo un terzo, e dunque in questo senso essa disaliena”.
La complessità dell’emozione gelosia, paura di annientamento, la rende inseparabile dall’emozione amore, soddisfazione narcisistica. Da una parte il fallimento, dall’altra una comunione. La sofferenza è proporzionale all’identificazione, operata da parte nostra con l’oggetto idealizzato, nutrito dall’immagine che ci siamo fatti di esso, riflessa in quella che abbiamo costruito di noi.
“L’idealizzazione, in Freud, è una trasformazione del narcisismo”, puntualizza Jerome Neu in “A Tear Is an Intellectual Thing: The Meanings of Emotion” (2002), in cui alla gelosia dedica due capitoli (“Jealous thoughts” pp. 41-67, “Jealous afterthoughts”, pp. 68-80). Un gioco di specchi commenta a margine Giulia Sissa.
Narcisismo e amore sono forme di dipendenza. Ma il paradosso consiste nel raddoppio dell’angoscia della perdita, perché, a differenza del lutto, sussiste l’illusione d’un possibile ritorno dell’oggetto. La fiducia persiste in una triangolazione prevista senza timori, dove lo spazio “incriminabile” viene definito da sia pur variabili geometrie. Solo l’indipendenza rispetta il territorio privato altrui!
In “Miroir trompeur: la jalousie et le narcissisme” (1997), Betty Denzler sottolinea l’intensa sintomaticità di alcune reazioni di gelosia, per lo più inattese e brutali, altrimenti non classificate però come “patologiche”, eppure accompagnate come sono da sensazioni di crollo psichico e fisico.
Questo coinvolgimento emotivo e somatico è stato osservato soprattutto tra donne, mentre gli uomini sembrerebbero reagire piuttosto con un’immotivata paura di diventare impotenti.
È questa la fine dell’uomo “tragico” che soccombe all’intelligence de la jalousie, oppure dell’umanità intesa nella sua componente sessuale e basta?
L’espressione di insufficienza narcisistica, fino al momento critico mascherata dal supporto del desiderio e della rassicurante ammirazione dell’altro, non appena tale sostegno viene meno, lascia spazio all’attacco acuto, in cui alla deficitaria integrazione della struttura fallica si integra l’angoscia di castrazione.
A proposito di gelosia “al femminile”, si dice spesso che le donne soffrano qualsiasi attentato al narcisismo proprio a causa della loro strutturale carenza di fallicità. Il venir meno dell’amore sminuirebbe a questo punto un valore già di per sé debole e discutibile.
Quale reazione avremmo il meccanismo di difesa della rimozione sintomatica a facilitare l’eliminazione di qualcosa di cui fare a meno, la dipendenza amorosa? Non è detto che sia sempre così.
Danielle Labrousse-Hilaire, in “La jalousie en son absence. A propos d’un choix d’objet chez la femme” (1997). presenta “casi concreti di gelosia repressa in donne alienate alla madre, dal narcisismo fragile, prese tra omosessualità primaria e secondaria, sistematicamente attratte dal Don Giovanni di turno”.
La scelta dell’oggetto in questi casi, viene considerata quasi “d’ufficio”, quale impulsiva preferenza per un altrettanto inconsciamente ricercata occasione di scatenare e provare gelosia.
E il potere attrattivo degli “esseri in fuga”, dei bugiardi, dei poco di buono, narcisisti, manipolatori, spesso più “interessanti” degli altri, o il fascino dell’amore impossibile e senza speranza, non giocano allora alcun ruolo?
Tutto avviene pur sempre nell’interiorità della persona, anche in quella da considerare “normale”. L’impatto inatteso del “wirkliche Untreue” (l’infedeltà reale) rimette senza dubbio in discussione l’immagine che ci si era formati di sé e, con essa, lo stesso ruolo sociale, l’intera vita trascorsa nell’illusione che tale disastro non sarebbe mai accaduto.
E non è un vero e proprio trauma, che mina una fiducia, fino a pochi istanti prima, riposta in qualcun altro, nell’amore assoluto e persino in se stessi?
Quando viene a mancare il necessario sostegno dell’onnipotenza delirante affettiva, non si affloscia, spossato, il “fallo” di entrambi i generi, ma decade anche il ruolo immaginario dell’autostima e quello organico dei mediatori chimici, tipo serotonina. E questo perché indifferenza equivale a mancanza di legami, insignificanza a sostituibilità.
La solitudine dell’egoismo ci ha consegnato all’autarchia, l’isolamento ci ha resi diffidenti, ma la dipendenza ci ha definitivamente alienati all’altro. Insomma, sarebbe il caso di confermare le parole di Nino Rastelli (1913-1962), sulla musica del Tango Tzigane del compositore danese Jacob Thune Hansen Gade (1879-1963): “nel cuore sento/ come un presentimento… Amore vuol dir gelosia…”!
Giuseppe M. S. Ierace
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Habib C. Galanterie française, Gallimard, Paris 2006
Hiltenbrand J.-P. Présentation, La Revue Lacanienne: L’intelligence de la jalousie, 2, N° 13, 7-15, 2012
Ierace G. M. S. La manipolazione affettiva (degli Adulteri ?)- Del sadismo morale ovvero il vampiro narcisista: “quando l’amore diventa una trappola”, su: https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/la-manipolazione-affettiva-degli-adulteri-del-sadismo-morale-ovvero-il-vampiro-narcisista-%E2%80%9Cquando-l%E2%80%99amore-diventa-una-trappola%E2%80%9D/549/
Klein M. and Riviere J. Love, Hate and Reparation, Hogarth Press, London 1937
Labrousse-Hilaire D. La jalousie en son absence. A propos d’un choix d’objet chez la femme, Revue française de psychanalyse, 1, 61, 83-100, 1997
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Melman C. Baisse un peu la jalousie, La revue lacanienne: L’intelligence de la jalousie, 2, N° 13, p. 17, 2012
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