Noi terapeuti di orientamento psicodinamico, nella maggior parte dei casi, abbiamo dovuto percorrere un cammino terapeutico, prima ancora di iniziare la nostra professione. Questo percorso può essere stato a volte fortemente desiderato e cercato, altre volte meno. In ogni caso, ad un certo punto il percorso intrapreso ha iniziato ad essere guidato dalla motivazione legata agli studi effettuati ed all’obiettivo di diventare terapeuti.
Vero è che non sempre noi terapeuti ci rendiamo conto della difficoltà che le persone incontrano prima di chiedere una consultazione psicologica. Eppure si tratta di un momento fondamentale, che giocherà un ruolo di primo piano sulle scelte future del soggetto e sull’eventuale cammino psicologico.
Quando una persona decide di consultare uno psicologo, ciò avviene perché un vecchio equilibrio che prima funzionava, ora non regge più (E. Gilliéron): il soggetto non può più appoggiarsi a nessun tipo di appiglio e prova la sensazione che non ci siano più vie d’uscita. La psicoterapia, dunque, può assumere anche l’aspetto dell'”ultima spiaggia”, l’ultimo doloroso ed incerto tentativo di dare (forse) pace alla propria inquietudine. A volte questo percorso ci viene suggerito da un amico, da un familiare, altre volte dal medico curante: altre ancora siamo noi stessi a sentirne l’esigenza. La ricerca può assumere allora diverse sfumature: ci sentiamo imbarazzati per la nostra “insolita” richiesta, possiamo provare senso di colpa perché forse quei problemi “non esistono, ed in ogni caso avremmo dovuto risolverli da soli”, possiamo sentirci confusi sulla stessa richiesta che esplicitiamo, né sappiamo con precisione cosa ci aspetterà. Non ci rendiamo nemmeno conto che intorno a noi già molte persone hanno intrapreso questo cammino, e che probabilmente molte altre ne potrebbero trarre giovamento qualora decidessero di intraprenderlo.
Iniziare un percorso di questo genere significa spesso, per la persona che ne fa richiesta, entrare in un mondo sconosciuto: vicino alla realtà medica, ma allo stesso tempo ben differenziato da questo, con i suoi propri rituali, modalità, metodologie.
Quando chiediamo la consulenza di uno psicologo, ci sentiamo “malati”: in questa definizione può sembrare implicita una certa negatività, ma in realtà questo termine nasconde alcuni elementi che poi così negativi non sono. Il passaggio che dobbiamo effettuare, da “persona sana” a “malato”, quindi “paziente”, può portare a sentirci più patologici di quanto non siamo: ma è un passaggio fondamentale perché ci permette di chiedere aiuto. Ci dà modo di riconoscere che nelle attuali condizioni, non possiamo fare altro per noi stessi che avvicinarci ad un professionista esperto e competente, e chiedere di lavorare “per noi” e “con noi”.
Quando chiedo aiuto ad una persona ciò significa che mi trovo in difficoltà e che, date le mie condizioni, non ho modo di “aiutarmi da solo”: significa riconoscere la propria impotenza, o se vogliamo la propria non – onnipotenza di fronte alle difficoltà.
Se ci pensiamo bene, questo ci succede quasi quotidianamente, e neanche ce ne accorgiamo: quando ci si rompe un elettrodomestico, quando non funziona più un utensile, quando si consuma un oggetto d’uso comune, noi ricorriamo agli altri ed alle loro competenze, conoscenze, abilità. Così come quando ci troviamo di fronte ad un disturbo fisico, siamo spinti a consultare un medico specialista in quell’area. Tutte (o quasi) queste richieste avvengono costantemente nella nostra vita, e fare appello alle competenze altrui non ci sembra poi così svalutante nei nostri confronti. Ma la richiesta di consultazione terapeutica ci crea non pochi problemi. Perché chiediamo aiuto per una caldaia in panne e siamo invece ritrosi a chiedere una consulenza psicologica? Non esistono risposte buone per tutti i casi. E senza dubbio questa richiesta ha il proprio prezzo: ma è un prezzo che presto o tardi potrà diventare un valore, un bene, una sicurezza, una salvezza. Soprattutto un gesto positivo che facciamo nei nostri confronti. Un gesto che ci fa capire quanto, in fondo, già ci stiamo aiutando, perché abbiamo compreso di essere in difficoltà.
Un percorso terapeutico può avere una durata più o meno lunga: può durare alcuni mesi o numerosi anni. Ma questo tempo è per noi prezioso perché ci facilita la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti ma anche delle nostre risorse, delle possibilità di cui disponiamo e che ancora non abbiamo avuto modo di conoscere. Quando conosciamo noi stessi, il mondo ci fa meno paura, ed anche le scelte più complesse, prima inconcepibili, ci sembrano pensabili, quasi possibili, perché ne siamo responsabili ed abbiamo la forza di sostenere il peso di queste responsabilità. Un buon percorso terapeutico ci insegna anche a sorridere di fronte ai nostri grandi o piccoli fallimenti, di fronte al caso sfortunato, all’evento inaspettato; ci insegna ad accettare quello che non possiamo fare ed a giovarci ed a gioire di ciò che invece è nelle nostre possibilità.
Non sempre è sufficiente intraprendere un cammino psicologico per emergere dal buio che ci opprime: è anche possibile che sia necessario un consulto psichiatrico e, di conseguenza, una terapia farmacologica da affiancare a quella psicologica. Ma non bisogna dimenticare che in entrambi i casi stiamo “curando” la nostra psiche ed il nostro corpo (indissolubilmente legati), quindi noi stessi. Sarà compito dello psicologo, in questo caso, prendere coscienza di questa possibilità e prospettarla al paziente.
Dott.ssa Giorgia Aloisio – Roma
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E. Gilliéron, “Il primo colloquio in psicoterapia”, Ed. Borla.