Psichiatria culturale dei disturbi alimentari

“L’Occidente è terrorizzato dall’obesità… E’ necessario, senza avventatezza e senza minimizzare le preoccupazioni giustificate per la sua crescita, contestualizzare il fenomeno e leggerlo come parte dei numerosi disturbi dell’alimentazione che affliggono gli occidentali. Molti di questi problemi, che vanno dall’alimentazione compulsiva alla bulimia, sono meno visibili dell’obesità ma non meno diffusi; anzi prevalgono. Le adolescenti in particolare sono talmente preoccupate per il proprio aspetto che tra loro sono in poche a mangiare in base all’appetito o a smettere quando sono fisicamente soddisfatte. A queste ragazze sfuggono i concetti di appetito e sazietà. Fanno parte di una generazione cresciuta con madri preoccupate per l’accettabilità del proprio corpo e con un rapporto contraddittorio, diffidente e spesso ansioso nei confronti dell’alimentazione e dell’aspetto fisico. Le figlie hanno imparato molto presto a essere guardinghe nei confronti del cibo e ad affidarsi a regole e regimi (contro cui talvolta si ribellano) piuttosto che a stimoli biologici… Le ribellioni emotive e biologiche contro una vita di restrizioni alimentari, privazioni e ginnastica compulsiva possono produrre una risposta di tipo anoressico o il suo opposto: un’alimentazione fuori controllo.” (Susie Orbach: “Corpi”, Codice, Torino 2010)
Nelle società occidentali, l’immagine corporea snella, il conseguente contenimento del peso e, con esso, dunque, la magrezza, vengono talmente enfatizzati che alcuni epidemiologi (DiNichola V.F., 1990; Littlewood R.& Lipsedge M., 1987) hanno ipotizzato che i disturbi dell’alimentazione possano essere considerati sindromi strettamente ricollegate alla cultura dei nostri tempi e paesi.
Polinesiani, come Hawaiani e Samoani, tendono ad avere un peso piuttosto elevato, certo più della media tra persone appartenenti a gruppi etnici differenti. Tahitiani, Indiani, Filippini, o Vietnamiti si situerebbero all’opposto, tra i più magri in assoluto. Da situazioni di questo genere derivano atteggiamenti culturali verso un determinato tipo d’immagine corporea che inevitabilmente arrivano a influenzare psicologicamente il peso, cosicché, per Samoani e Hawaiani, salute, bellezza e desiderabilità verranno associati a persone ben in carne. Un po’ in tutta l’Asia, però, al  grasso viene ricondotto, non solo il concetto di benessere, ma anche quello di fortuna. Lo testimonierebbero i tanti Buddha panciuti, dal cui ventre prominente traspare uno stato di beatitudine. Il magro, d’altronde, comporta un riferimento alla sofferenza, alla malattia, alla povertà, persino all’inaffidabilità. Shakespeare fa esclamare a Giulio Cesare: “Quel Cassio laggiù ha un aspetto troppo magro e affamato: pensa troppo, e uomini del genere sono pericolosi” (atto I, scena II). Alcuni secoli addietro, infatti, il modello di bellezza era sicuramente più pingue anche in occidente.
Alcuni autori (Russel G. F. M. & Treasure J., 1989) hanno notato un fenomeno paragonabile al più recente modello di magrezza in voga negli anni sessanta del secolo scorso, nel periodo delle prime lotte per l’emancipazione femminile, in particolare negli anni venti. La tendenza verso il fisico filiforme, osservata nella moda di quel periodo, andava di pari passo con un generale calo di peso nonché con l’autoinduzione di stati di inedia. Analogamente la cultura che influenza la percezione dell’immagine corporea, induce a cambiare opinione pure nel mondo accademico. Pertanto, alla fine del XIX secolo, l’anoressia nervosa si faceva rientrare nei disturbi di natura isterica, mentre negli anni ‘60 veniva interpretata come difesa dalla sessualità. Il disturbo dell’immagine corporea venne posto in marcata evidenza solo successivamente, assieme a una più esplicita ammissione da parte dei pazienti di un’eccessiva paura di diventare grassi. Il quadro clinico si delineava finalmente come pervicace astinenza dal cibo, più che mancanza di appetito, la quale astinenza conduce a una condizione di sottopeso, tanto da proporre la terminologia più appropriata di psicogena ipofagia (sottoalimentazione), in contrapposizione a psicogena iperfagia (sovralimentazione, bulimia).
Nell’osservare una maggiore diffusione dell’anoressia nervosa tra le figlie di famiglie benestanti, Hilde Bruch (“The golden cage: The enigma of anorexia nervosa”, 1978) ha sottolineato la forte pressione di fattori sociologici nell’insorgenza dei disturbi alimentari, soprattutto dell’eccessiva enfasi sulla moda incentrata sulla magrezza, che giunge a trasmettere l’implicito messaggio di rispetto, ammirazione e amore tributati solamente alle persone snelle. La maggiore libertà nell’esprimere se stesse poteva venire vissuta da alcune adolescenti come un’esigenza inderogabile alla vita sociale e alle esperienze sessuali, valori tutti occidentali di uno stile di vita moderno. La frequenza più alta di anoressia nervosa si riscontrava tra le ballerine provenienti da un ambiente competitivo, per cui si è dedotto che, oltre alla pressione a mantenere un fisico filiforme, incidevano pure le incalzanti aspettative di successo (Garner D. M. & Garfinkel P. E., 1980).

La cultura influisce spesso direttamente sulle abitudini alimentari, altre volte in maniera secondaria, attraverso le preferenze per certi tipi di cibo piuttosto che per altri, la quantità, o l’importanza del pasto. Il taro (pianta tropicale) e il luau (maiale) hawaiani contribuiscono a fornire un apporto calorico abbastanza elevato. Riso e verdure, di cui si nutrono Vietnamiti, Filippini, o Thailandesi, sono molto meno calorici. I contadini asiatici generalmente si esimono dal sacrificare gli animali che li aiutano nel lavoro dei campi, come bufali e vacche, e poi i fedeli musulmani hanno il tabù per la carne di maiale, e così via dicendo.
Wen-Shing Tseng, in “Manuale di Psichiatria culturale” (Cic ed. internazionali, Roma 2003) distingue tre livelli di comportamenti alimentari: quelli “normali”, perché privi di ansia, ma soggetti a variazioni culturali; quelli “intensificati” da eccessiva attenzione nei confronti della scelta dei cibi o dell’assunzione calorica; i “patologici”, in cui la cultura forse non avrebbe un impatto diretto, quale fattore etiologico mediante effetti patogenetici veri e propri, ma semmai eserciterebbe la propria influenza indirettamente, attraverso “effetti patofacilitanti”.
I comportamenti alimentari patologici vengono di solito classificati nelle specifiche manifestazioni di anoressia e bulimia, le cui rigide identificazioni rendono comunque “atipici” la stragrande maggioranza dei casi clinici. Ad esempio, all’elenco dei sintomi dell’anoressia può, a volte, mancare l’amenorrea, mentre nella bulimia, le “abbuffate” possono non essere seguite da autoinduzione di vomito con quella che dovrebbe essere la prevista frequenza; ma, a tal proposito, più che gli effetti patoplastici della cultura sembra siano da riconsiderare meglio i medesimi criteri diagnostici di tipicità clinica (Walsh B.T., 1997).
In effetti, in India (Khandelwal S. K., Sharan P. & Saxena S., 1995) non si sono osservati né la distorsione dell’immagine corporea, né la fobia di diventare grassi e neppure l’iperattività, per cui quella casistica si è definita “atipica” rispetto ai criteri occidentali. Limitatamente alla città di Hong Kong, ma non a Pechino ad esempio, tanto per cambiare, è stato individuato un alto numero di soggetti privi della consueta fobia d’ingrassare, etichettati perciò “non-fat phobic anorexia” (Lee S., Ho T. P. & Hsu L. K. G., 1993). Sempre in Cina, nella regione di Fujien (Chen D. G., Cheng X. F. & Wang L. L., 1993), sono stati rilevati casi di anoressia in bambini di sesso maschile, ricollegabili alla politica, attuata in quelle zone, di pianificazione familiare, per cui i figli unici venivano viziati a tal punto da permettere loro di adottare diete non consone alla loro  crescita.
L’incremento di certe diagnosi, come i disturbi alimentari, i disturbi borderline di personalità, le fobie sociali e persino la depressione, è molto verosimilmente determinato da un parallelo aumento di consapevolezza relativo a questi disturbi. In quelle società in cui ne viene riportato un basso tasso di prevalenza sembra che i disturbi alimentari vengano considerati parte di altre sindromi, oppure siano definiti da “doppia diagnosi”. La stragrande maggioranza dei soggetti studiati in Russia (Korkina M. V., Tsyvilko M. A., Marilov V.V. & Kareva M. A., 1992) presentavano un disturbo borderline di personalità, mentre una certa minoranza rientrava in diagnosi di schizofrenia. Leon G. R. (1992), nel commentare il lavoro dei colleghi moscoviti, rilevò pertanto una differente concettualizzazione delle varie sindromi.

La diffusione dei disturbi alimentari sulla popolazione mondiale viene quasi univocamente attribuita all’aumento di influenza della cultura occidentale (Iancu I., Spivak B., Ratzoni G., Apter A. & Weizman A., 1994). Ovunque sia in atto un processo di modernizzazione esiste una notevole tendenza alla diminuzione del lavoro fisico, con conseguente aumento di peso, per cui allo scopo di migliorare il proprio stato di salute, occorre operare delle modifiche nel consumo alimentare. Contemporaneamente, si è andato, inoltre, avallando quell’atteggiamento occidentale più favorevole all’esposizione del corpo finalizzata all’attrazione sessuale, con la maggiore importanza attribuita a una certa immagine di bellezza e di salute. Tutte queste considerazioni, se non hanno condotto a una franca definizione di “sindrome occidentale culture-bound”, ovverossia di specifica sindrome psichiatrica correlata alla cultura, per la condivisa avvertenza a non dilatare troppo questo concetto (Prince R., 1985), hanno però supportato la teoria del coinvolgimento degli ideali perseguiti e delle diete quali fattori causali primari (Banks C. G., 1992).
Nelle società orientali in cui per mangiare vengono usate le dita (India) o i bastoncini (Cina, Giappone, ecc.) è consuetudine preparare il pasto tagliuzzandolo in parti piuttosto minute, con modalità del tutto diverse dagli ambienti occidentali in cui si ricorre alle posate che includono coltello, forchetta e cucchiaio. Allo stesso modo laddove v’è scarsità di risorse, a esse si attribuisce maggior valore, ammettendone un’importanza capitale.
Tra i pakistani di Lahore (Mumford D. B., Withehouse A. M. & Choudry I. Y., 1992) la preoccupazione maggiore riguardo l’assunzione di calorie era  prodotta da un alto grado di occidentalizzazione, mentre tra gli emigrati a Bradford, nel Regno Unito, dal distretto di Mirpur, una regione sottosviluppata del Pakistan, la si doveva attribuire allo stress intrafamiliare circa il mantenimento delle tradizioni identitarie di provenienza. Uno studio analogo condotto tra la popolazione egiziana (Nasser M., 1986) aveva individuato atteggiamenti alimentari anomali influenzati sia dal grado di occidentalizzazione sia dalle rigide regole conservatrici, strettamente aderenti alle concezioni religiose tradizionali.
In Israele (Apter A., Abu Shah M., Iancu I., Abramovitch H, Weizman A. & Tyano S., 1994), non risultavano particolarmente influenzabili dall’immagine corporea occidentale le adolescenti circasse, in quanto, vivendo in piccole comunità chiuse e relativamente autosufficienti, conservavano i ruoli tipici femminili di potenziali madri di famiglia.
Per descrivere un certo comportamento bulimico, Nogami Y. & Yabana F. (1977) hanno fatto ricorso al termine giapponese kibarashi-gui, letteralmente traducibile con “sovralimentazione come distrazione”, poiché riferito a un eccesso alimentare finalizzato al rilassamento o al divertimento. L’altro sinonimo nipponico yake-gui, ovvero “sovralimentazione disperata”, accentua ancor di più la peculiarità della sindrome, non sovrapponibile alla semplice iperoressia, bensì che tende a essere accompagnata da sintomi clinici di depressione, comportamenti aggressivi, di autolesionismo e dipendenza.

Mentre Westen D. e Harnden-Fischer J. (2001) hanno proposto di classificare i pazienti con disturbi alimentari anche in base alla personalità, Fichter M. M., Quadflieg N. e Rief W. (1994) avevano già suggerito la formulazione di un nuovo disturbo in asse due, il “disturbo di personalità multi-impulsivo”, oppure di un nuovo disturbo in asse I, la “bulimia multi-impulsiva”, un sottogruppo che, oltre a rispondere ai criteri per la bulimia nervosa, presenta tre o più condotte impulsive non legate al cibo: tentativi di suicidio, autolesionismo, cleptomania, abuso di alcolici o di sostanze, promiscuità nei rapporti sessuali… Questi soggetti tenderebbero ad avere un numero più elevato di relazioni interrotte, un livello d’istruzione più basso, un più alto grado di stress psicosociale, un più basso funzionamento additivo, risultanti dalla tendenza a reagire in modo emotivo, sia sotto forma di ostilità e aggressività, sia come ansia e depressione. Sansone R. A. e Levitt J. L. (2004) ipotizzano: che il disturbo alimentare possa, in realtà, presentarsi come una forma subclinica di disturbo di personalità borderline; che un disturbo predisponga all’altro; che si possa trattare di una specie di complicazione; che, influenzandosi reciprocamente, siano l’uno l’esacerbazione dell’altro.
Un terzo dei soggetti con anoressia nervosa del sottotipo “con restrizioni” evolvono verso condotte d alimentazione incontrollata (Strober M., Freeman R. e Morrell W., 1999). Anche se di solito poi l’anoressia nervosa del sottotipo con restrizioni si associa a un alto livello di controllo, disciplina, perfezionismo ed evitamento del rischio, e a un basso livello di ricerca di sensazioni forti (sensation seeking), vi sono alcuni pazienti, appartenenti a questo stesso sottotipo, che inaspettatamente manifestano condotte quali autolesionismo, tentativi di suicidio non pianificati, violenza, uso improprio di sostanze, cleptomania, accessi d’ira (Fessler D. M. T.,  2002), forse per via dell’adattamento ad un mutamento delle risorse disponibili (logica della scarsità). In base a questo principio, l’amenorrea sopravverrebbe in caso di digiuno per evitare lo spreco di energie che un’eventuale gravidanza richiederebbe. Medesima logica potrebbe applicarsi alle reazioni emotive e comportamentali: nella prospettiva di un futuro migliore, si cerca di non correre rischi che potrebbero comprometterlo; se il cibo è scarso se ne massimizza l’assunzione e, in caso di competizione, si ricorre all’aggressività.
Nel corso della vita, un singolo paziente può presentare una certa instabilità diagnostica, ma il cluster di tratti di personalità non dovrebbe variare. All’anoressia nervosa “con restrizioni” possono appartenere sia il cluster “costrittivo/ipercontrollato” che il “perfezionista/ad alto funzionamento”; al sottotipo con “abbuffate/condotte di eliminazione”, oltre gli altri due, anche il cluster “ipocontrollato/sregolato”, con tendenza a sviluppare il disturbo alimentare multi-impulsivo.
La compromissione più comune riguarda la componente attentiva e la pianificazione della condotta. Tutti i pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata presentano una compromissione della componente “motoria” dell’impulsività maggiore rispetto al sottotipo con restrizioni (Rosval L., Strige H., Bruce K., Israel M., Rrichardson J. & Aubut M., 2006), mentre la componente dell’impulsività relativa all’assenza di pianificazione (condotta avventata) sono bassi per entrambi i sottotipi di anoressia.
All’esame degli effetti interattivi della preoccupazione per gli errori (misura del perfezionismo), l’autostima e la percezione del controllo su spinta alla magrezza, bulimia e insoddisfazione per il proprio corpo, i soggetti con anoressia nervosa del sottotipo con restrizioni hanno dimostrato, nel ridimensionare la minaccia emotiva, di sviluppare un’illusione di elevata autostima e un’altrettanto alta percezione di controllo (Sassaroli S., Gallucci M., Ruggiero G. M., 2008).
L’uso improprio di alcoolici e di sostanze, un recente tentativo di suicidio, abbuffate, taccheggio e furti, costituiscono fattori predittivi di segno negativo (Sohlberg S., Norring C., Holmgren S. & Rosmark B., 1989). I pazienti multi-impulsivi poi hanno un maggiore tasso di abbandono (drop out) della terapia, ma anche dopo trattamento, restano comunque più ansiosi, depressi, demoralizzati, arrabbiati e ostili.
I soggetti con bulimia appartengono solitamente al cluster “ad alto funzionamento/perfezionista” oppure al cluster “sregolato/ipocontrollato”. Questo cluster sembra specifico di quei soggetti che presentano “abbuffate” e condotte di eliminazione, le quali pur potendo sempre essere pianificate, in ogni caso, si associano a senso di perdita di controllo. La stessa alimentazione incontrollata può essere considerata impulsiva, anche se l’abbuffata potrebbe rappresentare un metodo per regolare le emozioni, ovvero una conseguenza della restrizione. I bulimici si dimostrano rigidamente “ossessivi” e, nello sviluppo dei sintomi di abbuffate e condotte di eliminazione, una causa del loro comportamento potrebbe essere individuata nella difficoltà a reagire in maniera flessibile (Fahy T. A., 1991). Essendoci analogia tra bulimia multi-impulsiva e disturbo ossessivo compulsivo, a svolgere un ruolo non secondario sarebbe pure una condotta “compulsiva”. La tensione viene alleviata dal comportamento psicopatologico, al quale da principio si tenta in qualche modo di opporsi (Newton J. R., Freeman C. P. & Munro J., 1993); del resto non è detto che i due tratti, di impulsività e compulsione, debbano reciprocamente escludersi.
Oltre che a disturbo ossessivo-compulsivo, la bulimia multi-impulsiva si può associare anche a disturbi d’ansia, e specificatamente a disturbo post-traumatico da stress, la cui emozione legata al trauma sarebbe affrontata di modo che la regolazione dell’ansia avverrebbe per il tramite della condotta impulsiva (Myers T. C., Wonderlich S. A., Crosby R., Mitchell J. E., Steffen K. J., Smith J., Miltenberger R., 2006).  In molte anamnesi di multi impulsività si rintracciano traumi infantili, rappresentati soprattutto da abusi sessuali (Waller G., 1991), ma pure fisici ed emotivi (Corstorphine E., Waller G., Lawson R., Ganis C., 2007). La condotta bulimica multi-impulsiva, insomma, piuttosto che esito di quel tratto di personalità che non fa prendere in considerazione rischi e conseguenze delle proprie azioni, avrebbe uno scopo più semplice e immediato, quello di regolamentare le emozioni altrimenti ingestibili. Meno chiaro sarebbe invece il rapporto tra impulsività e depressione.

Le condotte impulsive potrebbero assolvere il compito di una sorta di “fuga dalla consapevolezza”, mediante evitamento cognitivo o dissociazione dello schema (elaborazione della minaccia). Per spiegare la molteplicità dei comportamenti, si ipotizza che a ogni condotta impulsiva potrebbe ricondursi una differente funzione, oppure ogni condotta va a sostituire l’altra, secondo un ordine progressivo di maggiore idoneità (Ainsworth C., Waller G. & Kennedy F., 2002). Abuso di alcolici, reiterata assunzione di farmaci in sovradosaggio andrebbero ascritti alla regolamentazione emotiva o al disturbo psicopatologico generale, anche se l’autolesionismo, in specie il tagliarsi, sarebbe più tipico della popolazione bulimica (Welch S. L. & Fairburn C. G., 1996). Le condotte auto-nocive possono distinguersi in “impulsive”, quali tagliarsi, darsi fuoco, tentativi di suicidio, abusare di alcolici o sostanze, o ricorrere impropriamente ai lassativi, ovvero in “compulsive”, come auto-indursi il vomito, ad esempio, mangiarsi le unghie, o strapparsi i capelli (Favaro A. & Santonastaso P., 2002).
Le definizioni di impulsività fanno riferimento innanzitutto alla caratteristica perdita di controllo, rapidità e indesiderabilità della reazione (Coles E. M., 1997), ne consegue comunque una tendenza ad agire ripetutamente senza motivazione razionale, in modo dannoso. Tali condotte potrebbero essere in qualche modo persino pianificate o consapevolmente osteggiate, in base al grado di attivazione, ma sono sempre anticipate da crescente tensione seguita da sollievo.
Dal punto di vista psicometrico l’impulsività è stata concettualizzata secondo un modello tridimensionale, che distingue tra impulsività “cognitiva”, “motoria” e “non pianificata” (Parker J. D. A. & Bagby  R. M. ,1997) e uno bidimensionale: “disfunzionale”, per la scarsa considerazione alle conseguenze, o “funzionale”, se è presente una valutazione del vantaggio (Dickman S. J., 1990); altro modello bi-fattoriale comprende: sconsideratezza o sensibilità alla ricompensa (Dawe S., Gullo M. J. & Loxton N. J., 2004). Qualcuno (Eysenk S. B. J., Pearson P. R., Easting G. & Allsopp J. F., 1985) la considera un tratto di personalità in cui l’azione non è preceduta dalla necessaria riflessione; ad essa si può associare una seconda dimensione, determinata dalla consapevolezza dei rischi, dai quali però si trae morboso piacere (propensione all’azzardo, venturesomeness).

Una marcata impulsività prevale nella bulimia, insieme con la ricerca di novità e di sensazioni forti, appartenenti alla personalità borderline. Nell’anoressia è invece scarsa la ricerca di novità, maggiore la tenacia e la costrizione. Entrambi, anoressia e bulimia, hanno, però, in comune tratti di personalità evitante, perfezionismo, compulsività ossessiva, neuroticismo, emotività negativa, evitamento del danno, scarsa auto-direzionalità, bassa cooperatività (Cassin S. E. & von Ranson K. M., 2005).
Eppure, da un punto di vista squisitamente cognitivo, sostengono Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero ne “I disturbi alimentari” (Laterza, Bari 2010), la sintomatologia dei disturbi alimentari può venire ricondotta a un’eccessiva preoccupazione per il tema della perfezione, dell’autostima e del controllo; e il senso di controllo è spesso ottenuto mediante il monitoraggio di un qualche parametro: nel panico sarà la percezione corporea, nell’ossessività il pensiero intrusivo, nel caso dei disturbi alimentari le preoccupazioni legate al cibo, al peso e alla forma corporea. Sentendosi incapaci di controllare gli eventi, le relazioni interpersonali e le reazioni interne, I soggetti affetti da disturbi alimentari, si impegnano in condotte di estrema restrizione o di eliminazione, dirottando sostanzialmente sul cibo, il peso e la forma corporea, il tentativo di soddisfare quell’umano bisogno di gestire la propria vita.
Giuseppe M. S. IERACE

 

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