Alcuni conoscenti mi fecero sapere che un loro parente era stato ricoverato d’urgenza in una clinica ospedaliera. Aveva subito un intervento alla scatola cranica perché gli era stato riscontrato un ematoma cerebrale. L’intervento aveva provocato un’infiammazione ed il paziente era andato in coma.
Andai all’ospedale e l’anestesista m’informò che il degente era uscito dal coma e respirava in modo autonomo, ma lo staff medico era preoccupato per l’afasia e la deambulazione della metà destra del corpo.
Entrai nel reparto “terapia intensiva” insieme alla sorella del paziente e questa cominciò a parlargli; ma lo faceva così in fretta da non dare tempo al fratello di orientarsi. Le suggerii di parlare più adagio, seguendo il ritmo respiratorio del fratello, ma non era molto brava, perciò chiesi di far parlare me.
Aveva gli occhi aperti e mi guardava fisso mentre gli impartivo delle suggestioni ipnotiche (i pazienti sotto l’effetto d’anestetici o in stato di semicoscienza accettano le istruzioni meglio di chiunque altro).
Non era ancora in grado di orientarsi nel tempo e nello spazio e rinunciò a comprendere le mie parole. Suggerii che poteva comunicare qualcosa e non era davvero importante in che modo lo facesse, la cosa importante era comunicare. Dopo un po’ l’infermo fece muovere la maschera d’ossigeno che aveva sul viso. Chiesi ad un’infermiera di toglierla un momento perché il paziente voleva dire qualcosa. Questa un po’ seccata, acconsentì. Appena tolse la maschera, egli alzò la testa, diede un bacio alla sorella e pronunciò alcune frasi.
Contemporaneamente, però, avevo notato che le frasi erano semanticamente ben formate.
Spiegai la cosa alla conoscente e affermai, con sicurezza, che il fratello non aveva subito alcun danno psichico o neurologico perché le stesse regole che controllano il linguaggio, controllano il comportamento.
Ero convinto che non appena il paziente si fosse orientato nel tempo e nello spazio, i problemi si sarebbero risolti spontaneamente. Avevo delle ipotesi, le avevo fatte mentre elaboravo uno studio sui sogni. Avevo scoperto che i pazienti sottoposti a terapia intensiva, a causa di traumi di una certa gravità, sospendono, per motivi di protezione, le funzioni dell’emisfero sinistro e, quindi, della fase R E M. Quest’ultima indica un sogno in atto ed è rivelabile all’esterno attraverso i movimenti rapidi dei globi oculari sotto le palpebre.
Nella ricerca sui sogni (vedi fisiologia e interpretazione) ipotizzai che la funzione dei sogni consisteva principalmente nel farci orientare istantaneamente dopo il risveglio.
Avevo compreso, inoltre, che il paziente non era afasico perché il linguaggio serviva per rappresentare il nostro modello del mondo e per comunicarlo agli altri, e, poiché, il degente, in quello stato di disorientamento generale, non poteva rappresentare il suo modello, allo stesso tempo non poteva comunicarlo. Oltre a ciò, la parte destra del corpo era controllata dall’emisfero sinistro, sede del linguaggio verbale e il movimento era una sua componente analogica.
Spiegai brevemente la questione alla sorella e pilotai un sogno al paziente suggerendo che poteva fare dei sogni e che non era davvero importante se questi fossero stati belli o brutti, anche perché, poi, non li ricordiamo nemmeno. Dopo un po’ il paziente chiuse gli occhi e cominciarono a muoversi i globi oculari sotto le palpebre: era iniziata la fase REM. Alcuni minuti dopo, si svegliò e iniziò a parlare, a ricordare alcuni avvenimenti e a muovere la mano e la gamba destra.
Il giorno successivo, l’Aiuto primario riferì, che durante la consueta visita al reparto, aveva notato con interesse il paziente; l’infermo mostrava leggeri movimenti alla mano destra, allora si era avvicinato per osservare il fenomeno. Con sorpresa, però, il degente gli aveva afferrato il braccio con una forza tale da provocargli un consistente spavento. Dichiarò, comunque, che il malato non era ancora fuori pericolo e occorrevano diverse settimane di degenza per farlo ristabilire.
Dopo il colloquio, la conoscente ed io ci recammo nel reparto, ma prima di entrare le dissi che l’Aiuto primario aveva bisogno di una risposta adeguata.
Parlai nuovamente al paziente. Gli raccontai la storia dei macrofagi: le cellule spazzine dell’organismo e le paragonai ai netturbini che puliscono le strade di una città affollata, poi una sugli antibiotici ed un’altra sugli anticorpi.
Il giorno successivo, i clinici riferirono che il paziente stava bene e non aveva bisogno di un’altra TAC e, al più presto, sarebbe stato cambiato di reparto, ma ammisero di non aver ancora compreso la causa di simili risultati.
Chiesi, allora, alla mia conoscente se ricordava che dovevamo dare al medico una risposta adeguata e lei replicò che l’avevamo data.
Presto nell’ospedale si sparse la voce circa il mio metodo di terapia ed una signora mi chiese se potevo provare anche con il marito che aveva un problema simile al fratello della mia conoscente, ma l’ematoma era stato provocato da un’emorragia cerebrale.
Andai a visitare il marito della donna in neurochirurgia. Si trovava in uno stato di semicoscienza e, alla presenza d’altri degenti e loro familiari, cominciai a parlare sotto voce e per circa venti minuti.
Il giorno successivo incontrai la moglie e la figlia del paziente, le quali mi ringraziarono, ma mi chiesero cosa avessi fatto. Dissi loro di aver suggerito al paziente, con una certa insistenza, di dover sorprendere tutti.
Le donne dichiararono che tutti erano sorpresi perché dalle ultime indagini, non erano state più riscontrate infezioni in atto.
Ritornai nella città ove risiedevo e dopo alcuni giorni la conoscente telefonò per farmi sapere che il fratello stava bene, poteva camminare in modo autonomo e svolgere qualsiasi funzione. Le due donne, invece, mi invitarono a Miami, per delle dimostrazioni: una di queste era una cantante lirica che riscuoteva successo negli USA. Per motivi familiari rinunciai all’allettante richiesta.