Contesti e interventi nella prospettiva Bio-Psico-Culturale

Il termine contesto trova le più antiche radici nell’esperienza del tessere, e del farsi tessitore dei fili con-tessuti  che creano una trama.

Questa visione del “contesto” va letta tenendo in considerazione la prospettiva della complessità, per cui il concetto in sé implica, su  livelli distinti di unitarietà autonomia, il riconoscimento della centralità del soggetto  rispetto a un tessuto che lo avvolge.

Il  cambiamento delle premesse epistemologiche in terapia del 1989, avvenuto in ambito metodologico grazie all’opera di Gregory Bateson, non ha avuto solo un riscontro dal punto di vista normativo, ma è stato pienamente riconosciuto in ambito psichiatrico e terapeutico, anche all’interno delle Artiterapie.

Alla base della nascita dell’approccio Bio-Psico-Culturale (o Sociale) ha contribuito un articolo di  George L. Angel, noto psichiatra americano, pubblicato originariamente su Science nel 1977.

In questo breve ma fondamentale lavoro, Engel proponeva di superare l’imperante modello medico classico, che privilegiava gli aspetti biologici della malattia, per costruire un nuovo modello di medicina, da lui definito bio-psico-culturale.

Il modello era inizialmente in netto contrasto con la scienza medica, che ha solide basi nelle scienze biologiche, e che per definire i meccanismi delle malattie e pianificare nuovi trattamenti dispone di risorse tecnologiche al suo servizio.

Tale sconvolgimento della psichiatria portò una netta scissione di opinioni, tra esperti del settore.

Una parte del mondo della psichiatria era orientata all’esclusione della stessa dal campo della medicina, mentre l’altra voleva aderire al “modello medico” e limitarne il campo di intervento ai disordini comportamentali conseguenti a disfunzioni cerebrali.

Oggi, dopo 30  anni, grazie ad una migliore conoscenza delle origini culturali del concetto di malattia e del sistema sanitario, è possibile chiarire l’incongruenza.

L’impegno dell’uomo nello sviluppo di modelli diagnostici e nello studio dell’adattamento sociale per affrontare i disturbi dell’individuo e del gruppo causati dalla malattia, è orientato all’individuazione delle cause all’origine delle esperienze di sofferenza emotiva o del disturbo della persona. Oggi il modello dominante di malattia mentale è quello biopsicoculturale, che non si contrappone a quello medico, alla biologia molecolare, come disciplina scientifica di base. Questo nuovo approccio presuppone che la malattia venga spiegata dal punto di vista biologico (somatico), e che all’interno di questa cornice vengano definite le dimensioni sociali, psicologiche e comportamentali dell’individuo.

Il modello biomedico esistente non era  sufficiente a fornire una base utile a comprendere le determinanti della malattia psichiatrica ed arrivare a trattamenti specifici e a modelli di cura sanitaria.

Il  nuovo modello  prende in considerazione il paziente, il contesto sociale in cui vive, inteso come matrice di significati, come ambiente fisico, ma anche come modo di essere, di fare e relazionarsi con l’altro.

Si collegano a questi  concetti chiave altri 3 termini, rivisitati a partire dal 1994, che sono il sintomo, la diagnosi e l’intervento.

Il Sintomo non è più il singolo effetto da curare col farmaco, diventa espressione di un disagio che si pone all’interno del contesto delle relazioni e della rete sociale.

La   Diagnosi non può essere solo informativa rispetto alla malattia, ma va letta alla luce dei significati complessi  di tutti i sintomi presenti nel paziente, per cui la  sola cura farmacologica sarebbe un limite. La “presa in cura” comprende  il farsi carico di una persona, ciò ha un significato costruttivo, si tratta di una condivisione del disagio con il paziente e con la famiglia, è un evidente capacità  di assumersi la  responsabilità di contenere le difficoltà del paziente e del suo contesto per poterle rielaborare attraverso le esperienza espressive.

L’Intervento può essere definito come il “pattern che connette”. Attraverso la relazione d’aiuto tra terapeuta e paziente è possibile che avvenga una co-costruzione di significati condivisi e comuni, all’interno di un processo elaborato per il paziente.

Nell’ambito delle Artiterapie il modello  non è determinato dalla funzione classica del medico che consiste nello stabilire se la persona che chiede aiuto sia “malata” o “stia bene” e, se malata, perché è malata. L’Arteterapeuta ha il compito di  avviare un programma specifico finalizzato a promuovere un cambiamento nella persona.

Il concetto sopra citato   permette di cogliere analogie e differenze tra i vari modi di vivere e gestire l’esperienza in termini preventivo-abilitativo. L’esperto, infatti, nel suo lavoro cerca di far ri-suonare in un’area di ascolto, area paragonabile a uno spazio armonico interiore, qualcosa di non-dicibile e quindi di non-ascoltabile, come gli affetti, i sentimenti, le emozioni, e trasforma tutto ciò in prodotto/materiale (grafico/sonoro).

L’approccio bio-psico-culturale alle Artiterapie, congiuntamente alle nuove scoperte delle neuroscienze, alla teoria della mente, alla semiotica, alla musicologia e alla teoria della creatività, oltre che  alle epistemologie dei processi di cura, concorre a sviluppare le capacità e le competenze dell’individuo dal punto di vista sinestesico.

Tale approccio consente di comprendere tanto il paziente quanto la malattia e tutta la rete che lo circonda.

E’ compito del medico tener conto delle disfunzioni che portano gli individui a ricercarne l’aiuto, a riconoscere il loro ruolo di malati e ad accettare lo status di pazienti. Il terapeuta deve invece osservare il comportamento dell’individuo, e attribuire un significato ai fattori sociali, psicologici e biologici, impliciti nella disforia e nel disagio del paziente.

Nel valutare tutti i fattori che contribuiscono alla definizione di una malattia e dello status di paziente, piuttosto che privilegiare i soli fattori biologici, un modello biopsicoculturale  potrebbe spiegare perché alcuni individui sperimentino come “malattia” condizioni che altri considerano soltanto “problemi di vita”, reazioni emotive alle circostanze di vita piuttosto che sintomi somatici. Dal punto di vista dell’individuo la scelta tra l’avere “un problema di vita” o l’essere “ammalato” ha sostanzialmente più a che fare con l’accettare o meno il ruolo di malato e l’eventuale ingresso nel sistema che lo circonda.

Nel modello biopsicoculturale  è possibile distinguere  chiaramente una situazione in cui i fattori biologici o psicologici sono primari, per procedere adeguatamente alla cura della persona in modo adeguato.

Bibliografia:

Engel G. L. , The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science (1977), 196(4286):129-136. Copyright 1977

Bocchi G., M. Cerruti, La sfida della complessità,Feltrinelli, Milano, 1986

Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, p. 374)

Kety, S. (1974), From rationalization to reason. American Journal of Psychiatry, 131, 957-963