Lo spunto per riflettere sul fenomeno della corporeità ci viene fornito da un caso clinico descritto nel libro del famoso neurologo Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Nel breve capitolo dedicato al caso, l’autore ci presenta Christina, una giovane donna che, sottoposta a profilassi antibiotica prima di un intervento chirurgico, sviluppa alcune complicazioni molto singolari e preoccupanti.
“ (…) si sentiva insicura sulle gambe, si muoveva con scatti goffi, agitando le braccia nell’aria, e lasciava cadere di mano gli oggetti (…) Non riusciva a stare in posizione eretta se non guardandosi i piedi. Non riusciva a tenere niente in mano, e le mani se non le guardava, <<annaspavano qua e là>> (…). Il suo viso era stranamente inespressivo e rilasciato, la mascella ricadeva inerte, persino la postura vocale era scomparsa.”. (O. Sacks, op. cit., pagg. 71-72)
Christina, insomma, sembra non avere più il controllo del suo corpo: lei stessa descrive la sua drammatica situazione come quella di un corpo divenuto “cieco e sordo a se stesso”, o per meglio dire, si sente “disincarnata”. La sua condizione non migliora e i medici la sottopongono a diversi esami, finché non emerge che la causa delle sue difficoltà di movimento e di equilibrio è una ”polineurite acuta” che le ha causato la perdita totale della propriocezione. La propriocezione è una sorta di sesto senso che abbiamo fin dalla nascita e che ci informa sulla posizione e i movimenti del corpo in ogni momento; grazie ad esso sappiamo sempre se siamo in piedi o seduti, se la nostra mano destra sta stringendo una penna o un bicchiere, se stiamo correndo o siamo fermi. Il sistema propriocettivo fa tutto questo senza alcuna forma di consapevolezza esplicita: quando afferriamo qualcosa, la nostra attenzione non è rivolta alla forma che la nostra mano deve assumere per prendere, ma solo all’oggetto che vogliamo afferrare; inoltre, è un sistema sempre on-line, cioè aggiornato in continuazione, perché tutte le parti del corpo inviano informazioni di feedback al cervello per garantirgli una mappatura ininterrotta della nostra posizione nello spazio: solo così i nostri gesti possono essere così precisi, calibrati e fluidi. Tutto questo viene a mancare a Christina, causandole le difficoltà che descrivevamo sopra. All’inizio la sua condizione pare disperata, ma col tempo e con molto esercizio, impara a supplire, in parte, alla mancanza di questo complesso sistema d’informazioni tramite la vista, che, in condizioni normali, integra le funzioni della propriocezione. La giovane riesce a compiere i movimenti quotidiani usando gli occhi che la informano, per esempio, su dove sono le sue mani rispetto alla bocca quando vuole mangiare o i suoi piedi quando vuole alzarsi. Tutto questo a costo di una grande concentrazione mentale che non può mai interrompersi, a costo di cadere o mancare il bersaglio. Così dopo qualche tempo, Christina può essere dimessa dall’ospedale e ritornare alla sua vita precedente, pur se con molte difficoltà. Ciò che non si modificherà mai per la giovane è la sensazione di essere “disincarnata”, chiusa in un corpo “morto”, non più suo.
Che cosa possiamo imparare dal caso di Christina? Perché la giovane si sente “disincarnata”, cioè priva di corpo? Il caso di Christina, e di altri simili al suo, ci interessa perché porta in primo piano alcuni aspetti della corporeità su cui vale la pena riflettere. Anzitutto, Christina parla della sua condizione come di qualcuno che ha perso il corpo: ma di quale corpo sta parlando? Certamente, non il corpo fisico: a differenza di un soggetto paralizzato, Christina può usare il suo corpo, è ancora in grado di spostarlo nello spazio, può compiere i gesti quotidiani, anche se a prezzo di molte fatiche. Infatti, Christina ha dovuto re-imparare ad adoperare il corpo, facendo come facciamo tutti noi quando apprendiamo ad usare uno strumento nuovo: per esempio, per imparare a suonare il piano, all’inizio dovevamo guardare spesso dov’erano i tasti, controllare la posizione delle dita rispetto ad essi, cercando di pigiarli nell’ordine giusto, e abbiamo dovuto ripetere queste operazioni più e più volte. Poi, grazie all’esercizio, non abbiamo più avuto bisogno di guardare per sapere cosa stavano facendo le nostre mani o dove erano i tasti: il gesto era divenuto automatico, era scivolato in quella “zona d’ombra” del corpo che comprende le nostre abitudini motorie; da quel momento in poi, il pianoforte è diventato “parte di noi”, estensione del nostro corpo nel mondo, e gli atti ad esso collegati sono diventati possibilità d’azione che si aggiungono al nostro repertorio motorio. In Christina, a causa della sua menomazione, mancherà sempre quest’ultimo passaggio: i suoi gesti, pur corretti, resteranno sempre artificiosi e” troppo giusti”, troppo studiati, privi di quella scioltezza ed euritmia che caratterizza la nostra motricità naturale. L’assenza della propriocezione non le consente di acquisire i movimenti nel suo repertorio motorio perché il suo corpo non è più, per lei,
“ (…) l’oscurità della sala è necessaria alla chiarezza dello spettacolo” (M. Merleau-Ponty, op. cit. pag.154.)
Il corpo, in condizioni normali, fa da sfondo ai nostri atti. E’ uno sfondo non conosciuto, non pensato ma vissuto. E’ un “io posso” che correla le mie capacità motorie con le possibilità offertemi dal mondo. In questo senso, il nostro corpo non è semplicemente al mondo come lo sono un tavolo o un cane. Certamente, il mio corpo fa parte del mondo, occupa uno spazio, ha caratteristiche misurabili. Possiamo trattare il nostro corpo alla stregua di un oggetto qualunque, guardarlo da fuori. E‘ ciò che facciamo quando ci rechiamo dal medico: portiamo il nostro corpo in osservazione dal dottore che lo esamina come un aggregato di parti, meglio trattabili se separate le une dalle altre (da qui le numerose specializzazioni della Medicina). Il corpo della Medicina è un corpo reificato, ridotto a cosa: un’astrazione. Il braccio o il cuore che il medico studia non sono, infatti, il mio braccio o il mio cuore, ma il Braccio o il Cuore come categoria concettuale. Non importa a chi appartengano perché il corpo diviso della Medicina non è più un corpo vivo ma un oggetto. Non è un caso che la scienza medica moderna sia nata quando si è reso possibile lo studio dei cadaveri: in altre parole, grazie allo sviluppo dell’anatomia che, per definizione, è l’indagine del corpo sezionato e fatto a pezzi, un corpo morto che non è più di nessuno.
Il nostro corpo, però, non è soltanto questo: non è semplicemente un oggetto del mondo come gli altri, anzitutto perché è l’unico oggetto del mondo da cui io non posso separarmi. Da tutti gli altri oggetti io posso prendere le distanze, ma non dal mio corpo. Il corpo, dunque, tra tutti gli oggetti del mondo ha per me uno statuto speciale: esso non mi abbandona mai. Non solo, dunque, il corpo non è un oggetto come gli altri, ma è ciò grazie a cui gli oggetti esistono per me: parafrasando Merleau-Ponty, non solo il corpo non è un frammento del mondo, ma per me non ci sarebbe un mondo se non avessi un corpo. Cartesio pensava che il corpo fosse inutile ai fini della definizione della nostra esistenza: noi esistiamo in quanto soggetti pensanti (il famoso “cogito ergo sum”); tutto ciò che non è pensiero è materia e quindi è privo di valore, incluso il corpo. Eppure Cartesio poteva pensare proprio perché era un corpo vivente. Tutto ciò che noi sappiamo, inclusa la conoscenza scientifica, lo sappiamo perché prima lo abbiamo vissuto. Il corpo è il luogo in cui tutto questo accade: esso è il nostro punto di vista sul mondo, che non possiamo vedere perché lo siamo. Quando ci muoviamo, non spostiamo il corpo-oggetto, l’aggregato di parti descritto dalla Medicina, ma il corpo vissuto, fenomenico, che mi si dà come un tutto indiviso. Quando mi muovo, non sposto il mio corpo, come farei con un qualunque oggetto: io mi sposto, io sono tutto in quel movimento.
“Io non colgo la mia mano nell’atto di scrivere, ma solamente la penna che scrive; io utilizzo la penna (…) ma non la mia mano (…) io sono la mia mano” (J-P. Sartre, op. cit., pag.381.)
Il nostro, dunque, non è semplicemente un corpo-oggetto ma anche e soprattutto un corpo-soggetto, di cui non siamo consapevoli se non a livello pre-riflessivo, come veicolo silenzioso e trasparente del nostro essere-nel-mondo. Ci accorgiamo di tutto questo solo quando qualcosa non va, come nel caso qui discusso. Succede, allora, che un’infermità o un dolore m’impediscono di compiere quei gesti che facevo prima, così un oggetto si sottrae alle mie possibilità attuali e non è più una cosa-per-me, termine di un mio progetto. ma diventa un ostacolo. Io non mi ritrovo più in quella parte di mondo che la malattia mi nega, all’improvviso quella fetta di esistenza non è più entro le mie possibilità d’azione ed io non sono più la persona che ero. Pensiamo ad una persona costretta da un incidente sulla sedia a rotelle: prima le scale erano “usabili” e rappresentavano il mezzo per accedere ad una parte di mondo; ora divengono ostacolo, le sue capacità attuali non includono più il piano superiore e la persona deve ridefinire il suo progetto e, con esso, la sua identità. Quello che Christina ha perso non è il corpo-oggetto, ma il corpo vissuto, responsabile di quel “sapere” che abbiamo nelle mani e che ci fa trovare i tasti del pianoforte senza guardare quando suoniamo o che abbiamo nelle gambe e che ci permette di muoverci con sicurezza in casa, perché le sue distanze non sono geometriche ma corporee. Un sapere originario, esperienziale e non tematizzato, che quando viene a mancare riduce il nostro corpo a mero strumento, ci costringe ad usarlo e non a viverlo; quando qualcosa va storto, il corpo diventa ostacolo ai nostri progetti nel mondo e non più mezzo di comunicazione con esso. Christina così non si riconosce più in quella che è diventata e il suo corpo le appare estraneo, non suo: morto perché divenuto cosa e, drammaticamente, anche il mondo per lei è un <<nulla>>.
Per concludere, il caso raccontato da Sacks ci è parso interessante perché fa risaltare con particolare chiarezza le due dimensioni della corporeità, il corpo come cosa esperita, e il corpo come soggetto esperiente, di cui si è, molto brevemente, trattato. Vale la pena, però, sottolineare che portare alla luce la differenza tra di esse non va inteso come tentativo di metterle in contrapposizione: sono due facce della stessa medaglia, inscindibili e altrettanto importanti. Si tratta non di due realtà differenti, ma di due prospettive sulla stessa realtà, il corpo, che possono proficuamente coesistere e dialogare.
BIBLIOGRAFIA
Gallagher, S., Zahavi, D., (2008), La mente fenomenologica, Raffaello Cortina Editore, Milano, ed. it. 2009.
Merleau-Ponty, M., (1945), La fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano (2009)
Sacks, O., (1986), L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano.
Sartre, J-P., (1984), L’essere e il nulla. Saggi di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano.