Stalking: due anime in un solo nocciolo!

La parola stalking, deriva dal termine inglese to stalk ed è mutuato dal linguaggio venatorio, viene usato per riferirsi al comportamento del cacciatore, volto ad inseguire, appostarsi, braccare la preda e metterla poi nel sacco.

Un’immagine molto forte!

Ma cosa significa tutto questo, quando si tratta di esseri umani?

Quando sia la vittima che il cacciatore, sono persone e non animali da braccare?

Lo stalker di cui parliamo è un individuo che sotto una spinta irrefrenabile, adotta una condotta disturbante e tormentante, nei confronti di un’altra persona, che si vive come vittima di una condizione indesiderata.

Lo stalker o molestatore assillante è un cacciatore-persecutore, che invia messaggi, recapita lettere e regali, segue, spia, si apposta, bracca la sua vittima per metterla nel suo sacco, per ottenere ciò che desidera: riconoscimento, attenzione, risposte positive, condotte soddisfacenti per i suoi bisogni, vicinanza, legame, possesso, vendetta, ecc.

Per altro, non sempre il braccaggio si esprime con condotte esplicitamente violente, talvolta sono subdole o semplicemente indesiderate ed insistenti, tali da creare una forte pressione sulla vittima.

Lo condotta del molestatore, crea inizialmente scompiglio e sconcerto nel mondo della vittima, per passare poi ad uno stato di disagio, ansia, paura e impotenza. Alla fine la vittima si troverà a vivere in funzione del suo tormentatore, a cercare di capire chi è, cosa desidera, perché lo fa, come fare per evitare la sua presenza, i messaggi, il suo odio risentito, cambiando così molti dei suoi punti di riferimento, gli orari, le condizioni lavorative, i contatti, ecc.

Come visto da varie ricerche e dai dati, lo stalking non pertiene una categoria speciale di persone, ma attraversa tutte le età, i sessi, le condizioni socio-economiche, professionali, ecc. e va a svelare un processo relazionale, intrapsichico e intra-relazionale, che può nascondersi anche dietro insospettabili personaggi.

Ciò aggiunge ulteriore confusione.

In effetti, il fenomeno è così complesso che l’analisi, le osservazioni e gli interventi devono riguardare tanti ambiti, da quello concreto, a quello giuridico, emotivo, psicologico, sociale, educativo, ecc., l’intero universo dell’uomo nel suo quotidiano. Un fenomeno da osservare e trattare a trecentosessanta gradi!

Qui, ponendomi un obiettivo più limitato, vorrei soffermarmi su qualcosa di specifico, sul meccanismo sottile e psicologico che riguarda la relazione vittima-stalker.

Partiamo dalla condizione della vittima, che vive con angoscia le attenzioni dello stalker, ma soprattutto subisce passivamente la sua pressione psicologica e fisica, come se non avesse alcuna responsabilità e non potesse opporsi in alcun modo.

Di fatto, all’apparenza sembra che sia così, ma se andiamo ad indagare le dinamiche più profonde, forse scopriamo alcune sofisticate implicazioni, riguardanti entrambe i membri della relazione: persecutore e vittima.

Diamo un’occhiata a questa ipotesi, attraverso il film “Niente da nascondere” (titolo originale Caché) di Michael Haneke.

La scena si apre sull’immagine di una strada, in una mattina qualunque. L’inquadratura è fissa e duratura fino quasi ad annoiarci: qualche persona cammina, passa una bicicletta, un uomo esce di casa.

Stop! Rewind e …… iniziamo a comprendere, che non comprendiamo bene quale sarà la storia ed è proprio così, fino alla fine del film.

Una coppia (Daniel Auteil e Juliette Binoche) trova sulla porta, misteriose videocassette che ritraggono la loro vita fuori dalla loro abitazione, le uscite e le entrate, in sé e per sé niente di grave, se non fosse che svela la presenza di qualcuno, che li spia e li riprende.

Gradualmente le cassette saranno accompagnate da inquietanti disegni, telefonate, strani avvertimenti e il segreto nascosto (caché) inizia ad emergere: l’infanzia del protagonista è tragicamente legata a quella di Majid, un algerino figlio dei domestici di famiglia.

L’arrivo delle cassette mette in crisi il rapporto di Georges con la moglie e il figlio adolescente, lo costringe a fare i conti con se stesso e con il suo passato rimosso di bambino viziato, ricco e figlio unico. Il figlio dei domestici, rimane solo nella prima infanzia, a causa della scomparsa dei genitori e in seguito ad una serie di bugie di un Georges di 6 anni, il bimbo viene mandato in un orfanotrofio.

Majid, dopo aver ritrovato sullo schermo Georges da grande, ormai critico letterario conduttore di un programma TV, riattiva odio e vendetta e inizia la persecuzione, fatta di passi progressivi e incalzanti. La vendetta culmina con il proprio macabro suicidio, architettato e compiuto in modo che Georges ne sia lo spettatore, indiscusso ed esclusivo.

L’algerino perseguita in modo sottile l’antico compagno di giochi, ma per gran parte del film, Majid appare come la vittima e si vive come tale. Alla sua morte, il figlio espliciterà a Georges l’origine dell’odio e dell’invidia paterna: lui gli ha impedito una buona istruzione! Del resto gli istituti coltivano solo l’odio. Georges dovrà averlo sulla coscienza per tutta la vita!

Ed invece Georges, finalmente se ne libera, si libera di un segreto nascosto, di un senso di colpa pesante quanto un macigno enorme, reso intollerabile dal silenzio e dal nascondimento.

Il film ci aiuta a comprendere la dinamica dello stalking, perchè ci mostra la collusione inconsapevole fra vittima e persecutore. Il protagonista non ha realmente nulla da nascondere, eppure per tutta la storia aleggia il sospetto che abbia commesso chissà quale colpa inconfessabile.

E’ vero che per molto tempo, non racconta alla moglie il suo legame con lo stalker, ma per un senso di colpa infantile, legato a sentimenti di gelosia, che lo hanno portato a mentire. Era solo un bambino di 6 anni, improvvisamente obbligato a dividere i suoi spazi e i suoi oggetti con un altro bimbo più grande, che rischiava di sottrargli il primato di figlio unico.

E’ anche vero che la sua menzogna ha prodotto una serie di reazioni a catena, le cui conseguenze sono gravi, ma non sono altro che il frutto di qualcosa di già predisposto, è crollata solo la prima tessera del domino.

In fin dei conti, sono gli adulti (i genitori di Geroges) che non hanno capito, non hanno indagato e protetto e ancora prima, sono i genitori di Majid ad essersi esposti al rischio e ad averlo abbondato.

Eppure il tormentatore non riesce ad accogliere su sè i propri sentimenti, la responsabilità degli altri adulti (che vive come buoni) e la propria responsabilità. Dopo aver incolpato Georges, per tutta l’esistenza delle sue mancanze, lo incolpa anche della sua morte, pensata, preannunciata ed esibita in modo sadico.

In questa pellicola vediamo in modo più chiaro, il vissuto dello stalker, o di uno stalker abbastanza rappresentativo, che dopo aver subito delle dure vicende di vita, di separazione e perdita mai elaborate, vive sotto il segno della mancanza, della frustrazione, dell’odio e della vendetta, per qualcosa che in realtà non riguarda più gli altri, ma solo sé. All’inizio della vicenda, Majid era solo un bambino e ha vissuto situazioni traumatiche multiple, da cui non è mai uscito, quali la scomparsa dei genitori, la perdita di una casa nota, l’ingresso nell’orfanotrofio. Ha impiegato tutte le sue energie di bimbo e poi di adulto, ad odiare e vendicarsi, piuttosto che a curarsi, cambiare e vivere.

Dall’altra parte abbiamo una vittima, che poi così vittima non è. Il senso di colpa lo induce a colludere con l’odio del persecutore e lo porta proprio nella trappola disegnata per lui. Georges infatti, si reca a casa dell’algerino più volte, sottoponendosi a vari rischi, tiene segrete le vicende d’infanzia per gran parte della narrazione, rischiando di rompere il matrimonio, ma anche la dignità e credibilità professionale. Si sente in colpa e responsabile per quello che è successo molti anni prima. Lo spettatore stesso, guardandolo a distanza (la distanza dell’occhio della telecamera che lo riprende da fuori), sospetta di lui fino alla fine della pellicola.

Ma come ben mostra il figlio di Georges, nel credere rabbiosamente ad un equivoco banale riguardante la madre, i bambini e i ragazzi, travisano la realtà o gli forniscono un peso e un’interpretazione, non del tutto corrispondente. Così Majid, vede come unico responsabile della sua vita Georges e le sue piccole menzogne.

Vittima e persecutore, hanno segnato la loro vita, hanno creato un legame inscindibile, proprio a causa di una errata attribuzione di responsabilità. Il persecutore, pone come obiettivo unico della sua vita, la vendetta e la sofferenza e la vittima, mantiene il gioco persecutorio, proprio grazie al senso di colpa, determinato dalla vicenda infantile.

In linea con questo, ritengo che lo stalker non scelga mai la sua vittima a caso, c’è sempre un legame, più o meno sottile con chi subisce l’appostamento. Nel caso narrato dalla pellicola, il legame è esplicito, in molti altri non lo è, ma di fatto seppur invisibile, c’è un nesso.

Anche nel caso paradossale in cui il persecutore sceglie da lontano la vittima, senza neanche conoscerla, in realtà non individua mai la prima persona che gli si presenta, ma qualcuno che dall’immagine fornita, traduce qualcosa di sé, come insicurezza, solitudine, passività, bisogno, o qualunque altro elemento di rispecchiamento, che determina la scelta. Qualità che predispongono il varco, un’incrinatura, che diventa un passaggio per il molestatore ossessionato dalla sua preda.

Questo legame è ancora più evidente, se si pensa che la gran parte delle vittime di stalking, rientrano nella categoria degli ex, ovvero ex coniugi, ex fidanzati, ex amanti, ecc.

In questo prefisso “ex”, ci sta dentro tutta la qualità del legame persecutorio. Ovvero qualcosa che non c’è più, di perso e necessario, che il persecutore non riesce a tollerare, qualcosa che sta dentro ciascun membro della coppia: la natura del loro precedente e attuale incastro.

Un elemento comune ai vari persecutori infatti, è costituito da traumi passati  non elaborati, che rappresentano la nota dolente che risuona al momento dello scioglimento di una relazione, di un cambiamento importante, dove riemerge il senso di perdere nuovamente il controllo sull’altro e sul proprio mondo interno.

La vittima quindi, inscrive il proprio ruolo e responsabilità proprio all’interno di queste fratture non risolte del persecutore, andando ad assumere un peso eccessivo, rispetto a quanto effettivamente possiede.

Un esempio ancora più chiaro della responsabilità e della collusione della vittima, ce lo fornisce il film Ti do i miei occhi di Iciar Bollain. Ciò che ci interessa qui, è la dinamica della coppia.

Pilar infatti, dopo aver subito per dieci anni le violenze, fisiche, psicologiche e morali del marito Antonio, una notte dopo l’ennesima vessazione, fugge di casa col figlio, rifugiandosi dalla sorella. Questa volta è decisa a farla finita, c’ha già provato altre volte, ma questa sembra quella definitiva.

Il marito, dopo reazioni di rabbia intensa, cerca di riconquistarla con modi carini e regali romantici. Pilar, all’inizio titubante mantiene la sua decisione, ma dopo un pò, ancora fiduciosa sulla possibilità che lui cambi, ci finisce a letto, di nascosto (dalla sorella, ma anche dalla parte adulta e critica di sé) e lì rinnova il suo copione relazionale.

Fra loro c’è un gioco da sempre, si dichiarano il loro amore donandosi parti di sé: lei gli dona i suoi occhi!

Ed è proprio così. Lei rinuncia a vedere, nega la realtà dei fatti, concretizzati per anni e anni con botte, percosse e violenze di ogni tipo, di un uomo profondamente violento e incapace di dare. Una realtà che le si ripresenterà ben presto.

Lui le dona tutto, prende lei come oggetto esclusivo della sua vita e dei suoi interessi, tutto dipende da lei, da quello che fa, dice, da quanto lo ama e via dicendo.

Appena Pilar comincia a riprendere in mano le proprie aspirazioni, il lavoro, gli interessi, lui si sente abbandonato e furioso. Antonio geloso, ma anche invidioso dei suoi successi professionali, scatenerà tutta la sua violenza, denudandola totalmente e chiudendola fuori al balcone.

Solo lì, con la forza del dolore e della vergogna, Pilar aprirà realmente gli occhi, solo dopo l’ennesimo atto irreparabile. Lì, avviene dentro di lei, la rottura definitiva del legame patologico.

Questo film ci narra bene, una delle tante storie di umani perseguitati, molestati, aggrediti, violati nella loro integrità, nelle scelte, nella libertà.

Eppure, altrettanto frequentemente assistiamo al perpetuarsi dei legami persecutori e molestanti. La vittima, come Pilar, anziché sottrarsi e andarsene, rimane, subisce, accetta, giustifica, nasconde, ritenta, spera, si incolpa …..

Ma perché?

Forse perché c’è qualcuno, un tormentatore, che s’introduce violentemente nella vita di un altro, che impone la sua presenza anche se indesiderata, direte voi.

Sì, questa è una parte, la metà dell’uovo.

L’altra metà, è l’accesso ed il peso che diamo a certe condotte. La vittima continua a subire, perché il peso che offre al legame, il potere attribuito all’altro, al senso di colpa, di responsabilità, la lega in modo indelebile al suo tormentatore.

Ciò che risulta più difficile, non è allontanare il tormentatore nel concreto, ma farlo nel proprio mondo interno, rinunciare e liberarsi da quanto ci lega a lui/lei. Ed è proprio questo aspetto che rende difficile anche l’allontanamento effettivo, l’uscita di casa o dal raggio d’azione del persecutore.

Questo aspetto lo si vede bene nel caso della violenza intrafamiliare, dove di solito la moglie, subisce e perpetua la violenza con la propria passività, sente che non ha diritto di andarsene, che ha una qualche colpa nella condotta violenta e pensa di non potersi allontanare da lui.

Ricordiamoci inoltre che, la separazione e la perdita hanno lo stesso sapore del legame perso e della sua qualità relazionale.

La perdita ed il lutto, reale o simbolico, sono maggiormente gestibili ed elaborabili, se ciò che si è perso è un legame sufficientemente sano, tale da essere stato introiettato come nutrimento buono, capace di creare consolazione e nuovi buoni legami. La perdita di una relazione tormentante, sadica, deprivante, violenta invece, risulterà difficilmente elaborabile e lascerà l’interiorizzazione di mancanza, aggressività, depressione e modelli di relazioni sado-masochistici (DeZulueta).

Del resto, chi di noi in preda alla disperazione più totale, alla rabbia più furiosa, non ha mai pensato di aver voglia di picchiare qualcuno, di distruggere tutto, di mettere tutto all’aria, di farla pagare?

E cosa ce l’ha impedito? Cosa ci ha impedito di passare dalla fantasia all’azione?

Ciò che ci ha impedito di realizzare quelle fantasie, è stato il fatto di aver avuto in soccorso i nostri genitori interni, quella parte affettiva e protettiva, che nell’amore è riuscita a contenerci da bambini e che da adulti continua a fungere da protezione e nutrimento interno. Costituisce un contenitore che permette la tolleranza e l’accettazione, permette la convivenza con la frustrazione ed il dolore, senza subirne eccessivi traumi.

Comprendere questo significa scovare l’origini della violenza, la violenza che pesca nell’assenza infantile di amore continuativo e sano, un amore che può essere interiorizzato, che mette radici, quelle dell’amore, non dell’odio e della deprivazione.

E spesso capita proprio che ciascuno dei due, vittima e molestatore, scoprono la propria dinamica interna, la struttura e la frattura, attraverso l’incontro con l’altro, rinnovandolo con la separazione e la perdita.

Le ricerche (De Zulueta) rafforzano questi concetti dimostrando quanto la separazione induca sintomi spiacevoli, analoghi a quelli d’astinenza da oppiacei, dimostrando quindi l’importanza della relazione, nel suo nutrimento psicologico ma anche bio-chimico. La difficoltà nella separazione, tanto nel carnefice quanto nella vittima, sono tanto più forti quanto più intense le stimolazioni fornite nel legame, da contatto o da distanza.

Un legame tormentante è comunque fonte di molte stimolazioni, le persone implicate sono sempre alla prova, sono attive, pronte a cercare cause, scuse, giustificazioni, riparazioni, ecc. Un legame emotivamente tormentante, ma comunque eccitante, permette di fuggire dal vuoto, dalla depressione, da qualcosa di più interno e sgradito.

Infatti, dalle ricerche sullo stile di attaccamento, si evidenzia che le coppie di bambini dove si manifesta aggressività, abuso e sfruttamento sono quelle formate dal pattern A (ambivalente, nel ruolo di carnefice) e dal pattern C (ansioso, nel ruolo di vittima). Mentre i bambini con un attaccamento sicuro, non si sono rivelati né vittime né carnefici.

Questo ci dimostra oltre modo come ciascuno membro della relazione, fin da piccolo, reagisca e si relazioni con un partner che risponde ad un stile interiorizzato, ben noto.

Tra l’altro, la persona con attaccamento ambivalente (pattern A), ha avuto una madre rifiutante, quindi una sorta di lutto precoce di una madre buona e la persona con attaccamento ansioso (pattern C), avendo avuto una madre distanziante e poco solida, mantiene una dipendenza affettiva dal genitore e nelle relazioni affettive successive.

Allora forse è più comprensibile come tormentatore-vittima siano due anime in un solo nocciolo, siano due parti che danzano allo stesso ritmo. Per entrambe, questa dinamica è nota, seppur inconsapevole ed automatica. Il carnefice aggredisce, frutta e tormenta la vittima, che sente di aver bisogno e di non poter far a meno del suo tormentatore. Ognuno dei due, mostra di aver bisogno dell’altro ballerino ed entrambe mantengono il ritmo.

Questa visione più relazionale e intrapsichica, non costituisce una deresponsabilizzazione dello stalker, bensì un’accresciuta comprensione della sua dinamica e del bisogno profondo di essere aiutato nell’elaborazione di lutti antichi, di relazioni mancanti, che lo legano indissolubilmente alla vittima di oggi.

Nello stesso tempo, non si deve pensare ad un processo di colpevolizzazione della vittima, bensì ad uno spostamento di responsabilità e di potere. La vittima tende a viversi come totalmente impotente e incapace, ma non è così!

E’ importante ricordare che lo stalker è esso stesso una vittima e la vittima è essa stessa portatrice di potere e capacità, utili poter uscire dal legame tormentante.

Con tutto ciò, non voglio sminuire la concretezza delle cose, il peso dei lividi, delle botte, l’angoscia delle minacce e delle ingiurie, l’infrazione di leggi, l’invasione dell’intimità, la negazione di diritti, la sottrazione della libertà, ma cercare un punto d’incontro, fra sofferenza e possibili vie d’uscita.

E’ essenziale lavorare su entrambe i membri della coppia, così come appare fondamentale recuperare le risorse di ciascuno, in modo ottimale per il cambiamento personale e relazionale.

Come noto, la capacità riflessiva come intesa da Fonagy, ha un ruolo importante nelle relazioni ed in particolare sulle condotte violente. Si è visto che i genitori scarsamente capaci di riflettere sulle proprie esperienze d’infanzia, mettono in atto un allevamento insicuro e ambivalente.

Non è la drammaticità dell’esperienza infantile ad influire, ma la capacità o meno di rimaneggiarla da adulti, attribuendogli un senso e riducendone gli effetti. E più c’è rimozione o scissione di quanto è avvenuto, che impediscono la capacità di riflessione, più i figli vengono allevati con dinamiche contrastanti, che attivano pattern comportamentali aggressivi e violenti.

Questo sottolinea quanto sia indispensabile la mentalizzazione, uno spazio per riflettere su quanto ci è accaduto, sia per la vittima che per il carnefice.

La mentalizzazione, la riflessione, l’introduzione del pensiero che frena l’impulso, rappresentato un processo curativo per la persona in questione, per coloro che gli stanno accanto, per prevenire eventuali future vittime e ancora di più, per evitare di ritrasmettere alle future generazioni lo stesso modello di attaccamento e la stessa danza relazionale.

 

 

Dott.sa Sabrina Costantini*, Psicologa Psicoterapeuta, Presidente Associazione Oltre Tutto, operatrice Sportello Stalking Po.St.it (postazione stalking toscana) di Pisa, Tel. Sportello: 366 2753616, e-mail sportellostalking@gmail.com

Blog: stalking-fra-vittima-e-persecutore.over-blog.com

 

 

BIBLIOGRAFIA E FILMOGRAFIA

Angeli F., Radice E. (2009). Rose al veleno, stalking, storie d’amore e d’odio. Grandi Assaggi Bompiani.

De Zulueta F. (2009). Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività. Raffaello Cortina Editore.

Fonagy P. (2002). Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento. Milano, Cortina Editore.

Caviglia G. (2003). Attaccamento e psicopatologia. Dalla ricerca al lavoro clinico. Carocci editore.

Fonagy P., Gergely G., Jurist E., Target M. (2005). Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo di sè. Milano, Raffaele Cortina.

Icíar Bollaín. Ti do i miei occhi. Attori: Luis Tosar, Laia Marull, Candela Peña, Rosa María Sardá. Drammatico, durata 109′ min. – Spagna 2003

Michael Haneke. Niente da nascondere Attori protagonisti: Juliette Binoche,Daniel Auteuil, Annie Girardot, Maurice Bénichou,Bernard Le Coq. Drammatico, durata 117 min., 2005, Produzione: Francia, Germania, Austria, Italia.