Scrivendo del caso clinico del piccolo Fritz (in realtà, il suo terzogenito Erich), Melanie Klein (1882- 1960) ci confessa che, intorno ai 37 anni, la sua idea prevalente, in materia di insoddisfazione della “curiosità” sessuale infantile, non andava oltre un grave pregiudizio dell’attività intellettiva futura. Un atteggiamento, da parte degli adulti, improntato alla verità, avrebbe prodotto un’opportuna rimozione della curiosità sessuale, separando da ciò che appartiene a tale sfera quanto vi si sarebbe potuto rimanere impicciato. La pedagogia psicoanalitica elimina i danni dell’educazione repressiva, che procura patologicamente un impatto sulla conoscenza in genere e sull’eventuale suo ulteriore approfondimento, quindi sulla vivacità intellettiva in particolare, anche se non più di carattere sessuale.
Conflitto tra principio di realtà e principio del piacere
La relazione tra il bambino e il proprio mondo interno propone, invece, una prospettiva intrapsichica più complessa. Poiché, se la repressione dell’onnipotenza infantile, incontrovertibilmente associata all’immagine genitoriale interiorizzata, contrasta con la possibilità di coltivarla come tale non solo in senso assoluto, si rende difficile sia l’identificazione con l’immagine censoria sia lo sviluppo delle facoltà di ampliamento epistemico, configurandosi un ancor più ambiguo conflitto tra principio di realtà e principio del piacere. Da una parte, l’onnipotenza dei genitori e contenimento della propria, dall’altra, necessaria riduzione di tale costrizione per consentire una relativa espansione della propria influenza nel mondo circostante.
Durante l’analisi di una bambina di due anni e mezzo, nel 1923, le diventa molto più evidente la centralità dell’interpretazione transferale, forse per una maggiore attenzione focalizzata su ciò che emerge dall’inconscio. “Come con Fritz, intrapresi quest’analisi nella casa della bambina e con i suoi stessi giocattoli”.
Che sia o no questo il vero momento iniziale dell’elaborazione della sua tecnica basata sul gioco, sostanzialmente si tratta dell’attuazione dell’atteggiamento “passivo” dell’analista, rispetto a quello precedente più sollecito, di tipo “educativo”, soprattutto per il personale coinvolgimento parentale ormai appurato.
“mezzo d’espressione per eccellenza”
Claude Geets (1971), citando doverosamente Jacques Lacan, che lo classifica quale modalità per entrare, attraverso il registro simbolico, nell’ordine linguistico, equipara il gioco al “mezzo d’espressione per eccellenza” di chi non è in grado di padroneggiare altro codice.
Il gioco insomma è assai poca “tecnica”, almeno quanto l’attività onirica. In “The psychological principles of infant analysis” (1927), la Klein conferma il parallelismo: “Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze. Nel farlo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota dai sogni. Noi possiamo capire completamente ciò che i bambini esprimono con il gioco solo se lo affrontiamo con il metodo elaborato da Freud per svelare i sogni. Il simbolismo entra però solo in parte nel gioco; se vogliamo comprendere giustamente il gioco dei bambini in rapporto a tutto il loro comportamento nell’ora dell’analisi, dobbiamo tener conto non solo del simbolismo che di solito si rivela chiaramente nei loro giochi, ma di tutti i mezzi di rappresentazione e di tutti i meccanismi utilizzati nel lavoro onirico”.
La Klein colloca, comunque, quella che sarebbe dovuta essere la definitiva consacrazione della tecnica del gioco, sempre negli anni 22-23, ma fa riferimento a una fanciullina di sette anni “che non aveva ancora incominciato a disegnare né a fare altro, s’interessò ai balocchi e si mise subito a giocare. Da questo gioco dedussi che due delle figurine dei giocattoli rappresentavano lei e un ragazzino, suo compagno di scuola, di cui prima avevo sentito parlare. Sembrò che vi fosse qualcosa di segreto nel comportamento di queste due figure e che altre ‘persone-giocattolo’, sentite come interferenti o vigilanti, fossero messe da parte. Le attività dei due giocattoli portavano a catastrofi, come la loro caduta o il loro scontro con automobili”.
Diventava quindi palese il nesso tra gioco e linguaggio non proferito, confermando ampiamente le precedenti intuizioni a proposito del caso della piccola Rita e del suo Fritz/Erich.
la nascita della Tragedia
Contrariamente a quanto sostenuto da una figlia d’arte, quale Anna Freud, il principio che sta alla base della tecnica kleiniana diretta ai bambini è ovviamente lo stesso della psicoanalisi degli adulti: l’interpretazione del transfert dell’angoscia. Ma il collegamento tra gioco e linguaggio non si ferma qui, perché, fornendo materiali simbolici al bambino, gli si permette di ripercorrere le proprie esperienze, collocandole in un adeguato ambito significativo.
Per la Klein, il linguaggio nasce insieme con la “posizione depressiva” e la diminuzione della carica aggressiva conseguente al declino dell’angoscia persecutoria. Nella “posizione schizo-paranoide” il linguaggio è preceduto da una mitopoiesi (“dionisiaca”, direbbe Nietzsche), e soltanto nella rappresentazione “tragica” si offre uno “spazio scenico” a quanto prima era di fatto incontenibile. E’ da una tale origine (“apollinea”, ma) densa di chiaroscuri, che la letteratura trae la sua doppiezza.
L’identificazione “impensabile”
Partendo dalla concezione dell’identificazione proiettiva della Klein, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979) parlava di funzione “alfa” (processo ideico) e “beta” (impressioni sensoriali) come proiezione di elementi tra loro non associati mentalmente, non pensabili e quindi slegati. Se non se ne opera il plausibile ricollegamento, identificandoli (e “identificandosi”), non si riesce a tollerare l’angoscia e, grazie al passaggio dal pensiero alla parola, a verbalizzarla. Il gioco allora, introducendo un elemento simbolico in ciò che non lo possiede, consente un’espressione semplice e sincera.
Coazione a ripetere
Secondo Jean William Fritz Piaget (1896-1980), la conoscenza, essendo “un processo di costruzione continua” (“L’épistémologie génétique”, 1970), per lo sviluppo dei suoi stessi processi cognitivi, necessita di quella ripetizione che permetta la messa a punto di assimilazioni, o successivi accomodamenti, sino all’assunzione dei concetti, o alla costruzione della realtà.
Ebbene, indipendentemente dalla sua importanza pedagogica, dal valore formativo, dal considerevole ruolo nel processo di crescita e di maturazione dell’individuo e dalla medesima tecnica psicoanalitica, il gioco, in se stesso, basa la sua essenziale, quanto irrinunciabile, funzione nella facoltà di esercitare un efficace controllo nel tollerare l’angoscia, la qualcosa Sigmund Freud (“Jenseits des Lustprinzips“, 1920) aveva già osservato nel periodo in cui andava illustrando il meccanismo della “coazione a ripetere”, in virtù dell’esempio paradigmatico dell’agire di un suo nipotino di 18 mesi su quel celebre “rocchetto” che veniva lanciato lontano fino a farlo sparire sotto il letto, accompagnato da esclamazioni vocali connotate da intensa affettività per meglio drammatizzare, in forma mista sia affettiva che motoria, quella serie di esperienze, altrettanto emotivamente intense, di separazione dalla madre. Il bambino recuperava il rocchetto per poterlo far sparire di nuovo. Questo gioco, nella sua completezza (di lancio-sparizione-recupero, e ripristino della condizione iniziale), costituisce una ripetizione e la coazione spinge a ricominciare questo entertainment (intrattenimento e spasso) iterativamente.
“Familiarizzare” con l’unheimlich
Replicare aiuta a familiarizzare psichicamente con un evento perturbante (unheimlich, dal punto di vista semantico contrario di
heimlich, da heim, casa), che ha suscitato una forte impressione emotiva, avulsa dal principio del piacere, nel tentativo di neutralizzarlo. La reiterazione ludica rende attivo il ruolo del bambino, trasformandolo in protagonista di una vicenda che nella realtà è costretto a subire passivamente. La coazione a ripetere non esaurisce il trauma, anzi lo riattualizza, ma controlla pure le impressioni che ne derivano, rivivendole in maniera alternativa fino alla conclusiva abreazione. La relazione con l’oggetto attuale, qualunque esso sia, viene rivissuta in altri termini da quelli fissati nell’inconscio per come furono avviati dal trauma. E l’oggetto attuale trova il supporto in un’immagine ricollegabile all’oggetto primario.
“Mourning Becomes Electra”
Anche Melanie Klein si occupò della “coazione a ripetere” posta in atto nel gioco, a proposito del caso di Trudy, una bimba di 4 anni, affetta da pavor nocturnus ed enuresi (“Infant analysis”, 1926). Il gioco consisteva proprio nell’andare a dormire per poi rientrare furtivamente a minacciare i suoi bambini immaginari, rappresentati dai cuscini, con i quali si copriva (proteggeva), rannicchiandosi e, in preda all’angoscia, rilasciava lo sfintere uretrale, succhiandosi il pollice. Tale “regressione” la riportava indietro di due anni, all’epoca in cui era nata la sorellina (rivale), accadimento che le aveva agevolato la catalizzazione dei desideri anali-uretrali di un “precoce” Edipo. Competizione nei confronti della madre, della quale aspira a depredare i figli, da possedere e distruggere con le deiezioni, fusa con una sensazione colpevole di intenso timore.
“Arri arri, cavallino”
In età prescolare soprattutto, ma non solo, un bambino tenderà ad “appassionarsi” ad un gioco precipuo, ripetendolo in continuazione o variandolo in maniera non sostanziale. Si tratta di una situazione conflittuale replicata in allestimenti a volte differenti di un unico “testo”, che nel caso del piccolo Hans (equinofobia), per Sigmund Freud (“Analyse der Phobie eines fünfjährigen Knaben”, 1909), era l’Edipo.
Hans manifesta il suo ingenuo interesse nei confronti del “machen piss” e delle, per lui, indecifrabili differenze tra maschio e femmina. Il padre, nelle buone intenzioni, vuole impartirgli un’educazione ideale che si dimostri, per quanto possibile, affrancata dalle abituali omissioni ed errori educativi, vituperati dalla dottrina psicoanalitica, frustrandone però di fatto la curiosità. Nel corso della gravidanza materna, Hans chiede al padre e alla madre se anche loro hanno il “machen piss“, aggiungendo la considerazione che, essendo lei così gonfia, dovrebbe averne uno particolarmente grosso, come quello di un cavallo. All’età di tre anni e mezzo, viene al mondo una sorellina, ma gliela si presenta come un dono della “cicogna”. In un sogno, a cui manca del tutto l’elemento visivo ed è costruito sul modello del “gioco dei pegni”, che da qualche giorno Hans fa con i suoi compagni di villeggiatura, desidera che colui al quale appartiene il pegno non venga condannato al solito bacio, bensì a fargli fare pipì. In più occasioni, sorpreso a “manipolarsi” il pene, è improvvidamente minacciato di “castrazione”. Intorno ai 5 anni, Hans manifesta crisi di angoscia, da lui genericamente giustificate dalla paura di essere abbandonato dai genitori, soprattutto dalla madre, e tende a “regredire” nel bisogno di essere coccolato.
L’avvento della fobia per i cavalli lo collega al timore di essere morso, ma aggiunge inoltre che, in villeggiatura aveva spesso giocato ai cavalli e associa questo periodo con l’instaurarsi della fobia. Questa paura, man mano, si specializza e Hans non teme più indistintamente tutti cavalli, ma solo quelli attaccati ai carri da trasporto, quando questi sono carichi, perché pensa che quando i cavalli devono sforzarsi a trainare pesi eccessivi, possano inciampare e, caduti, scalciare. Come Nietzsche, in precedenza (3 gennaio 1889), si impressiona alla vista di animali frustati e si spaventa anche al semplice schiocco o al grido di incitamento: “arri“.
“Parecchio tempo prima della fobia, il bambino si turbava vedendo frustrare i cavalli delle giostre“. L’angoscia non si sarebbe riferita, originariamente, ai cavalli, ma trasferita su di essi solo secondariamente, fissandosi su quegli elementi del complesso più appropriati a certe traslazioni.
“Sotto la paura del cavallo che morde, espressa in un primo tempo, abbiamo scoperto la paura più profonda del cavallo che cade; e tutt’e due, il cavallo che morde e quello che cade, sono il padre, che punirà Hans per avere nutrito verso di lui desideri tanto cattivi… tutti i carri da trasloco o da carico e gli omnibus non sono che casse della cicogna in forma di carrozzoni, essi presentano interesse per il bambino solo in quanto riferimenti simbolici alla gravidanza… Dunque il cavallo che cade non era soltanto il padre che muore, ma anche la madre che partorisce“.
Hans, insomma, avrebbe paura che il cavallo (padre) lo aggredisca (morda) proprio a causa del suo desiderio di vederlo cadere (“morire”, appunto come padre). Nel gioco, invertendo le parti, assume lui quella del cavallo e, correndo addosso al padre, con il quale si identifica, finge di morderlo.
Transitional objects
Rincorrendo il riconoscimento che i bambini non sono adulti in miniatura, Anna Freud (1895-1982) ha proposto una sistematica rappresentazione, gerarchica, dei meccanismi di difesa dell’ego, ha chiarito l’effetto sulla salute mentale infantile di separazioni precoci, e infine affinato la comprensione delle fasi di relazione oggettuale. In “Normality and Pathology in Childhood Assessments of Development” (1965), dimostra come l’attività ludica riveli lo stadio evolutivo del bambino, dapprima concentrato sul proprio corpo, poi sul giocattolo e, infine, sul gioco in sé. L’attività ludica procura piacere coinvolgendo immediatamente e direttamente bocca, vista, dita, e superficie epidermica, senza ch’essa venga distinta da quella della madre. Queste medesime caratteristiche corporee di turgore e tonicità, compattezza, delicatezza e sofficità, vengono poi trasferite, e ricercate, su altri oggetti, precipuamente morbidi ( “transitional objects” di Donald Woods Winnicott). L’attaccamento verso uno specifico oggetto viene in seguito spostato su quanto si presenta pastoso, sinuoso, tenero, su cui si concentra, con modalità ambivalenti, sia la libido sia l’aggressività del bambino, il quale in alternativa li vezzeggia o li maltratta.
Nel momento di andare a letto, però, gli oggetti transizionali mantengono la loro priorità, supplendo all’assenza di altre cose o persone. La soddisfazione ricavata dall’esperienza ludica cederà questo primato al godimento per aver raggiunto determinati scopi e si identifica con il piacere di raggiungere degli obiettivi prestabiliti. In tale linea evolutiva la Freud fa rientrare anche altre attività abbastanza rilevanti per lo sviluppo della personalità, come agonismo e hobbies. I sogni a occhi aperti aumentano allorquando l’interesse per giocattoli e attività ludica va in fase di decrescita, per cui i pensieri dapprima concentrati su oggetti materiali trovano soddisfazione nell’immaginario. L’agone compare nel momento in cui la capacità di tollerare le frustrazioni e di adattarsi alla realtà possa essere padroneggiata da un adeguato stadio di socievolezza. Gli hobbies, che possiedono profili a metà strada tra gioco e lavoro, verranno intrapresi con finalità “spostate”, ovvero sublimate, mai “troppo lontano dalle gratificazioni delle pulsioni erotiche e aggressive”.
Il Sogno di Rhonabwy
Come nel gallese Mabinogion, ed espressamente nel Sogno di Rhonabwy (Breuddwyd Rhonabwy), tra i re Artù e Owein mab Urien, i cui eserciti, rispettivamente “scudieri” e “corvi”, nello stesso momento, si contendono la pianura circostante, si svolge una partita a gwyddbwyll (“il senso, o la saggezza del legno”, una sorta di gioco degli scacchi), che riflette l’andamento della battaglia, anche noi siamo capaci di ridurre il mondo intero al nostro piccolo tavolo da gioco.
Pure la guerra è un gioco, sia pur pericoloso, che deve necessariamente seguire delle regole. Quando Eretria e Calcide erano tra loro in acerrima lotta, nel VII secolo prima dell’era attuale, la lista delle norme prescritte, e depositate presso il tempio di Artemide, stabiliva l’ora e il luogo dello scontro, nonché le armi da impiegare, con la proibizione per fionde, frecce e giavellotti.
“…l’ombra di un’altr’ombra”
“Oh, Dio! Io potrei viver confinato/ in un guscio di noce, e tuttavia/ ritenermi signore d’uno spazio/ sconfinato, non fossero i miei sogni.”, proclama Amleto (atto II, scena 2) a Rosencrantz e Guildenstern; e quando quest’ultimo associa i sogni all’ambizione e l’altro introduce il paragone con l’ombra dell’ombra, risponde sinteticamente, con un sillogismo: chi non ha ambizioni ha sostanza corporea. Ebbene, il giocattolo è la sostanza corporea dei sogni!
“E’ tutto qui… i mattoni di cui è fatto il mondo… il monarca, la mano del destino, il principio e la fine.- scrive Alberto Manguel, in “Una stanza piena di giocattoli” (
Archinto, Milano 2012) – Questo guscio di noce è il mondo. Ciò che non è qui ancora non esiste” e non si trova da nessuna parte.
Mattoncini, meccano, blocchetti di legno, tessere di plastica a incastro, i giochi di costruzione rievocano una storia di ambizione creativa, quella della Torre di Babele, e del conseguente castigo, per cui il gioco non è completo se, dopo un prolungarsi all’infinito, non si distrugge.
Nei giochi di assemblaggio, si mette all’opera il mito del dr. Frankenstein con metamorfosi programmate oppure dalla separazione di pezzi difformi si prova a forgiare l’impossibile.
Consapevole di non poter essere che un iconoclasta, o tutt’al più un dio minore, al giocattolo si fornisce il registro dell’oggetto inanimato, che assomigli in qualche modo a qualcosa che potrà essere vivente o no, paragonabile o conforme. La prima tentazione è quella di contravvenire al secondo comandamento del decalogo biblico. Ma non “Perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso” (Es 20:5), bensì perché “Sono geloso di voi della gelosia di Dio” (2Cor 11:2), e devo prevenire che, nel giorno del giudizio, una qualche rappresentazione di vivente, giocattolo, idolo o feticcio, pretenda da me di procurargli un’anima.
Ogni Cabbage Patch Kids, ideata da Debbie Morehead e Xavier Roberts, vendute dal Babyland General Hospital di Cleveland (Georgia), è accompagnata da un certificato di adozione il qualee “responsabilizza” il suo possessore che su di essa avrebbe potere di vita e di morte.
Rabbi Loew
Nella Praga del XVIII secolo, Rabbi Loew plasmò un Golem col fango per poi restituirlo alla polvere, quando la creatura gli sfuggì di mano e volle agire per suo conto. Eppure, anche il timore ancestrale della ribellione da parte di un subalterno può far parte del gioco. Il dono del cavallo di Troia, temuto da Laocoonte (Virgilio: Eneide, libro II, versi 46-49: “Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes”), nasconde al suo interno il seme della distruzione.
La vicenda dello scultore Pigmalione (Ovidio: Metamorfosi, X, 243) che s’innamora della statua di Galatea, ripresa da George Bernard Shaw, ha dato modo a Robert Rosenthal di studiare il fenomeno della “profezia che si autorealizza” e a William Thomas di enunciare il seguente teorema: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”.
Il culto dei morti delle antiche civiltà, a partire da quella egizia, consisteva nel lasciare all’anima del defunto simulacri di oggetti con cui fingere di continuare la quotidianità trascorsa, o statuine, le cosiddette ushabit, che svolgessero i compiti più gravosi. E’ a queste radici che andrebbe ricollegata la tradizione del Presepe in cui ricorrono, in una mise en abîme, i paesaggi familiari e si svolgono i mestieri operosi in rappresentanza di tutto “un” mondo “confinato/ in un guscio di noce”.
La fiaba della Bella Addormentata ci dice qualcosa sia della storia delle mummie egizie come del gioco della bambola, specie quando è riposta nella sua scatola, quasi prigioniera di un incantesimo. Poupée, poppet, puppe derivano dal latino pupa, che designa la ragazzina, e la sua immagine, l’offerta votiva, il ninnolo e la crisalide. Uno stadio passivo tra la fase di larva e di immagine, “vale a dire un’entità in sospensione, – spiega Alberto Manguel, in “Una stanza piena di giocattoli” (
Archinto, Milano 2012) – una presenza latente, una vita implicita, qualcosa in procinto di esistere”. Per mettere in scena ciò che si percepisce della vita da adulti, o per fornire elementi per ribaltarla. Come nel sogno, nel gioco, i bambini sono tutto, sceneggiatori, registi, attori e pubblico e la loro interazione imitativa si mantiene sempre consapevole della finzione e dell’emulazione.
La leggenda narra come la statua dell’Artemide di Efeso sia caduta dal cielo nella stessa posizione (braccia distese lungo i fianchi e mani protese), in cui fu poi adorata per secoli. Busto e gambe erano cinti da un’attillata e ricca veste, i numerosi testicoli di tori a lei sacrificati alludevano ad altrettante mammelle, per richiamare forza e fertilità e prometterle ai veneranti fedeli per esaudirne ogni segreto desiderio.
Dopo tutto, è l’uso che determina il carattere delle cose, degli idoli, dei feticci o delle figure, come il gioco quello dei giocattoli. Il gioco ne costituisce la motivazione e dà loro movimento. Il gioco trasforma come una maschera, che permette di essere chi non siamo o chi veramente siamo nel nostro intimo. Indossare la maschera ci consegna una licenza per essere folli o per sognare a occhi aperti, mentre possiamo osservare non visti gli effetti che provochiamo agli interlocutori.
La maschera esprime, più di ogni altro strumento, la nostra segreta doppiezza; ci permette di vivere in parallelo le nostre identità nascoste in contemporanea a quelle che desideriamo palesare.
Mentre il bambolotto ci addebita la sua cura, la maschera ci deresponsabilizza, le azioni con essa compiute le appartengono interamente. E anche qualora nessuno la indossasse continuerebbe a svolgere una funzione autonoma di giocattolo-volto, che digrigna i denti, sorride sardonicamente, o fa una smorfia terrifica, pronto a impadronirsi del gioco.
Maschere-ritratto degli antenati provengono da civiltà relativamente arcaiche, come la micenea, la punica, l’etrusca. Consentono i bimbi che le portano l’identificazione e preservano i defunti dalla corruzione.
Alberto Manguel, in “Una stanza piena di giocattoli” (
Archinto, Milano 2012), ipotizza in extremis che i giocattoli siano una maniera per insegnare ai bambini come la vita sia dominata dall’effimero, in modo che presto si abituino alle immancabili perdite. E anche l’aldilà sarebbe stato proposto come consolazione che, qualunque sia la sottrazione, non possa essere eterna.
“Debole sistro al vento/ d’una persa cicala,/ toccato appena e spento/ nel torpore ch’esala.// Dirama dal profondo/ in noi la vena/ segreta: il nostro mondo/ si regge appena…” (da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale).
Nella Politica, Aristotele loda il sonaglio di Archita perché tiene impegnati i bambini più piccoli, “mentre l’educazione è un sonaglio per i giovani più grandi”. Una colomba di legno, vuota all’interno, riempita d’aria compressa, era l’uccello meccanico; una piccola ruota dentata fissata al bastoncino, la raganella, esiste tuttora e la molla, cui è congiunto un pezzo di legno, salta da dente a dente, gracchiando. Soltanto dopo vennero i carillons con le ballerine in tutù.…
Palla, cerchio o anello, pieno di semini, che risuona quando si scuote, è uno dei primi giocattoli che si affida ai più piccini, ma questo sonaglio ha uno straordinario potere magico che sconfina in quello dell’idiofono sistro isiaco.
“Le stelle lucevano rare/ tra mezzo alla nebbia di latte:/ sentivo il cullare del mare,/ sentivo un fru fru tra le fratte…/ Su tutte le lucide vette/ tremava un sospiro di vento:/ squassavano le cavallette/ finissimi sistri d’argento/ (tintinni a invisibili porte/ che forse non s’aprono più?…);/ e c’era quel pianto di morte…/ chiù” (“assiuolo” di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae)
In uno dei Vangeli apocrifi sull’infanzia di Gesù, proprio a lui viene rimproverato di non onorare il sabato perché con la creta stava abbozzando effigi di uccellini. In risposta, il piccolo messia li fece volar via.
Identificazione disidentificazione
Come lo scaffale dei libri letti e da leggere, o la disposizione dei fiori sul davanzale, giocattoli e giochi fanno di noi un intimo ritratto che riflette ogni cambiamento, e tutte le trascuratezze.
“…E’ l’amore che muore prima dell’oggetto amato. – scriveva François-René de Chateaubriand in La vie de Rancé (1844) – Dobbiamo riconoscere che i sentimenti dell’uomo sono esposti agli effetti di un lavorio occulto; febbre del tempo che produce la stanchezza, dissipa l’illusione, mina le nostre passioni, appassisce i nostri amori e muta i nostri cuori, così come muta i nostri capelli e i nostri anni”.
Il giocattolo preferito corrisponde all’oggetto d’amore ideale, l’unico che incarna ogni desiderio e rende possibile un’efficace soluzione consolatoria. Se scompare ci perseguita con la sua assenza, e, se ricompare, si ripropone come reliquia.
In ogni caso, occupa il doppio binario della finzione e della concretezza, dell’animazione e dell’immobilità.
Nella striscia a fumetti (Calvin and Hobbes) di Bill Watterson, un bambino di sei anni interagisce con il suo tigrotto di pezza, come se fosse vivo, mentre quest’ultimo, con tutti gli altri che non lo considerano, si comporta da normale pupazzo.
Bécassine, nella storia del fumetto considerata la prima figura femminile protagonista de La Semaine de Suzette, è divenuta un simbolo ambivalente. Nel 1979, il chitarrista bretone Dan Ar Braz si è sentito in dovere di rispondere negativamente (“Bécassine, ce n’est pas ma cousine“) all’affermazione di Chantal Goya: “Bécassine, c’est ma cousine“. Da giovane cameriera in costume tradizionale, bretone, tipico contadino, di colore verde, con cuffia in testa e zoccoli ai piedi, incarna ancora lo stereotipo del provincialismo, tanto che persino il nome deriva dal beccaccino, per i francesi, l’uccello semanticamente collegato alla stupidità.
La diffusione dell’orsacchiotto, pupazzo di pezza o di peluche, commercializzato da Margarete Steiff, sull’onda della popolarità del “Teddy Bear” disegnato da Cliffor K. Berryman, per parodiare Theodore Roosevelt, soprannominato “Teddy”, avrebbe un antesignano illustre, quanto antico, nell’incontro tra il civilizzato Gilgamesh e il selvaggio Enkidu, che dopo la lotta divengono amici inseparabili.
Per ogni cosa c’è il suo momento
Così come nel “poema del tempo” del Qohelet, “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire… un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare…”, c’è anche un tempo per il gioco e uno per il lavoro. “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole” (Qo 3,1).
Non si fa riferimento al tempo indeterminato e duraturo, bensì a un momento determinato, adatto e opportuno per qualche cosa. Il tempo del gioco è un momento a se stante, non scandito dalle convenzioni, perché non segue l’implacabile trascorrere dei minuti, né termina con la conclusione di una narrazione, che semmai andrà ripetuta. A regolarlo è la trama del gioco, il tipo di giocattolo, anche se poi è disposto ad accettare la legge attribuita a Eraclito (“Pánta rhêi h?s potamós”), mai riuscendo a riconquistare ciò che è passato. “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… chi ha dato, ha dato, ha dato..” canta la tarantella di pacificazione, scritta nel 1944 da Peppino Fiorelli e musicata da Nicola Valente.
La “cerimonia del tè” delle bambole ripete un canovaccio perenne come quello del “non compleanno” del Cappellaio matto nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll. “Nemmeno nei sogni le cose accadono in modo tanto voluto”! E quanto sembrava apparentemente imperfetto o raffazzonato si rivela dichiaratamente programmato, anche se, come nella soluzione dell’indovinello del Corvo (Raven), niente viene mai (never) disposto al contrario (nevaR).
mise en abîme
La “casa delle bambole” esprime la reiterazione della referenzialità di una “mise en abîme”. Le bambole stanno dentro le case delle bambole che, a loro volta, stanno dentro le case delle bambine che ci giocano. Un’immagine contiene una copia rimpicciolita di se stessa, nella quale, almeno apparentemente, potrebbe ripetersi all’infinito sempre la medesima sequenza.
L’effetto Droste trae origine da una marca olandese di cacao, e venne coniato dal poeta e giornalista Nico Scheepmaker per definire la ricorrenza di una piccola immagine di se stessa, localizzata dove dovrebbe trovarsi se si trattasse di un’immagine reale.
In araldica, uno stemma può comparire come scudo al centro di uno scudo più grande. Lo stemma del cavaliere inesistente, l’Agilulfo, creato da Italo Calvino, presenta due tendaggi che si aprono su di uno stemma recante, a sua volta, altri due tendaggi aperti su un altro stemma più piccolo, e così via fino al più piccolo dettaglio percettibile.
Un esempio di pittura ricorsiva, l’offrì Giotto nel Polittico commissionato dal cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi, rendendo nel verso visibile il trittico stesso offerto a san Pietro.
Questa ricorsione vale nella critica decostruzionista della natura intertestuale del linguaggio, in letteratura (“storia nella storia”, “narrazione dentro la narrazione” e meta narrazione), nel cinema (metaracconto e “sogno che si confonde nel sogno”), come pure nel collezionismo di scatole cinesi o nella matrioska russa, ideata da Mamontov, ma derivata dalle prime, forse attraverso una mediazione giapponese. Una bambola, definita “madre”, è cava e ne contiene un’altra: ogni pezzo si divide ed è vuoto al suo interno per ospitarne uno sempre più piccolo, fino all’ultimo che ne costituisce il “seme”. E qui la simbologia è fin troppo esplicita!
“giocattolo” o “gioco”
La distinzione tra “giocattolo” e “gioco”, ribadita da Walter Benjamin, ci ricorda come non sia il contenuto (giocattolo) a determinare il contenitore (gioco), ma viceversa. Il bambino non ha bisogno di un supporto specifico se vuole trainare qualcosa e immaginarlo come cavallo, cavaliere, carrettiere o carretto, se gli va di giocare con la sabbia può diventare muratore come pure fornaio, e se gli va di nascondersi impersona un ladro…
Robert Louis Stevenson lo esprime poeticamente in: “My bed is like a little boat;/ Nurse helps me in when I embark;/ She girds me in my sailor’s coat/ And starts me in the dark.// At night I go on board and say/ Good-night to all my friends on shore;/ I shut my eyes and sail away/ And see and hear no more.// And sometimes things to bed I take,/ As prudent sailors have to do;/ Perhaps a slice of wedding-cake,/ Perhaps a toy or two./ All night across the dark we steer;/ But when the day returns at last,/ Safe in my room beside the pier,/ I find my vessel fast” (Il mio letto è come un veliero:/ Chi mi cura mi aiuta a imbarcare,/ mi veste con panni da nocchiero/ e poi nel buio mi vede salpare.// Di notte navigo e intanto saluto/ tutti gli amici che attendono al molo,/ poi chiudo gli occhi e navigo via/ non vedo niente e non sento più// E a volte mi porto a letto qualcosa,/ come ogni buon marinaio deve fare,/ a volte una fetta di torta cremosa,/ a volte balocchi per giocare.// Navigo tutta la notte come in volo,/ ma quando infine il giorno è tornato/ salvo nella mia stanza, accanto al molo/ il mio veliero è di nuovo attraccato.” (traduzione di R. Mussapi).
Il medium di quest’esercizio fantastico-imitativo può assolvere tanto meglio alla propria funzione quanto meno questa divenga inequivocabilmente manifesta.
“Trovai essenziale avere giocattoli piccoli, perché il loro numero e varietà mette il bambino in grado di esprimere una vasta serie di fantasie ed esperienze. È importante, per tale scopo, che questi giocattoli non siano meccanici e che le figure umane, diverse solo per colore e misura, non indichino alcuna particolare occupazione. La loro grande semplicità mette il bambino in grado di usarle in molte situazioni differenti, secondo il materiale che vien fuori dal suo gioco. Il fatto che egli possa, così, presentare simultaneamente una varietà di esperienze e situazioni immaginarie o reali ci rende, inoltre, possibile tracciare un quadro più coerente del lavoro della sua mente. In armonia con la semplicità dei giocattoli, anche l’attrezzatura della camera da gioco è semplice: non comprende se non ciò che è necessario all’analisi”, diceva Melanie Klein nel ripercorrere la storia e il significato della tecnica psicoanalitica del gioco (“The Psychoanalytic Play Technique: Its History and Significance“, 1955).
Le scuole Waldorf seguaci degli insegnamenti di Rudolf Steiner, prediligono bambolotti senza lineamenti affinché l’animazione sia tutta a carico dell’infante.
Eppure, costituendo un regalo per piccini, i giocattoli assolvono più spesso al piacere che prova l’adulto nel comprarli e alle cui aspettative, esteticamente ed eticamente standardizzate e codificate, devono, loro malgrado, conformarsi. Ma l’imposizione limita la fantasia che sfugge alla disciplina e il gioco potrà fare a meno dei giocattoli per ridursi a correre, volteggiare, al girotondo o all’altalena, per inebriarsi della vertigine di quel moto perpetuo delle sfere celesti, perseguito inconsciamente.
Pantagruel o Gulliver
Giocattoli e giochi ci dicono chi siamo, perché simboli specifici d’identità. Maschi se giochiamo in un modo, femminucce se il giocattolo è un altro.
Il “Roy des Dipsodes”, invasori d’Utopia, Pantagruel (“tutto al contrario”), o Gulliver a Lilliput, sono forse i personaggi della letteratura che più hanno a che fare con il potere della finzione e la finzione del potere, con il dominio, l’obbedienza, la vendetta, la redenzione. Giganti tra pigmei, esibiscono il corpo come palcoscenico. E, solo quando Lemuel Gulliver ripara a Brobdingnag, avviene il compenso già contenuto nel nome del personaggio di Alcofribas Nasier. E il bambino diventa giocattolo alla mercé dei suoi “carcerieri” adulti.
All’inverso, pure i giocattoli possiedono una loro natura individuale, anche se nel corso del gioco, possono rivestirne altre. Nel loro insieme, i giocattoli costituiscono un repertorio autarchico. Ogni gioco non è che una rappresentazione, un teatro in cui si opera un atto di magia imitativa, come anche una parodia che mima qualcosa che si può fare sul serio. Il mago vuole imitare il processo creativo, il bambino ne mima la simulazione.
Linguisticamente giocare si associa a scherzo, beffa (in arabo la’iba), divertimento, risata (in ebraico sahaq), recita (in latino ludere, in inglese play). Ciò significa, contestualmente, che il gioco e i giocattoli si ripresentano nel mondo adulto, seppure ai margini. E questo distacco non ne riceve un guadagno. La conoscenza acquisita da adulti la si potrebbe definire “convenzionale”, in quanto implica un progressivo abbandono degli ideali, l’accettazione dei luoghi comuni, una certa limitazione del libero pensiero. Mentre per il bambino, la finzione non sostituisce ciò che è serio e vero. Realtà e immaginazione coesistono sullo stesso piano e si mantengono distinti. Un giocattolo è quindi un semplice oggetto e contemporaneamente un beniamino confortevole. Da questo punto di vista i bambini dimostrano di possedere una consapevolezza ben maggiore di quanti adulti si occupano di cose meschine.
I giocattoli sono, insomma, un tentativo di apprendere e familiarizzare, di esperire ed esplorare. Come un piccolo Adamo nell’Eden, il bambino si assume il gravoso compito di interpretare il mondo e attribuire il giusto posto, e il “nome” appropriato, alle cose che si trovano alla sua portata, perché sarà da questa “curiosità” che otterrà la misura della comprensione futura.
Giuseppe M. S. Ierace
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Ierace G. M. S.: https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/medioevo-simbolico-contrassegno-e-identita-nella-nascita-delle-arme-psicosociologia-dei-colori-e-del-riconoscimento-di-gruppo-funzione-magica-della-maschera/756/
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