L’altalena emotiva fra tristezza e rabbia

Esistono persone che, pur non sviluppando mai un vero e proprio scompenso depressivo, hanno uno stile di personalità caratterizzato da sentimenti di tristezza, solitudine, risentimento e pessimismo.

Pur rimanendo questa, una condizione egodistonica (cioè percepita come negativa da chi la prova), è da considerarsi non tanto come patologia psichica, quanto piuttosto come uno stile relazionale sano, ma disfunzionale.

In controtendenza rispetto alle normali attitudini fisiologiche dell’essere umano, nell’esperienza soggettiva dei depressi, la solitudine è percepita come condizione normale, e poiché questi non hanno mai avuto esperienza di un’alternativa diversa, si sentono in qualche modo responsabili della situazione relazionale che vivono.

L’emozione elettiva del depresso è una ricorsiva oscillazione tra la tristezza e la rabbia.

Tutte le aspettative, le emozioni e le cognizioni, si definiscono, nel corso dello sviluppo, a partire da questa primordiale altalena emotiva.

Si tratta di soggetti che, nell’ambito delle relazioni affettive, sperimentano ripetutamente la sensazione di non essere abbastanza amati, e per questo si sentono in una costante situazione di “credito” e di protesta nei confronti degli altri e del mondo.

Nelle relazioni con le persone significative, possono avere degli scatti di rabbia incontrollati a partire da situazioni apparentemente banali.

La minima discrepanza percepita con il partner, per esempio, è vissuta immediatamente come perdita, come una coltellata che lascia il segno e ha come conseguenza una reazione di rabbia assolutamente inadeguata alla situazione.

Un esempio tipico è quello del depresso che aspetta con ansia l’arrivo del partner dal lavoro, quando questi arriva e saluta con un “ciao” non  troppo entusiasta, ciò è vissuto come una vera perdita. Si sente non amato e risentito, per cui in un accesso di rabbia, può arrivare a dire al partner parole orribili, mettendo in discussione la stessa relazione.

Si comprende come la vulnerabilità nei legami affettivi diventi, per questi soggetti,  un problema da evitare. Per fare ciò usano la strategia del non coinvolgimento, che mette al riparo da eventuali perdite del legame, per cui un tratto ricorrenti in queste persone è proprio la freddezza, una distanza emotiva, tesa a svalorizzare gli aspetti affettivi dell’esistenza.

Un’ulteriore strategia relazionale è quella del cosiddetto “accudimento compulsivo”, che permette al depresso di sentirsi degno, poiché indispensabile per qualcuno. Prestarsi a qualsiasi tipo di richiesta, e anticipare i bisogni ancor prima che vengano espressi,  è il modo che ha per essere accettato e amato, ma allo stesso tempo questo lo espone ad una  frustrazione che lo porta ad appesantire le relazioni con lamentele continue.

L’organizzazione di personalità di tipo depressivo, come viene definita dalla psicologia cognitivista, si costruisce a partire dalle esperienze relazionali primarie, e dai  legami di attaccamento vissuti nell’infanzia.

Il bambino depresso vive un’esperienza di perdita affettiva poiché, per qualche ragione, la sua  fisiologica richiesta di vicinanza , di cure e di conforto emotivo, ottiene con regolarità risposte di indifferenza, quando non di aperto rifiuto od ostilità.

Generalmente questo avviene a partire da  atteggiamenti freddi e distanzianti di madri che non accettano il proprio ruolo, o inclini a valorizzare nel bambino un’autonomia precoce. Anche madri tendenzialmente affettuose e sensibili, in particolari momenti di vita o a causa circostanze sociali e personali di difficoltà, come un lutto, un abbandono, o una malattia fisica per esempio, possono fallire nel  fornire cure o essere vicine al figlio. Questi, a sua volta, si sentirà un “peso” per la vita della madre, e avrà la sensazione di poter contare solo su di se.

Il fanciullo  impara presto che il modo per essere amato e per evitare il dolore e l’umiliazione che ogni rifiuto comporta,  è quello di non infastidire l’altro con richieste di vicinanza.

Da ciò segue la tendenza disfunzionale e contro natura, ad inibire l’attivazione biologica dei comportamenti di attaccamento.

Il depresso diventa, infatti, nel corso del tempo, molto abile a negare i propri sentimenti. Presto l’atteggiamento distanziante, unito alla rabbia e alle costanti proteste, iniziano a produrre negli altri i comportamenti che avrebbero dovuto evitare.

Generalmente a tali difficoltà nelle relazioni affettive, non corrisponde una sfera intellettuale o lavorativa particolarmente impoverita.  Questi soggetti sono solitamente dei grandi lavoratori, sicuri delle proprie capacità, e ben abituati allo sforzo per il raggiungimento di mete ambiziose. Non è inusuale, ad esempio, la tendenza a porsi come obiettivo delle “imprese impossibili”. Per il depresso significa poter guadagnare l’accesso al mondo, riuscendo così ad essere riconosciuto ed amato.

Nello stesso modo in cui passano rapidamente dalla rabbia alla tristezza, i depressi hanno ora un’immagine di sé come indegni di amore, ora un’immagine positiva delle loro competenze intellettuali e delle capacità di destreggiarsi da soli, senza bisogno di nessuno. In un momento può primeggiare l’immagine di sé come impossibile da amare, sperimentando la solitudine ed il rifiuto come condanna, in un altro, può essere invece rilevante il senso di sé come speciale, trasformando così la solitudine in un destino di scelta per pochi privilegiati.

La stessa immagine positiva è però, a sua volta, un’esperienza  che causa solitudine. Nonostante siano effettivamente competenti, i depressi sono auto svalutanti nei confronti degli obiettivi raggiunti (“Se ce  l ho fatta anche io, significa che non era difficile“),  tanto da neutralizzare il potenziale correttivo delle esperienze positive.

È in questo modo che la percezione costante di perdita incontrollabile e di solitudine, si cristallizza in un approccio alla vita disincantato e pessimista, in cui l’unico atteggiamento possibile è qualcosa di simile al  “Pessimismo Cosmico” leopardiano.