Premessa
In queste pagine presento parte delle mie ultime riflessioni sulla tossicomania; nello scriverle ho incontrato una certa difficoltà nel dar loro un costrutto organico, avvertendo ad ogni successiva lettura e ristesura la necessità di sviluppare e connettere pensieri che, nell’atto stesso dello scrivere e del rileggere, si riorganizzavano aprendo nuovi varchi, nuovi interrogativi, così come accade nella quotidianità del nostro singolare lavoro; mi sono puntualmente ritrovato a dover sostenere l’insicurezza e l’ansia derivanti dalla verità che sfugge nella complessità inafferrabile; a dover tollerare quello stesso spazio vuoto e frammentato che tanta sofferenza produce nel tossicomane ma che fonda la premessa per l’apprendimento: il pensiero insaturo e non organizzato.
Nell’accostarvi a questo scritto provvisorio ritengo sia importante che teniate costantemente presente che:
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il focus è in particolare costituito dalla ricerca della terapeuticità dell’intervento e dalla relazione tra tossicomania, disfunzione del pensiero ed esperienza emotiva;
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le meccaniche descritte non sono da assumere come assoluti ma devono essere relativizzate ai singoli individui;
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queste meccaniche non sono patrimonio univoco del tossicomane; le possiamo ritrovare tranquillamente (!?) in noi stessi e nella nostra esperienza (se pure può scandalizzarci, non siamo assolutamente esenti da modalità di pensiero di tipo psicotico); peculiare nel tossicomane è semmai la rilevanza che assumono nell’impedire una adeguata interazione con la realtà.
I tentativi
Generalmente il giovane tossicomane non arriva spontaneamente in Comunità; vi è portato da una crisi che raramente riguarda i suoi bisogni profondi, ma piuttosto è relativa ad uno squilibrio che si è creato nel suo contesto familiare, gruppale o sociale. Si trova ad accettare un progetto che è percepito estraneo, fatto da altri, con lo scopo implicito di riuscire a riportare l’equilibrio iniziale nel contesto in crisi, o comunque lo accetta perché la situazione di tensione creatasi non è più sostenibile.
Questa circostanza, che certamente non costituisce la sola determinante della richiesta di aiuto, spiega in parte come il percorso di emancipazione dall’uso di eroina si componga di una successione di tentativi che equivalgono a fallimenti nel solo caso in cui prevalgano tali tendenze omeostatiche; vi è altrimenti la possibilità che essi portino lentamente alla consapevolezza ed alla possibilità di scegliere. In particolare la condizione che consente ai diversi tentativi di essere mentalizzati, di tradursi in storia – cioè in effettiva esperienza fruibile per poter costruire dei modelli predittivi del futuro, per poterne concepire delle rappresentazioni – è di dar loro un significato, di accoglierne la pregnanza emotiva. Il presente si arricchisce allora della dimensione del passato e del futuro. Per questo è però necessario tollerare il dubbio nell’acquisizione della pazienza, accettando di non saturare precocemente la mente in modo onnipotente ed onnisciente e lasciando spazio al nuovo, all’apprendimento; credo sia esperienza comune degli operatori sociali del settore l’aver rilevato frequentemente la tendenza del tossicomane a pre-supporre di sapere tutto, a presumere di essere capace di fare qualsiasi cosa, a non dipendere – in una rappresentazione arcaica – da un seno che nutre e suscita invidia per il suo contenuto.
I due volti
La Comunità è inizialmente vissuta dal tossicomane come coercizione ed impossibilità di farsi, sintonicamente alla sola motivazione riconosciuta che lo spinge ad entrarvi: allontanarsi dall’eroina e dalle amicizie ad essa legate. Non si tratta, dunque, di un bisogno consapevole di problematiche personali, le quali vanno invece ricercate insieme ed affioreranno faticosamente; tuttavia, anche nel caso di un inserimento coatto, il giovane si rende disponibile ad accostarsi ad una esperienza nuova, seppure con una certa ambivalenza.
In Comunità il giovane tenta di adeguarsi, di conformarsi alle regole ed alle aspettative – reali o attribuite – che gli operatori hanno nei suoi confronti, per ottenere un riconoscimento e un’accettazione da parte della Comunità. Per riuscire in questa operazione costringe una parte di sé, che suo malgrado gli appartiene, in una zona di penombra della coscienza, avvertendone tuttavia la presenza come fosse un fantasma che si aggira in angolo riposto della sua mente: è quella sua parte più bisognosa, più piccola, più legata ad affetti ed emozioni che non ha appreso a gestire; ed allora tenta di vivere e di proporsi a sé ed agli altri come se questa parte della sua realtà psichica non esistesse, come se fosse guarito. In questo si riconosce la manifestazione di una forma di narcisismo che in particolare – tra le molte altre implicazioni – porta il tossicomane a pensare, dopo un breve periodo trascorso in Comunità, di aver risolto il suo problema, come se, allontanata l’eroina, non vi fosse più nulla da cambiare e su cui lavorare.
Da questo punto di vista c’è un inquietante sdoppiamento nel suo modo di presentarsi: da un lato c’è un dover essere che riguarda l’idealità che ha verso se stesso e che vuole esibire; d’altro lato c’è un mondo sommerso e nascosto, fatto di bisogni senza misura, di vuoti frammentanti, che lo spaventa e che non vuole mostrare; è quello stesso dilemma che si presenta a chi, genitori, insegnanti, amici, osserva stupito nel giovane l’alternarsi di comportamenti delinquenziali e perversi ad altri perfettamente adeguati al normale contesto sociale.
Proprio in questo sdoppiamento consiste la tendenza a scindere i propri aspetti buoni da quelli cattivi, e questi ultimi vanno tenuti nascosti; ma anche rispetto alla realtà esterna si trova spesso a scindere: o buono o cattivo; per cui, ad esempio, il genitore che rifiuta di soddisfare una richiesta, altrimenti percepito positivamente – quasi fosse un seno frustrante che nega il nutrimento di cui il bambino ha bisogno – ad un tratto diviene una figura persecutoria che lo spinge a farsi, alla fuga; oppure: la società (cattiva) è la causa di ogni suo male ed egli è la vittima (buona e innocente), per cui – se anche si riconosce qualcosa di negativo, una responsabilità disattesa – questo comunque viene espiato tramite quello che il mondo esterno gli fa pagare in termini di sofferenza.
Falso-sè ed intervento della Comunità
Similmente, anche la Comunità è persecutoria oppure è idealizzata e positiva. Ed alcune di esse, accettando collusivamente le proiezioni del tossicomane, si presentano come luoghi ideali riproponendo e facendo propria l’ideologia tossicomanica; quindi: società-cattiva, Comunità-buona, famiglia-cattiva, Comunità-sostitutiva alternativa. All’opposto, se il giovane rifiuta reattivamente la Comunità -trasferendo su di essa aspetti coercitivi e persecutori vissuti in rapporto ai genitori o più generalmente alla società – questa diviene cattiva ed il tossicomane deve farla diventare tale, mettendo in atto comportamenti che inducono concretamente atteggiamenti rigidi nella Comunità.
Una conseguenza implicita del Falso-sè che molti tossicomani presentano è l’intolleranza che reciprocamente hanno nei confronti gli uni degli altri; soprattutto in contesti comunitari con una forte componente normativa, i più adattati – tipicamente l’operatore ex-tossicodipendente – sono i più intolleranti verso quei loro aspetti che l’altro agisce assumendo il ruolo di capro espiatorio: la propria idealizzazione comporta la negazione di una parte di sé il cui carico è lasciato interamente ad altri membri della Comunità che si prestano ad assumerla; l’ex-tossicodipendente viene quindi a trattare sadicamente le sue parti scisse e proiettate nelle persone da poco inserite nella Comunità.
Capita spesso di trovarsi di fronte a persone il cui livello di introspezione ed interiorizzazione, la capacità di elaborazione del pensiero – in quanto fonte di sofferenza – sono molto scarsi, per cui le emozioni devono essere scaricate in azione e non possono essere trattenute, pensate, espresse; quindi si attiva un meccanismo che porta a distruggere il sistema percettivo-emotivo (ad esempio con assunzione di eroina), ad evacuare in azione le emozioni indesiderate (vita turbinosa e trasgressiva, ricca di eventi) ed a trasformare la realtà che ha originato lo stato emotivo attraverso complicati rimaneggiamenti pseudo-razionali che garantiscano narcisistivamente l’individuo dalla frustrazione; tutto ciò impedisce di trarre effettiva esperienza dagli accadimenti con la conseguente inibizione dell’apprendimento.
L’aspetto del Falso-sè, della negazione, di questa rigida forma di dover essere, comprende l’impossibilità di accogliere in sé stessi bene e male, integrandoli e non con-fondendoli, accettando che pure la realtà esterna presenta questa dualità. Le figure esterne diventano positive o negative a seconda del soddisfacimento che procurano e dell’intolleranza alla frustrazione dei propri bisogni; intolleranza che è una rievocazione di vissuti infantili che alterna idealizzazione dell’oggetto a rabbia invidiosa e insoddisfazione.
Il lavoro della Comunità diventa problematico e richiede attenzione e sensibilità, in quanto si tratta di un meccanismo che porta poi a ripetere il buco o, più genericamente, alla trasgressione: fondamentalmente il giovane tossicomane si sente inadeguato, percepisce la distanza incommensurabile tra realtà e idealità ed è necessario che l’operatore lo metta a contatto con la verità della sua realtà psichica, senza cadere nell’inganno della sua rappresentazione – cosa che spesso accade – e con sollecitudine, perché non accada che l’eccessiva compressione di queste sue parti abbia il consueto esito di una loro incontenibile esplosione.
Il tossicomane sembra avere una incapacità, parziale ma significativa, di riconoscere le persone nella loro interezza, relativizzandone i limiti. E questa incapacità la vive in stretto parallelismo su sé stesso: se commette un errore banale, questo viene ingigantito e sentito come annullante tutto ciò che vi poteva essere di positivo, come perdita del riconoscimento di ciò che aveva realizzato sino ad allora.
Aggressività, invidia e apprendimento
Le implicazioni relazionali di questa modalità di percepire sé stessi ed il mondo circostante è particolarmente evidente nel deterioramento dei rapporti che il tossicomane instaura con le persone concludendosi spesso in un vicendevole rifiuto; possiamo ad esempio rilevare una tendenza a far agire alle altre persone delle proprie parti super-egoiche proiettate che però, con molta ripetitività, gli vengono forzatamente reintrodotte con la stessa violenza con la quale aveva tentato di espellerle: se fa una trasgressione si aspetta un determinato tipo di reazione dall’altro e spesso, perseguendo una finalità auto-punitiva, la induce proprio allo scopo che si realizzi quel tipo di risposta; ha cioè una grande capacità di fare entrare le persone in risonanza con le sue parti ansiogene. E’ facile vedere come questo meccanismo si auto-alimenti producendo un circolo vizioso: l’aggressività prodotta dalla frustrazione si esprime attraverso attacchi (trasgressioni) che suscitano nella controparte interventi vendicativi-punitivi che, invertendo le posizioni – da aggressore a vittima incompresa – producono nuovi attacchi.
E’ la continua oscillazione dialettica tra i due opposti – dell’onnipotenza e dell’impotenza, del bene e del male – senza che mai si venga a costituire una sintesi fra di essi, adeguata ad interagire con la realtà, in un Io capace di tollerare l’ambivalenza e di prendere contatto responsabilmente con la sofferenza di oggetti buoni intrapsichici ed esterni, reali, danneggiati dalla propria invidia e avidità.
Un esempio che molti possono aver vissuto personalmente: a quanti è accaduto di avere fra le braccia un bambino piccolo che piange, che magari rifiuta il latte angosciato mortalmente? Quante volte ci è capitato, dopo alcuni vani tentativi di calmarlo, di entrare noi stessi in ansia, senza riuscire a contenere e restituire bonificata la sua angoscia rabbiosa nei nostri confronti? Quanto è risuonata in noi la sua disperazione primordiale di frammentazione? Le conseguenze più gravi di questa incapacità di contenimento e trasformazione delle proiezioni, in cui sono sicuramente implicati fattori che rendono più complessa l’interpretazione del fenomeno, le troviamo nei molti casi di violenza su bambini e neonati.
In questo senso essenziale compito di un operatore è quello di fornire degli altri possibili, dei modelli differenti, sfuggendo alla sua identificazione proiettiva. In particolare, restituendogli le sue parti scisse rielaborate in pensiero anziché in agiti, fornendogli cioè un modello di elaborazione mentale degli affetti che, prospetticamente, gli dia maggiori possibilità di scelta, di confronto e di percezione più com-prensiva di sé e degli altri nel riconoscimento della propria ed altrui ambivalenza.
Proseguendo nella ricerca dei fattori che ostacolano la funzione di apprendimento, il tossicomane manifesta frequentemente una intolleranza verso ciò che è diverso e non conforme al suo universo illusorio, in quanto la diversità non è controllabile e sottintende il confronto ed una apertura all’ignoto avvertita angosciosamente come fosse il preludio ad un cambiamento catastrofico; inoltre l’accettazione del diverso presuppone la riduzione dell’invidia distruttiva, la percezione dell’altro come oggetto integrato, quindi il passaggio da meccanismi di difesa tipicamente schizoidi come la negazione e la scissione, ad una maggiore rilevanza di quelli depressivi riparatori.
Di conseguenza, nelle relazioni interpersonali, il tossicomane tende molto spesso alla fusionalità, cerca di inglobare in sé le persone e a renderle parte di sé, in un controllo ossessivo che mira a negare l’individualità dell’oggetto, le sue qualità positive distinte dal soggetto. Oscilla nel tentare di capire a che distanza tenere le persone: o troppo distanti, con gli inevitabili sentimenti di invidia e svalutazione, o parte di sé, con il conseguente continuo timore di perdere l’oggetto, e con esso sé stesso e la propria individualità. Non esistono mezze misure, anche perché significherebbe pensare l’oggetto nella sua interezza e coglierne la diversità, mentre il tossicomane cerca di annullare la differenza attraverso la fusionalità o la svalutazione ed il rifiuto.
Individuo e gruppo
Si pone allora, in termini accentuati, quel conflitto che ogni uomo si trova a dover affrontare tra individualità e gruppalità; ne propongo una possibile descrizione relativa alle prime fasi dello sviluppo umano che, anche se solo parzialmente, possono condizionare successivamente il soggetto adulto nella sua modalità di rapportarsi con il mondo esterno (tipo di dipendenza, livello di fusionalità): l’individuo è parte di un gruppo sin dalla nascita; questo è inizialmente costituito da madre e bambino, e successivamente si arricchisce di altre figure, il padre, i fratelli, gli amici, altri gruppi sociali.
Il passaggio dal primo rapporto diadico indifferenziato madre-bambino al riconoscimento ed accoglimento di altre presenze reali, come quella differenziante del padre, presuppone la sufficiente acquisizione della capacità di tollerare la frustrazione derivante dalla non soddisfazione immediata dei propri bisogni; questa, a sua volta, dipende dall’avvenuta introiezione di un oggetto buono – il cui rappresentante arcaico è il seno materno – resa possibile dalla presenza di una invidia non eccessiva. Questa condizione permette di tollerare la frustrazione, di rimandare il soddisfacimento dei bisogni senza doverli negare, senza negare la dipendenza da oggetti sempre più differenziati o svalutarne la positività. Tutto ciò è compreso nel processo di individuazione-separazione dalla madre e implica l’evoluzione in una pluri-dipendenza funzionale della dipendenza, originariamente instaurata con un unico oggetto onnipotente indifferenziato da sé, della quale il bambino ha fatto esperienza reale all’interno dell’utero materno.
E’ in questo senso che il tossicomane instaura una modalità di porsi nei confronti delle persone che nega i suoi bisogni più piccoli – ritenendoli intimamente troppo intensi e avidi per poter essere soddisfatti e cercando quindi l’evitamento della sofferenza e della frustrazione – e tende a mostrare un aspetto adulto e adeguato. Diventa dunque intollerante verso i suoi stessi bisogni, ai quali tuttavia non può sfuggire. Questo divario di personalità può storicamente nascere da un determinato rapporto madre/figlio: la madre ha promosso questi aspetti del figlio (padre assente, fratellino piccolo da seguire, …), per cui il bambino cresce con l’idea che per essere accettato dalla madre deve mostrarsi adulto e non manifestare desideri di accudimento e tenerezza. La sostanza, l’eroina, verrebbe allora a riproporre l’antico rapporto simbiotico madre/figlio, in una dipendenza totale ed unica che, essendo con un oggetto inanimato, permette di alimentare fantasie di controllo onnipotente e di indipendenza.
Riguardo a quanto detto, mi sembra utile sottolineare come inizialmente l’atteggiamento di molte Comunità sia fondato su una intuizione corretta; quando al tossicomane neo-accolto viene detto che deve dimenticare tutto ciò che fa parte del suo passato, che deve uniformarsi senza discutere a quanto la Comunità gli impone, che è una merda, essa non fa che proporsi come oggetto idealizzato onnicomprensivo sostitutivo dell’eroina; indifferenziante come l’utero materno al cui interno, nelle fantasie infantili, latte, cacche, peni, fratelli e urina (latte velenoso) sono compresenti e confusi. Il messaggio implicito lanciato è estremamente onnipotente: io so come sei fatto, di che cosa hai bisogno e, se mi seguirai, ce la farai; se il giovane supera la diffidenza e la paura iniziale, realizza uno spostamento – dall’eroina alla Comunità – del soddisfacimento di quello che è un suo bisogno profondo.
Il difetto di questa impostazione è da ricercarsi, semmai, nella adesione inconscia della Comunità stessa a questa immagine, nella conseguente preclusione ad una evoluzione di questa proposta regressiva di relazione primitiva che, con la comparsa di un padre, si risolva permettendo al giovane una reale individuazione e differenziazione.
Limiti delle considerazioni filogenetiche ed ontogenetiche
Ritengo sia fondamentale sottolineare che non è possibile definire una linearità causale tra difetti ed errori che, seppur con diversi gradi di importanza, dobbiamo pensare esser sempre presenti nello svolgersi del rapporto madre/figlio (che progressivamente si allarga nel gruppo familiare ed extra-familiare) e tossicomania; è probabile che ciascun individuo abbia come suo patrimonio genetico una maggiore o minore capacità di tolleranza alla frustrazione, come pure differenti cariche di invidia ed avidità. E’ quindi nell’incontro di caratteristiche originarie della personalità e delle vicissitudini dell’esistenza che si sviluppa la storia concreta ed emotiva della persona
In questo senso risalire ad eventi accaduti nella lontana infanzia del tossicomane non ha tanto un valore esplicativo e causale quanto, piuttosto, di fornire metaforicamente analogie utili alla comprensione di ciò che attualmente costituisce il dinamismo psichico della dipendenza perversa.
Credo che la tossicomania abbia caratteristiche proprie che si innestano come fenomeno nuovo e originale patologizzando aspetti della persona che sarebbero altrimenti rimasti latenti e comunque non dominanti; sia che si tratti di eredità genetica che di esperienze traumatiche precoci, o di eventi che in più tarda età la persona si trova a dover fronteggiare in particolari momenti di destabilizzazione dell’identità: tipicamente l’adolescenza, ma potrebbe anche essere la situazione emotiva innescata da una delusione sentimentale od altro ancora.
In misura differente, sia qualitativamente che quantitativamente, penso che in ogni persona sottoposta a situazioni emotivamente traumatiche possano emergere significativamente aspetti patologici, cioè non adeguati alla realtà, per sfuggire alla verità troppo dolorosa che questa presenta. Viene allora ad innescarsi un movimento difensivo che viene a connotarsi come bugia (che nei casi più gravi può divenire allucinazione), in una falsificazione della verità sentita appunto in modo eccessivamente doloroso e implicante il dover riconoscere la propria responsabilità; in termini caratteriologici, come già accennato, a questa difesa corrisponde la creazione di un Falso-sè finalizzato a proteggersi dallo svelare e dallo svelarsi la propria effettiva e insostenibile realtà interna.
Con questa accezione possiamo parlare di un narcisismo patologico in cui la persona tende a liberarsi di una parte di sé negativa; il suo superamento consiste nel reintroiettare le parti scisse modificate in senso realistico.
Il tossicomane, a volte attraverso fasi che inizialmente erano sottese da impulsi positivi ed evolutivi, si trova a rivivere (non identicamente) una relazione diadica esclusiva con un oggetto onnicomprensivo, l’eroina; questo oggetto ha per di più il vantaggio di essere inanimato, e quindi permette l’instaurarsi di una illusione di controllo onnipotente e ossessivo, nell’evitamento dei sentimenti invidiosi che la madre ed il suo seno inevitabilmente suscitano. In questa generica caratteristica si articolano poi le peculiarità di personalità, di contesto ed esperienziali che vanno a comporre un quadro assolutamente originale che ci impone molti dubbi e lascia molte domande aperte. Detto questo, è forse superfluo precisare come la tossicomania sia un contenitore tipologico nel quale sono accomunate persone che hanno modalità comportamentali e difensive simili ed una situazione di grossa sofferenza che comunque non lasciano emergere.
L’intervento terapeutico
Per concludere, propongo un’ultima considerazione relativa alle prospettive di intervento terapeutico rifacendomi ad una interpretazione delle prime esperienze infantili.
Il sentimento di rabbia del bambino verso la madre che gli ha negato qualcosa (il latte) tenendoselo (realmente o fantasmaticamente) per sé è fortissimo, è odio. Il bambino, in conseguenza al suo odio, teme di aver invidiosamente danneggiato la madre e prova sentimenti di angoscia crescente; se la madre è in grado di contenere questa angoscia, di metabolizzarla restituendola bonificata al bambino, l’individuo apprende gradatamente la capacità di tollerare la frustrazione e di contenere l’angoscia, cominciando a pensare di poter attendere anche in assenza di soddisfacimento immediato, un appagamento futuro: la ricompensa dell’oggetto buono che dà nutrimento; il seno, la madre, continuano a esistere nel suo pensiero, simbolicamente, anche nella loro materiale assenza.
Con il tempo apprenderà pure a riconoscere la madre come persona intera, a fare coesistere in lei in modo integrato aspetti che gli portano soddisfazione ad altri che gli generano insoddisfazione; apprenderà a convivere con la propria ambivalenza nei confronti dell’oggetto e ad essere paziente, assumendo così una struttura di personalità sempre più matura. I suoi attacchi all’oggetto saranno più mitigati in forza di un accresciuto senso di responsabilità nei confronti della persona che rischia di essere danneggiata anche nelle sue doti positive e subentrerà il bisogno di porre rimedio alle conseguenze della propria aggressività.
Nel tossicomane si manifesta una carenza di questa struttura, o per una regressione avvenuta o per difetti educativi, per cui scinde le persone, non le riconosce nella loro interezza, così come non si sente integro egli stesso, e di fronte ad una inadempienza o inadeguatezza alle aspettative – sentita come attacco alla madre, all’operatore, alla Comunità – teme di aver commesso qualcosa di irreparabile; diventa persecutorio, teme una ritorsione e sente di dover pagare lo sbaglio fatto, deve espiare: il significato di auto-distruzione dell’eroina ha in sé questo significato di espiazione della colpa.
L’operatore è comunemente coinvolto proiettivamente in queste meccaniche di scissione ed il restarne emotivamente svincolato richiede consapevolezza ed esperienza; sicuramente è necessario saper riconoscere questi processi quando avvengono ed il poterne parlare in équipe, è un aiuto per non rimanervi invischiato e per capire ed elaborare risposte funzionali non ripetitive ed i propri vissuti emotivi.
Il comportamento e le decisioni dell’operatore, le sue modalità di restituzione, soprattutto in termini emotivi, di quanto è proiettato in lui dall’utente, costituiscono la centralità della terapeuticità del suo intervento. In questo senso l’operatore è investito di una duplice funzione: da un lato deve fornire un contenimento definito, fornendo regole, divieti, orientamenti, relativamente alla quotidianità della vita che si svolge all’interno della Comunità; nel contempo – in spazi specificamente dedicati – deve aiutare il giovane ad elaborare in forma di pensiero i suoi comportamenti, le sue comunicazioni, nella ricerca di significato emotivo.
L’attenzione dell’operatore si deve porre anche sulle risposte, nel senso che egli deve trovare una modalità nella quale non assuma né la parte di salvatore idealizzato, né quella di capro espiatorio, cosa che capita spesso nel momento in cui si carica difensivamente di un ruolo eccessivamente autoritario. E’ abbastanza comune per l’operatore esperienzialmente giovane rimbalzare da comportamenti autoritari a manifestazioni compensatorie paternalistiche o eccessivamente affettive; queste ultime assolvono anche al bisogno di gratificazione, al desiderio di essere idealizzati e di idealizzazione della Comunità stessa come gruppo fusionale; rappresentano inoltre un mezzo per mostrare un doveroso interesse verso il giovane accolto sostitutivo di quello più reale, legato ad una funzione di aiuto e di ricerca comune che ancora devono giungere a sufficiente maturità per potersi esprimere.
Il riuscire ad essere una équipe funzionante e unita è allora essenziale per poter ri-unire le parti scisse e proiettate negli operatori per aiutare il tossicomane a ricuperale superando la frammentazione: una équipe divisa, spaccata, è sintomatica di collusività tra operatore ed utente e diviene impotente ad aiutare quest’ultimo a raggiungere una integrazione.
Il grosso impegno dell’operatore è quello di aiutare il tossicomane ad attribuire un significato emotivo alle sue vicende relazionali perché possa ampliare il suo sistema percettivo della realtà altrimenti difensivamente limitato a causa della parziale incapacità a gestire gli affetti suscitati dal mondo esterno ed interno.
La difficoltà ad accogliere il nuovo consiste specificamente, come già accennato, nel percepirlo come fonte di cambiamento catastrofico, frammentante l’attuale organizzazione psichica; in quest’ottica la coazione a ripetere assume il significato di una ricerca esperienziale ripetuta ossessivamente proprio per questo appiattimento emozionale difensivo che impedisce l’attribuzione di significato alle esperienze.
Milano, 20-3-1994
da integrare
Il transfert positivo serve come aggancio e come base di maternage per poter contenere, ma non è terapeutico:
il Falso-sè, l’adattività del tossicomane, sono utili se non vi si crede, colludendo: presi singolarmente ma insieme sono una banda che ruba, picchia e spaccia; in Comunità, come in certe relazioni con gli operatori, sono adeguati, accondiscendenti e partecipativi, apparentemente collaboranti; la parte che interessa è quella sommersa, il transfert negativo sottaciuto, l’invidia, la pre-sunzione, la diffidenza (non esiste una coppia che si occupa di un figlio, ma una coppia sadica reciprocamente che esclude), il sadismo; altrimenti fuori ricostituiranno la banda perversa.
La funzione fondamentalmente terapeutica della madre è la reverie, la restituzione bonificata della rabbia sadica e invidiosa del bambino che piange angosciato agrredito da nemici senza nome che lo tormentano dall’interno (la fame, lo spazio vuoto).
Comunità: dopo 18 mesi di comunità è in crisi (teme il futuro), vuole vedere i genitori più spesso (ingelosisce gli operatori che nell’immaginario sostituiscono li sostituiscono perchè non gli danno ciò che pretende con rabbia), li inganna e incontra i genitori; l’operatore si arrabbia, pur nel dubbio e nella consapevolezza che forse sarebbe meglio rimandare, e mentre lo accompagna a fare degli esami per la licenza media gli comunica la sua rabbia e lo lascia a scuola, pur sapendo che sentendosi scoperto il soggetto potrebbe scompensarsi del tutto e fuggire per andare a farsi; successivamente ricorda che il soggetto quando era adolescente soffriva di crisi epilettiche e che il padre pur sapendolo lo faceva lavorare come muratore lasciandolo andare da solo sulle impalcature. Il soggetto aveva ripetuto e aveva fatto ripetere all’operato la stessa relazione avuta con il padre riconfermandosi che non esistono padri buoni che si interessano a lui. Anche la Comunità ha provato di tutto e lo allontana delusa
Non si può pensare di essere migliori, ma che il lavoro dell’operatore ha senso solo se ha una valenza terapeutica, che prescinde dalla gratitudine
E’ importante il senso di appartenenza dell’équipe; come il senso di essere coppia creativa nei confronti dei figli così il senso di appartenenza al Servizio ostacola collusioni e dà fiducia, potendo contenere il transfert negativo ed impedendo che regole, suddivisioni rigide di compiti, siano deputati a proteggersi reciprocamente da diffidenze, competitività, affetti negativi che si spera di poter ignorare, instaurando relazioni fantasticate meno frustranti, o del tutto nel caso dell’operatore marginale, con il tossicomane. E’ attraverso la propria esperienza di coppia, di gruppo, che si può proporre al tossicomane ….
Il sogno che vuole diventare realtà o il sogno che informa, guidandolo, il cammino nella realtà.