Terapie cognitive e comportamentali
Le terapie comportamentali pongono al centro dell’intervento clinico il
comportamento osservabile del paziente in relazione al suo ambiente. Le
terapie cognitive, invece, puntano l’attenzione sulla conoscenza che il
paziente ha di sé, degli altri e della realtà esterna in generale, in modo da
facilitare la revisione dei modelli conoscitivi correlati alla sofferenza
emozionale ed ai comportamenti disadattativi. Sia le terapie
comportamentali che le terapie cognitive prendono origine
dall’intenzione di applicare alla psicoterapia le teorie, i metodi ed i
risultati della psicologia sperimentale. A partire dagli anni ’60 un numero
sufficientemente ampio di psicoterapeuti si impegnò a creare un ponte tra
psicologia sperimentale e cura psicologica dei disturbi psichiatrici. Dal
momento che, in quegli anni, la ricerca di base in psicologia era dominata
dalla teoria e dalla prassi sperimentale nota come comportamentismo
(behaviorism), le prime tecniche terapeutiche si concentrarono sul
comportamento osservabile, e presero il nome di terapia del
comportamento (behavior therapy).
Il punto centrale era di limitarsi ad
osservare gli eventi più rilevanti per l’apprendimento ed il mantenimento
dei comportamenti abnormi, per poi elaborare tecniche terapeutiche
capaci di spezzare i circoli viziosi tra stimoli ambientali e risposte del
paziente. Le attività mentali “interne” del paziente non potevano essere
studiate con i metodi del comportamentismo, e quindi non venivano
prese in considerazione nell’elaborare le tecniche terapeutiche.
Mentre la terapia del comportamento si evolveva, la psicologia
sperimentale cominciò ad interessarsi ai fenomeni del “mondo interiore”
che furono indagati con metodi sperimentali sufficientemente precisi
grazie agli sviluppi della psicofisiologia e della scienza cognitiva (Bara,
1991). La psicologia cognitiva andava, dunque, sostituendo la psicologia
di stampo comportamentista e contemporaneamente cominciarono a
svilupparsi tecniche terapeutiche capaci di influire sui processi
conoscitivi umani oltre che sul comportamento motorio direttamente
osservabile. Per indicare l’insieme di queste tecniche sembrò appropriato
il termine di terapia cognitiva (cognitive therapy).
Nell’ultimo ventennio hanno subito notevoli sviluppi anche la psicologia
dello sviluppo (Bowlby, 1972; Stern, 1987) di tipo empirico, basata
sull’osservazione diretta dello sviluppo mentale del bambino, l’etologia
(Eibl-Eibesfeldt, 1993), ovvero lo studio del comportamento animale, e
l’epistemologia evoluzionistica (Popper e Eccles, 1981) cioè la visione
della vita come un processo conoscitivo in evoluzione, basata sui risultati
della rivoluzione darwiniana in biologia.
Conseguentemente a questo sviluppo, la psicoterapia cognitiva ha il
compito di integrare, nella cura dei disturbi psicopatologici, oltre ai
classici contributi della psicologia comportamentista e della psicologia
cognitiva, anche i risultati della psicologia dello sviluppo, dell’etologia
umana e dell’epistemologia evoluzionistica (Liotti e Pavan, 1999).
Il modello cognitivo-comportamentale postula l’esistenza di una
relazione reciproca tra processi cognitivi, processi emozionali, reazioni
fisiche, attività motorie esplicite ed ambiente (Greenberg e Safran, 1987;
Frijda, 1990). Queste cinque “aree” sono in stretta relazione fra loro: un
pensiero o l’interpretazione di un evento produce uno stato d’animo, una
reazione fisica, un comportamento, modula un’esperienza di vita. A sua
volta un comportamento determina un pensiero, fa scaturire
un’emozione, una reazione fisica, crea un’esperienza di vita. La terapia
cognitivo-comportamentale, partendo dal presupposto che molte delle
sindromi psicopatologiche siano sostenute da comportamenti
disadattativi e pensieri disfunzionali, mira ad analizzare i processi
cognitivi ed a valutare come questi influenzino e siano influenzati dalle
emozioni e dall’ambiente esterno, e ad individuare i comportamenti
disadattativi dell’individuo per sostituirli con comportamenti più
funzionali per affrontare le situazioni.
Il lavoro cognitivo in psicoterapia pone grande attenzione alla
valutazione dei cosiddetti “schemi cognitivi”, ovvero rappresentazioni
interne, latenti e assolute, di sé stessi, degli altri e della realtà esterna. Per
la psicoterapia cognitiva sono particolarmente importanti due categorie di
schemi: i “self-schemata” (schemi di sé) che determinano i nostri
atteggiamenti verso noi stessi, e gli schemi interpersonali, che
contengono regole che si applicano alle condotte interpersonali e che
prendono origine nelle prime fasi dello sviluppo. Gli schemi possono
essere modificati dalle informazioni provenienti dall’ambiente esterno e
quindi venire rinnovati, però gli stimoli consolidati precocemente
nell’infanzia tendono ad essere persistenti ed a influenzare tutte le nuove
costruzioni mentali producendo distorsioni cognitive.
In una situazione che porta all’attivazione di uno schema disfunzionale,
quindi, si verificherà la percezione e l’interpretazione della situazione
stessa attraverso distorsioni cognitive associate a quello schema a cui
seguirà, a causa della stretta relazione esistente, la nascita di emozioni e
comportamenti disadattativi.
La terapia cognitivo-comportamentale deve cercare di individuare e
definire più chiaramente possibile questa sequenza di eventi al fine di
modificare i pensieri disfunzionali, le distorsioni cognitive e, se possibile,
gli schemi cognitivi di base responsabili dei disturbi lamentati dal
paziente.
Il razionale della terapia cognitivo-comportamentale nel DP, va ricercato
nel ruolo che le distorsioni cognitive sembrano svolgere nella genesi e
nel mantenimento del disturbo stesso. Per ottenere un cambiamento dei
modelli disfunzionali di pensiero, si possono utilizzare due differenti
approcci: si può agire in modo diretto, rivolgendosi alla confutazione
della logica e dell’utilità pragmatica di certe credenze o convinzioni
(tecniche cognitive), oppure si può agire indirettamente, aggredendo la
credenza o convinzione sbagliata attraverso la ricerca del cambiamento di
uno stile di comportamento ad essa associata (tecniche
comportamentali). Tra le tecniche comportamentali utilizzate, molta
importanza rivestono le varie tecniche di esposizione graduale alle
situazioni temute ed in particolare la desensibilizzazione sistematica. Il
razionale di questa tecnica si trova nel fatto che, essendo il
comportamento una struttura controllata da una funzione superiore,
quella cognitiva, e dal momento che queste due strutture sono
intimamente connesse, tanto che la modificazione di una determina il
cambiamento anche dell’altra, l’acquisizione di un controllo sulle nostre
funzioni fisiologiche porta alla modificazione delle strutture cognitive e,
di conseguenza, alla correzione delle distorsioni cognitive tipiche dei
pazienti ansiosi. L’esposizione alle afferenze enterocettive consiste in
una serie di esercizi, volti a provocare i sintomi che solitamente vengono
sperimentati durante l’AP. La sedia girevole, lo scuotimento della testa, il
trattenimento del respiro, la rapida risalita di scalini rappresentano una
serie di esercizi in grado di indurre sintomi simili a quelli dell’attacco di
panico. La familiarizzazione con questi sintomi ridurrebbe la risposta
ansiosa alla loro esperienza.
Le tecniche cognitive mirano ad un cambiamento più diretto delle
strutture cognitive abnormi. Esse possono basarsi sulla critica di processi
e modi di pensiero che, oltre ad essere irrazionali, conducono ad una
visione negativa e inutilmente dolorosa di sé e degli altri (Beck, 1984),
oppure sulla critica di alcuni contenuti conoscitivi che ostacolano
l’adattamento interpersonale ed il benessere emotivo (Ellis, 1988).
Attraverso questa riorganizzazione cognitiva si tende a ridimensionare
l’interpretazione allarmistica dei sintomi ansiosi.
Terapie di rilassamento
Le terapie di rilassamento occupano un posto importante fra gli altri
interventi non farmacologici per il DP, sia come trattamenti coadiuvanti
la psicoterapia e/o il trattamento farmacologico, sia come approccio
unico. La letteratura odierna documenta l’applicazione di varie terapie di
rilassamento, che pur differenziandosi nelle modalità di induzione dello
stato di rilassamento, hanno come obiettivo comune l’avviamento del
processo di apprendimento della riduzione della risposta psicofisiologica
d’ansia e la promozione dello sviluppo dell’autocontrollo affettivo e
somatico. Fra le terapie di rilassamento di maggior rilievo clinico si
trovano il training autogeno, il rilassamento muscolare progressivo di
Jacobson, il biofeedback, la tecnica di Desoille del “sogno da svegli
guidato” (Bogdanovic e Cocchi, 1999).
Training autogeno
Il training autogeno trova le proprie radici nell’esperienza derivante dalla
terapia detta suggestiva a partire dagli anni ’20. Il fondatore e capostipite
di questa tecnica, J.H. Schultz, riteneva che il ruolo chiave nel processo
del training autogeno spettasse alla “commutazione” autogena, termine
che designa un evento psicofisico globale ottenibile con il progressivo
“allenamento” autogeno alla “concentrazione passiva”. Gli aspetti
somatici di questa “commutazione” sono rappresentati da modificazioni a
carico del sistema neurovegetativo, con la conseguente riduzione della
tensione muscolare, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa,
la riduzione della frequenza respiratoria, la riduzione della conduttanza
cutanea e la modificazione del tracciato EEG. La tecnica terapeutica si
articola in due fasi: il training autogeno inferiore ed il training autogeno
superiore.
Il training autogeno inferiore si basa sul principio di “ideoplasticità”,
secondo cui le rappresentazioni psichiche avrebbero la tendenza a
divenire percezioni obiettivabili, e sul principio dell’apprendimento
attraverso l’applicazione sistematica e ripetitiva degli esercizi di base,
allo scopo di sviluppare un livello di autocontrollo sulle funzioni
fisiologiche involontarie per ridurre la risposta psicofisiologica d’ansia.
Il trattamento può essere individuale o di gruppo, con 1 o 2 sedute
settimanali fino ad un totale di 7-30 sedute. Ai partecipanti si richiede la
pratica graduale di sei esercizi di base: 1) esercizio della distensione
muscolare (corrispondente alla sensazione soggettiva di pesantezza), 2)
esercizio della distensione a livello vascolare (sensazione soggettiva di
calore), 3) esercizio di regolazione del ritmo respiratorio, 4) esercizio di
regolazione del ritmo cardiaco 5) esercizio di distensione a livello
addominale, 6) esercizio di distensione della muscolatura della fronte.
Il training autogeno superiore, partendo dalla capacità della
“commutazione” autogena ottenuta con gli esercizi di base, propone la
pratica della visualizzazione allo scopo di migliorare ulteriormente
l’autocontrollo delle risposte somatiche e affettive, con la possibilità di
un lavoro psicoterapeutico interpretativo. Si articola in trattamenti
individuali o di gruppo 1-2 volte alla settimana, in cui si attua
un’esperienza di sviluppo delle capacità immaginative dei soggetti in
trattamento, adoperando inizialmente un protocollo ben definito di
esercizi (“percezione interna di colori, forme e oggetti” e successiva
“visualizzazione di concetti astratti”). La durata media del trattamento è
di due anni.
Rilassamento Progressivo di Jacobson
Il Rilassamento Progressivo di Jacobson si sviluppa, anch’esso negli anni
’20, ad opera di Edmund Jacobson, contemporaneamente alla diffusione
del training autogeno. A differenza del training autogeno, però, l’opera di
Jacobson è centrata sul tono muscolare come processo chiave degli stati
di tensione. Il principio di base di questa tecnica è la necessità di avere la
“coscienza del vissuto muscolare”, raggiungibile attraverso una serie di
esercizi programmati, basati sul tentativo di percepire la tensione
muscolare durante la contrazione muscolare ed il successivo
rilassamento. Favorendo la percezione del “vissuto motorio” è possibile
ottenere il controllo volontario sul tono muscolare e, di conseguenza, una
risposta di distensione globale psicofisica. La tecnica prevede
l’esecuzione di sedute individuali in cui si effettuano esercizi sistematici
di progressiva contrazione-rilassamento dei gruppi muscolari secondo un
ordine di partenza che coinvolge gli arti superiori, gli arti inferiori, le
fasce muscolari della zona addominale e toracica, e si conclude con la
muscolatura mimica. In un secondo tempo, viene proposto un lavoro per
ottenere il rilassamento “differenziato” applicando la distensione parziale
di gruppi muscolari selezionati. E’ importante sottolineare che, il
rilassamento progressivo di Jacobson è parte integrante della tecnica di
“desensibilizzazione sistematica” della terapia comportamentale.
Tecnica del “sogno da svegli guidato”
La “tecnica del “sogno da svegli guidato”, ideata ed elaborata da R.
Desoille all’inizio degli anni ’30, ha attualmente un impiego clinico
sporadico. L’Autore fonda il concetto del proprio metodo sulle scoperte
della reflessologia del fisiologo russo Pavlov, in un tentativo di
integrazione con i principi psicoanalitici di indirizzo eminentemente
freudiano. L’applicazione di questa psicoterapia comporta un lavoro di
“rieducazione” mediante un intervento sulle immagini visive, parte
integrante del “primo sistema di segnalazione”. Tramite una leggera
alterazione dello stato di coscienza, il “sogno da svegli”, si provoca il
temporaneo distacco fra il “primo sistema” (immagini visive) e il
“secondo sistema di segnalazione”, legato alle rappresentazioni verbali.
La tecnica richiede l’esecuzione di sedute individuali della durata di 2 ore
ciascuna, in cui si effettua l’impostazione tematica (adoperando le
tematiche ritenute importanti per il soggetto), la guida attiva del “sogno
da svegli” e l’elaborazione delle relazioni fatte a casa sui sogni
precedenti, sia da “svegli” che notturni.
Biofeedback
Il Biofeedback è una metodica sperimentale e clinica che, attraverso una
strumentazione elettronica, permette di rendere consapevole il soggetto
esaminato dell’andamento dinamico delle proprie attività biologiche;
questo consente in un secondo tempo di controllare attività fisiologiche
del proprio corpo altrimenti difficilmente individuabili. La
strumentazione elettronica registra tramite elettrodi la funzione
fisiologica sia essa somatica (ad es. tensione muscolare) o viscerale (ad
es. pressione arteriosa), la amplifica per renderla percepibile e la rimanda
al soggetto sotto forma di informazione acustica o visiva. Il soggetto
utilizza il sistema elettronico come una sorta di “canale sensoriale
aggiuntivo” che gli permette di conoscere istante per istante lo stato delle
funzioni fisiologiche monitorate e gli consente di imparare, attraverso un
sistema di prove ed errori, a controllarle entro certi limiti. L’obiettivo
della tecnica è quello di far apprendere o riapprendere il controllo
volontario di certe funzioni attraverso il meccanismo del
condizionamento operante, in cui il rinforzo viene dato solo se il soggetto
fornisce la risposta desiderata.
I Disturbi d’Ansia, e di conseguenza il DP, costituiscono la principale
indicazione, in ambito psichiatrico, al trattamento con biofeedback. In
ambito psicoterapico il biofeedback può essere utilizzato come semplice
terapia di rilassamento o all’interno di interventi più complessi di tipo
cognitivo-comportamentale. La più comune applicazione in psicoterapia
è l’insegnamento del rilassamento muscolare tramite biofeedback
elettromiografico. L’elettromiografo, attraverso la misurazione
dell’elettricità prodotta dal muscolo, ne quantifica lo stato di contrazione.
L’attività del muscolo viene tradotta in un segnale acustico o visivo che
informa il paziente dello stato di contrazione del muscolo stesso. Gli
obiettivi del rilassamento con biofedback elettromiografico sono la
valutazione oggettiva del livello di tensione del paziente, spesso
inconsapevole del suo stato di tensione ormai consolidato da tempo, e
successivamente l’acquisizione del controllo volontario sul grado di
tensione. Contrariamente alle altre tecniche di rilassamento, il
biofeedback, grazie alla presenza di un segnale percepibile prodotto da
un’apparecchiatura affidabile, può essere visto come uno strumento di
controllo costante delle proprie attività fisiologiche e quindi sedare la
paura di perdita di controllo tipica dei pazienti ansiosi. Oltre al
biofeedback elettromiografico, viene utilizzato, in psicoterapia, anche il
biofeedback elettrodermografico che attraverso la misurazione della
conduttanza della cute dei polpastrelli della mano registra l’entità della
sudorazione del palmo della mano e quindi il grado di attivazione del
sistema nervoso autonomo.
Oltre che da semplice terapia di rilassamento il biofeedback può fungere
da substrato fisiologico per interventi psicoterapici di tipo
comportamentale. Nella desensibilizzazione sistematica, infatti, il
biofeedback può essere utile per differenziare l’entità dell’ansia prodotta
da ciascuna situazione ansiogena e compilare una scala gerarchica in
funzione della temibilità delle situazioni, sia per imparare a controllare
l’attivazione iniziando dalle situazioni meno ansiogene e passando
progressivamente a quelle più temute. Con la guida del biofeedback, il
processo di desensibilizzazione è più rapido e il paziente riesce a tornare
più velocemente al rilassamento dopo la presentazione dello stimolo.
Trattamento cognitivo-comportamentale secondo Andrews
Andrews e coll. (1994) hanno messo a punto uno specifico trattamento
cognitivo-comportamentale per i disturbi d’ansia. Prevede un’approccio
intensivo della durata di 10 giornate (ore 9-17) distribuite in 3 settimane,
con 1 settimana di intervallo. Il trattamento viene effettuato su gruppi di
pazienti di 6-8 persone. Durante il trattamento viene consegnato un
manuale a tutti i partecipanti che li aiuterà a lavorare in modo strutturato
sulle componenti principali del programma con la supervisione di due
coterapeuti formati per l’attuazione del metodo Andrews. Dopo il
trattamento e qualora si ripresenti la necessità, il manuale può servire
come risorsa per l’auto-aiuto per la persona che ha partecipato al
trattamento.
Componenti principali del programma secondo Andrews:
1. Diagnosi e valutazione
2. Analisi comportamentale
3. Informazione del paziente sul disturbo
4. Tecniche di rilassamento (respiro lento e rilassamento
muscolare)
5. Esposizione graduale alle situazioni temute
6. Ristrutturazione cognitiva (tecniche per modificare ciò che la
persona dice a sé stessa)
7. Metodo strutturato di soluzione dei problemi (Problem
Solving).
L’analisi comportamentale, effettuata previa valutazione clinica delle
fobie ed degli evitamenti delle situazioni temute, prevede la conduzione
di un’accurata analisi del problema, ovvero un’attenta indagine degli
“antecedenti” e delle “conseguenze” legati all’insorgenza del DP
(manifestazioni fisiche, comportamentali, emozioni, pensieri, ecc.), la
valutazione dell’utilizzo di strategie di fronteggiamento dei problemi, di
evitamento subdolo (per un paziente con agorafobia portare il cellulare,
una bottiglia d’acqua, delle benzodiazepine per rassicurarsi) ed infine,
analizzare i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalla soluzione del DP.
L’informazione del paziente sul disturbo viene effettuata in gruppo sulla
base di informazioni derivate dalla lettura del manuale o da altre fonti
reperite consultando la letteratura scientifica o riportate anche dai
partecipanti stessi. Viene, inoltre, fornita un’accurata descrizione della
patogenesi del DP utilizzando come modello di riferimento quello
definito “allarme troppo sensibile”, ossia che scatta in situazioni di scarso
pericolo. La maggior sensibilità è legata a 3 fattori: stress (psicologico e
fisico), respirazione eccessiva, le caratteristiche di personalità (persone
che tendono a preoccuparsi per la loro salute fisica o per le varie vicende
di vita).
Sulla base dei dati di letteratura non è possibile concludere che
l’iperventilazione sia causa scatenante degli AP; ciò nonostante,
numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia della riduzione della
frequenza respiratoria. Il controllo del respiro prevede, prima di tutto,
l’insegnamento di come calcolare e monitorare la propria frequenza
respiratoria ed in seguito della tecnica di respirazione lenta. La tecnica
prevede una prima fase di apnea della durata di 5 secondi, seguita da una
ventilazione regolare con cicli respiratori di 6 secondi. I valori della
frequenza respiratoria vengono registrati su appositi moduli del manuale.
I pazienti sono invitati a svolgere 4 volte al giorno a casa tali esercizi.
Il rilassamento muscolare si basa sul principio che la tensione muscolare,
quando non è finalizzata a preparare la persona all’azione come avviene
fisiologicamente nella reazione di attacco o fuga, può essere dannosa.
Un lungo e persistente stato di tensione muscolare, infatti, non solo può
essere spiacevole e doloroso, ma continua anche a comunicare al cervello
sensazioni di allerta, di potenziale pericolo e porta a reagire anche ad
eventi minimi in modo esagerato, con apprensione ed ansia. Esiste un
rilassamento muscolare progressivo, utile prima di affrontare una
situazione ansiogena, che prevede esercitazione quotidiane della durata di
20 minuti al giorno per 8 settimane, ed un rilassamento muscolare
isometrico, utile durante una situazione ansiogena, che consiste
nell’applicazione di piccoli esercizi “sul posto” ed autoistruzioni. In
ambedue i casi il primo passo è l’individuazione dei gruppi muscolari
che facilmente entrano in tensione in base alla quale vengono effettuati
esercizi individualizzati di rilassamento.
L’esposizione graduale alle situazioni ansiogene è una metodica volta a
contrastare l’evitamento delle situazioni temute, che spesso complica il
DP. Si fonda sul principio che, affrontando gradualmente le situazioni
temute, anche con l’ausilio della tecnica del respiro lento, del
rilassamento e del pensiero funzionale, il grado di ansia diminuisca. In
primo luogo viene fatto , con il terapeuta, un programma di riesposizione
agli stimoli che provocano paura o ansia, basato principalmente
sull’esposizione “in vivo”. Vengono svolti esercizi in gruppo ed
individualmente (al primo esercizio partecipa anche il terapeuta),
selezionati sulla base degli obiettivi delle persone. Gli obiettivi vengono
suddivisi in passi che permettano di raggiungerli in maniera graduale.
Infine, viene effettuata una “esposizione agli stimoli interni”
(iperventilazione, con esercitazioni a casa).
Sulla base dell’evidenza che i disturbi d’ansia sono il risultato di pensieri
irrazionali basati sulla “doverizzazione e terribilizzazione”, la tecnica
della ristrutturazione cognitiva si pone l’obiettivo di convertire i pensieri
disfunzionali (pensieri che ostacolano il raggiungimento di dati obiettivi)
in pensieri funzionali (pensieri che aiutano a raggiungere dati obiettivi).
In primo luogo vengono illustrati, attraverso il manuale, i tipi più
frequenti di pensiero disfunzionale e quindi si procede all’illustrazione
delle strategie necessarie per confutarli attraverso le seguenti domande:
“Cosa penso di me?” “Cosa penso delle altre persone?” “Cosa penso
della situazione?”.
Il Problem Solving è un metodo di risoluzione dei problemi a 6 tappe. In
primo luogo viene identificato il problema come obiettivo, quindi viene
fatto l’elenco delle soluzioni possibili, le soluzioni vengono valutate e
viene scelta la soluzione “migliore”. Infine, viene effettuata la
programmazione e la verifica ed apprezzamento dei progressi.
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Popper K., Eccles J.: L’io e il suo cervello. Armando, Roma, 1981.
Stern D.: Il mondo interpersonale del bambino. Boringhieri, Torino, 1987.
Mauro Acierno
Ma come si può contrastare il distrubo del sonno se si è ansiosi?
Ho letto delle terapia di rilassamento per gli attacchi di panico, ma non ho capito quali sono.
Elisa