La ripetizione rappresenta una costante della nostra vita, fonda l’automaticità e la serenità, di tante azioni quotidiane. Si tratta della ripetizione tipica dei rituali, che ci accompagnano ogni giorno nelle mille azioni da noi intraprese, da quelle vitali e salutari (mangiare, bere, cucinare, lavarsi, vestirsi, camminare, ecc.), a quelle legate alle necessità più infrastrutturali (lavorare, guidare, ecc.), a quelle sociali (salutarsi, scambiarsi convenevoli sul tempo, sulla salute, luoghi comuni, ecc.).
Insomma, certe azioni, frasi, pensieri ripetuti costantemente, si trasformano in elementi automatici e inconsapevoli, che vanno a produrre delle abitudini, una parte (spesso grande) della nostra vita.
L’abitudine (dal latino habitudo, habitudinis) rimanda alla struttura fisica o morale. Sta cioè ad indicare la disposizione o attitudine, acquisita attraverso la ripetizione d’esperienza. Arriva il concetto di qualcosa che, attraverso la ripetizione diventa una struttura, si concretizza e si incarna in noi, contribuendo a costruire ciò che siamo.
Comprendiamo quindi che la ripetizione e l’abitudine sono fondamentali per donarci una struttura, per dare una stabilità, solidità e sicurezza, a ciò che siamo e che saremo. Del resto pensiamo ad esempio all’importanza della ripetizione, per il neonato. Se non vivesse la continua esperienza di pianto-soddisfazione dei propri bisogni fondamentali (fame, sete, pulizia, protezione), sarebbe impossibilitato a sviluppare una propria idea di sé, un’impalcatura della propria personalità. Se successivamente, non sperimentasse ancora la ripetizione nella relazione, ad esempio nell’essere lasciato all’asilo e poi ripreso puntualmente, verrebbe oltremodo a mancare la possibilità di costruire un’immagine di sé di persona amata e amabile, nonché la fiducia in sé e negli altri. Infine, se non sperimentasse la ripetizione nel gioco, non potrebbe interiorizzare le regole, un contenitore presente e stabile entro cui muoversi serenamente e consapevolmente, in relazione con gli altri.
Nonostante ciò, esiste una ripetizione disorientante e dolorosa. Si tratta della ripetizione di una condotta che, anziché rassicurarci e solidificarsi, ci ferisce ed è distruttiva per noi. Mi riferisco ad esempio a tutte le condotte di dipendenza, da droghe, alcool, da videogiochi, da internet, dallo shopping compulsivo, dal sesso compulsivo, dalla pornografia, dal vomito, ma soprattutto alla dipendenza emotiva e in genere a tutte quelle condotte acquisite nell’infanzia, con grande valore adattivo nel momento in cui sono nate, ma con grande effetto deprivante, per l’espressione del proprio sé.
Sto pensando al gran dolore delle donne che, dopo tanto sforzo e sofferenza per liberarsi del loro carnefice, proprio quando cominciano a sentirsi al sicuro, si ritrovano ancora una volta risucchiate da quel filo, che le lega a quel lui in modo così prepotente e viscerale.
Sto pensando a tutte quelle persone che, dopo l’ennesimo fallimento amoroso, si ripromettono di non caderci più, di non farsi più fregare e quando meno se lo aspettano, vedono trasformarsi il partner, ritenuto così diverso, nell’ennesima espressione della stessa tipologia.
Sto pensando a tutti coloro che ancora una volta, si sentono fregati ed usati dagli amici, conoscenti, colleghi e si ripromettono che non accadrà più, mai più, quando all’ennesimo “si”, si accorgono che sono ancora lì e hanno intrapreso l’ennesimo giro di giostra.
Sto pensando al genitore che dopo aver picchiato nuovamente il proprio figlio, promette e si promette di non farlo più, quando poi una semplice frase, una bizza o un rifiuto, innesca il solito andamento.
Sto pensando a quel bicchiere di vino, disprezzato così tanto da giurarsi di non avvicinarvici più, che in un brevissimo attimo di disperante confusione, ritorna velocemente nelle proprie mani.
Ancora, sto pensando alle scommesse e quel gioco ripetitivo ed ossessivo, che non si può evitare, nonostante la realtà dei fatti ci mostra un progressivo impoverimento ed indebitamento, che porteranno a perdere beni e relazioni.
Sto pensando a quella quantità e varietà di cibo così disgustosa, affogante, insensata, inumana, che non vogliamo più, che in men che non si dica, finisce nuovamente e voracemente nelle nostre bocche e poi altrettanto velocemente e furiosamente nel nostro stomaco e poi ancora velocissimamente ma dolorosamente nel nostro WC.
Penso di aver dimenticato sicuramente, tutta una serie di condotte che fanno parte della condotta ripetitiva, non produttiva, dolorosa e disadattava. Ma questa è già una bella quota di esempi su cui riflettere.
Per essere oltremodo esemplificativi, pensiamo ad una forma esterna di dipendenza, come il fumo. Una sostanza che (pur essendo infinitamente più lieve, negli effetti e nel legame fisiologico di dipendenza, rispetto alle altre) determina un così forte legame con la nostra psiche, da rendere assai ardua l’astinenza.
Anche dopo molti anni (dieci, venti, trenta), il desiderio della sigaretta può tornare, quando meno te lo aspetti. Talvolta è l’odore del fumo, talvolta un gesto, un’abitudine associata (caffè, la guida, ecc.), una persona, una circostanza, un ricordo, un’emozione, una sensazione ad elicitare un tale desiderio. Di fatto, dopo tanti anni, ancora aneliamo qualcosa, di cui abbiamo effettivamente fatto a meno senza problemi per tanto tempo, ma la viviamo come se senza essa, non saremmo capaci di stare tranquilli, sereni, riposati, soddisfatti, pieni, ecc. Nonostante l’evidenza dell’esperienza trascorsa, ancora pensiamo che senza quella piccola cosa, quella sigaretta, saremo incapaci di vivere nella piena soddisfazione. Sì, perché sentiamo che c’è un buco dentro di noi, dentro la nostra esistenza e privarci di quella specifica piccola cosa, comporterebbe privarsi della possibilità di riempirlo, di essere pieni, sperimentando quella condizione di deprivazione costante e ineluttabile.
Ma di fatto, con o senza sigaretta, siamo comunque deprivati, perché viviamo l’ardente bisogno di quella specifica sostanza, senza la quale siamo incompleti e “privi”.
Da qui, la ripetizione di un meccanismo, di un gesto, di una relazione, di una modalità. Siamo schiavi e dobbiamo mantenere lo schema, perché angosciati dalla deprivazione e dalla mancanza.
La ripetizione di una modalità relazionale, di una modalità di affrontare il mondo, è assai analoga alla ripetizione di un gesto di dipendenza quale prendere una sigaretta, accenderla, fumarla, spegnerla, ecc.
Anche in questo caso la reiterazione forzata e obbligata, si scatena per una mancanza, per un vuoto. La deprivazione di uno dei bisogni e diritti fondamentali (quali il diritto di esistere, di essere se stesso, di essere amato, di essere visto e ascoltato), produce un meccanismo relazionale riparativo, il tentativo di ripristinare il guasto, di recuperare ciò che manca.
Pur non essendo efficace nel produrre l’effetto desiderato, verrà ripetuto e ripetuto e ripetuto infinite volte, perché è l’unica modalità trovata, per far fronte a questo senso di angosciosa assenza. Non serve, ma produce dei vantaggi momentanei, produce la sensazione di poter far qualcosa, di poter intervenire attivamente, di essere soggetto attore della propria vita e non unicamente vittima degli eventi.
Da qui emerge che queste forme di reiterazione, al contrario di quelle che fanno parte della routine rassicurante, non sono scelte e volute, ma sono una sorta d’imperativo, il prodotto di forze nascoste e sconosciute, appartenenti al nostro inconscio. Non la si vuole, non ci rasserena, ma non possiamo farne a meno e ci ritroviamo dentro, sepolti fino al collo.
All’interno di un setting terapeutico, la ripetizione di meccanismi relazionali, viene definita transfert e costituisce uno strumento fondamentale di conoscenza e terapia. Ma tale processo, non è affatto limitato al setting terapeutico, anzi quello è solo un caso particolare di una modalità usuale (Gabbard).
La ripetizione, ha sempre varie funzioni.
La prima, è rappresentata dal tentativo di risolvere quel dato conflitto, che ci angustia la vita. E’ come se, ripassando dalla stessa strada, con lo stesso ingorgo, ci cercasse per l’ennesima volta di uscirne indenni. Purtroppo inutilmente, perché se non è andata bene la prima volta, non andrà neanche la centesima volta. Infatti, il fallimento iniziale non è determinato da un caso fortuito, ma da una specifica modalità di vivere le cose, le persone, sé stessi e le proprie risorse, nonché da tutta una modalità di reazioni, pensieri, emozioni e comportamenti, scatenatisi più o meno automaticamente. Per cui, la convinzione più o meno inconsapevole, è che ripetendo un certo comportamento, sfruttando l’esperienza, avremo modo di cambiarlo. Di fatto poi non è così e non può esserlo.
La seconda funzione è data dall’espressione di un bisogno, costituisce cioè un modo indiretto per dire delle cose di sé. Facciamo l’esempio della persona che si avvicina sempre agli altri, lamentandosi delle proprie disgrazie. In questa costante ripetizione troviamo, non solo una qualità relazionale, ma anche una comunicazione su sé, questa persona ci sta dicendo quanto sia triste, sfiduciata, sola, bisognosa, ecc.
La ripetizione costituisce anche una modalità relazionale, ovvero uno schema inconsapevole di entrare in contatto con gli altri, basato su una serie di convinzioni riguardanti sé, il mondo, esperienze ed emozioni. L’esempio appena citato ci mostra una persona che probabilmente vede sé come poco attraente, simpatica, con scarsa capacità di attirare la simpatia degli altri, se non attraverso l’espressione delle proprie disavventure. Non si mostra chiaramente con le proprie difficoltà e con le proprie mancanze, che si tradurrebbe con una domanda più esplicita, diretta e onesta, bensì attraverso le aggressioni del mondo (mi è successo questo e quest’altro) e in seconda battuta appare lei come vittima, di un mondo pieno d’imprevisti incontrollabili e spiacevoli. Per cui, l’idea di sé di persona con scarso valore, si traduce nella richiesta di vicinanza in base ad un bisogno, scaturito dalle avversità della vita, particolarmente incanite contro di lei.
Ritornando alla prima funzione, potremmo pensare che questa persona, nell’infanzia non ha ricevuto la sufficiente attenzione, cura, valorizzazione, tale da farla sentire apprezzabile e amabile, per cui per essere vista e avvicinata ha sviluppato una sua strategia, si lamenta delle proprie disavventure, che si traduce nell’idea di essere sfortuna e di meritare per questo, aiuto e sostegno. Ma come non ha funzionato all’ora, non funzionerà neppure ora. In passato non si è sentita vista e amata, parimenti oggi non si sentirà amata, neanche con questa supposta espressione di bisogno.
La ripetizione, assolve le ulteriori funzioni di svalutazione e resistenza. Si parla di svalutazione (per lo più inconsapevole) dell’altro, che non viene visto per ciò che è realmente ma per ciò che abbiamo bisogno sia, quindi non esiste in quanto individuo a sé stante ma come personaggio della nostra trama interna.
Inoltre, costituisce una resistenza, rispetto al cambiamento. Continuare a girare nello stesso circuito, ci impedisce di trovare delle strade alternative, migliori o peggiori che siano. Si mantiene così, lo status quo in cui ci troviamo, al riparo dal rischio e dall’azione. E più gli altri ci spingono a cambiare, più si “resiste” e si mantiene tutto inalterato, talvolta ci si sforza anche, ma senza nessun reale mutamento.
La resistenza e la negazione di alcuni contenuti emotivi, arriva ad essere incarnata persino nel corpo, nel senso che gli impulsi vissuti come troppo dolorosi, sono bloccati grazie e attraverso le tensioni somatiche e psichiche (Lowen). E’ doloroso succhiare un seno, quando non c’è nessuno a disposizione, stendere le braccia quando non c’è nessuno da prendere, piangere quando nessuno vi presta attenzione. Stringendo le labbra, serrando le mascelle e contraendo la gola, i bambini possono bloccare il desiderio e attenuare il dolore di un bisogno che non sarà mai soddisfatto. Quei bambini, da adulti saranno ancora bloccati inesorabilmente, quest’esperienze passata infatti, determina una modalità di stare in relazione e di costruire la propria personalità, compreso nella struttura corporea, nella postura e nella qualità del movimento (in termini di scioltezza, di forza, di energia, di vitalità, ecc.).
Ecco perché dalla postura, dalla posizione del corpo nello spazio, dal movimento, dal tipo di articolazione, dagli azioni, si evincono molti aspetti della personalità, ma soprattutto i blocchi energetici e le loro possibili origini.
Dobbiamo ricordare il radicamento, l’importanza e la consistenza di certe azioni ripetute. Per questo motivo, il cambiamento è particolarmente difficile e lento. In effetti, la condizione somatica interna ed esterna, costituisce la risposta adattiva ai traumi e alle mancanze ricevute, quindi a suo tempo ha acquisito una forza e una resistenza elevata. C’è poi da dire che queste risposte sono adattive e protettive rispetto all’emotività, cioè ci evitano il dolore e la sofferenza che pensiamo ci distruggerà, ma non lo sono rispetto alla vitalità. Pensiamo ad esempio al bambino prima citato, che ha imparato a serrare le mascelle e le labbra per evitare l’emergere di un desiderio che confronta con la frustrazione, forse sarà al riparo da tutto ciò, ma la rigidità e la chiusura della sua faccia, della bocca, gli impediranno da piccolo e da grande, di far entrare ed uscire con libertà e scioltezza, tutto ciò che viene da fuori e da dentro (aria, cibo, parole, amore, ecc.).
Siamo di fronte al conflitto di fondo, da una parte la ripetizione dell’essere costituisce una strategia di salvaguardia rispetto alla sofferenza, dall’altra costituisce una restrizione, una perdita di vita, vitalità, energia, potenzialità e possibilità
Ecco che nonostante i molti tentativi di cambiamento, in termini di tempo, energia, strategie, mezzi, alla fine si deve cedere alla consapevolezza della propria condizione, della continua ripetizione forzata. Si fa tanto, ci si sforza infinitamente, per poi non andare da nessuna parte, ci ritroviamo sempre allo stesso punto, con conseguente sofferenza, sensi di colpa, impotenza ed senso di inutilità.
Ancora attaccati a quella sigaretta, ancora col bicchiere in mano, ancora a pronunciare quel sì, ancora con quel partner maltrattante, ancora a svuotare il frigo, ancora ancora ancora …….
Per quanto ci addolori, ci sconcerti e ci sorprenda ritrovarci allo stesso punto, allo stesso errore, alla stessa cogente delusione, non si può far a meno di continuare la danza. Come per un danzatore esperto, i passi sono automatici e ormai quasi inconsapevoli, così i passaggi relazionali, sono come una danza appresa molti molti anni prima. Se vogliamo cambiare ritmo e partner, è necessario un lavoro importante di auto osservazione, consapevolezza e ricerca di strategie alternative. Si deve tener presente entrambe i lati del conflitto, le due parti di noi e anziché continuare a farli lottare l’uno con l’altro, metterli d’accordo, creare una sinergia esplosiva e curativa.
Di fondo occorre una bella dose di coraggio e di forza, per andare ad attraversare sé stessi, per scoprire qualcosa di sé così inaspettato, spiacevole, deprecabile, orrendo, spaventoso! Oltrepassare quelle resistenze al cambiamento e le mille paure sottostanti, i tremori, i dubbi, le sospensioni e le spiacevoli incertezze. Dobbiamo andare incontro alla nostra ombra: a tutto ciò che disprezziamo, deploriamo, odiamo e di cui siamo schifati. Sì, tutto ciò ci appartiene. Sembra strano, imprevedibile, improponibile, assurdo, ma è così! Noi siamo anche tutto ciò.
Una parte di noi, non è così altruista e disinteressata come crediamo, una parte di noi, quella in ombra appunto, perché deprecabile e non esprimibile, è egoista, sfruttatrice, manipolatrice, perversa, tornacontista. Che ci piaccia o no, è così.
Dobbiamo accettarlo e andar oltre il giudizio. Se questi aspetti albergano in noi, significa che ci sono serviti per sopravvivere, per proseguire nel nostro percorso di crescita. Non vuol dire che sono caratteristiche desiderabili, ma che in quelle circostanze, con quelle persone accanto, con quegli esempi, con le risorse a disposizione, quanto abbiamo trovato per cavarcela è stato proprio quello: il raggiro, la menzogna, il calcolo, l’uso, la strumentalizzazione, la passivizzazione, il masochismo, il sadismo, la violenza, ecc.
Ebbene? Questo è stato! Vogliamo continuare a nasconderci a noi stessi? Vogliamo continuare a sforzarci, di mostrare ciò che non siamo?
Forse conviene guardare e accogliere. Come prima conseguenza, potremmo vivere un gran senso di pace e rasserenamento. Potremmo cominciare a far pace, con noi stessi. Non dobbiamo più vergognarci di noi, non dobbiamo più nasconderci.
Non di meno, potremmo anche smettere di essere così tanto arrabbiati col mondo, non più così terribile e pericoloso. Forse il mondo, fatto da tante persone come noi, in realtà è pieno di quelle caratteristiche che ci appartengono e forse non è per aggressione verso noi, ma per propria incapacità, per inconsapevolezza, per ripetizione delle proprie figure interne.
Alla fine, forse il dolore più grande risiede proprio nella ripetizione, successiva alla comprensione. Ci aspettiamo cioè che, non appena lo abbiamo visto e compreso, tutto ciò che non ci va sparisca magicamente. Ma sta proprio lì, la prova della nostra accettazione, non basta comprendere ma si deve anche saper tollerare nel tempo e col tempo.
Ci si sforza tanto di cambiare, di non ripetere, di essere un “essere” diverso, di fare le cose come dovrebbero, di amarsi e rispettarsi, per quanto si lavori e si peni, poi quando meno ce lo aspettiamo ripiombiamo in quel vecchio meccanismo. Di giorno possiamo tentare di controllare ogni minimo dettaglio, ma la notte quando i freni inibitori vengono meno, esce l’impensabile, il mostro, tutto ciò che abbiamo tenuto a bada con fatica immane.
Del resto se vogliamo tenere la tigre in gabbia, dobbiamo pensare che la addomestichiamo, la rendiamo più mansueta, ma non smetterà mai di essere una tigre, sarà solo una tigre sedata. Forse val la pena di rispettare la sua natura e lasciarla libera di correre e andare dove vuole, qualora lo desiderasse, sarà lei a tornare e solo così avrà un senso nuovo.
Ricordo che tutti i nostri meccanismi, ormai sono danze automatiche, che hanno delle importanti funzioni. Anche se tale funzioni non sono più ottimali alle necessità presenti, sono però radicate in noi, sono ancora legate a pensieri irrazionali, incongruenti e costituiscono l’unico modo che conosciamo di esprimere noi stessi, di chiedere aiuto, amore, attenzione, di fare le cose, di realizzare i propri progetti, di stare con gli altri. E’ la certezza che non soffriremo, che non saremo esposti a quel dolore, che crediamo ci spezzerà!
Per cui, prima di scardinare tutto ciò, è importante un lento lavoro di rivisitazione del concetto di sé, delle emozioni e delle modalità relazionali. Infatti, i cambiamenti veloci, talvolta nascondono falsi cambiamenti, resistenze ed il doloroso ritorno alla condizione antecedente. Paradossalmente, siamo radicalmente attaccati alle vecchie modalità, convinzioni, idee ed emozioni, che ci hanno fatto soffrire così tanto. Hanno costituito le nostre compagne di percorso fino ad ora, ci hanno accompagnato e salvato, ormai fanno parte di noi ed è assai complesso rinunciarvi di punto in bianco. Noi siamo quello, o meglio, noi crediamo di essere quello! Sradicarle, comporta quindi la perdita del senso di identità, continuità, senso. Costituisce un grande rischio di disintegrazione della personalità.
Per lo più, non è un pericolo reale, ma anche in questo caso, si tratta una nostra convinzione erronea. Può succedere però, che se sotto c’è una personalità non sufficientemente strutturata, l’assenza dei vecchi meccanismi potrebbe portare ad una tale privazione, un tale vuoto e disorientamento, da rischiare di cadere in condotte ancora più nocive, senza riuscire ad uscirne indenni e rapidamente.
In visione del meccanismo proiettivo, spesso noi non rispondiamo a quella persona per ciò che è, ma per ciò che vediamo, per ciò che proiettiamo in lei. Talvolta sarà nostro padre, nostra madre, nostra sorella, la zia, il nonno, l’insegnante di latino, l’orrenda vicina e così via. Nei confronti di noi stessi, applichiamo la stessa modalità, non ci vediamo, vediamo ciò che ci siamo convinti di essere e anche le esperienze disconfermanti, non saranno sufficienti a destarci da quel torpore.
Nello stesso modo, capiterà di compiere azioni che non avremmo mai pensato, di cui ci sentiremo disturbati e turbati, quasi non fossimo noi. In effetti è un po’ così, non siamo noi, in base a ciò che scegliamo di essere consapevolmente, ma siamo attori di quel copione, deciso tanti anni fa, quando le cose che avvenivano, le subivamo senza ben comprendere cosa ci stava capitando. Il disorientamento nasce soprattutto dall’inconsapevolezza e dalla discordanza fra la nostra motivazione conscia e quella inconscia, fra i nostri obiettivi evidenti e quelli nascosti, fra ciò che conosciamo di noi e ciò che ignoriamo.
Capiterà quindi, che nella nostra idea di noi siamo persone per bene, responsabili, attente, amorevoli, ecc., ma nella realtà potrebbe non essere così, potremmo essere sadici che giustificano la propria aggressività dicendo che lo si fa per il bene di qualcuno, per proteggerlo, per evitargli ulteriori problemi. Potremmo anche pensare di essere vittime inconsapevoli della violenza degli altri, di non meritare tutto ciò, quando in realtà il proprio masochismo esprime una modalità silente di aggressività verso gli altri, che istiga una contro aggressione. Le combinazioni e le possibilità sono veramente infinite.
Quando noi diciamo “in quella circostanza, con quella persona, ci siamo buttati via”, neghiamo ciò che è stato e che siamo stati, esprimendo un duplice concetto. Da una parte neghiamo noi stessi nel suo complesso, ci innalziamo ritenendoci narcisisticamente migliori, eccezionali, di meritare di più e di meglio. Il partner viene denigrato e svalutato, come se incarnasse le qualità peggiori di quell’esperienza avuta, come se fosse il nostro “uomo nero”, il carnefice. Ma in questo modo non ci vediamo anche nelle nostre ombre e non ci vediamo nella nostra responsabilità, di avere scelto quella situazione e quella dinamica: anche a noi serviva e ci siamo stati dentro. Dall’altra, mostriamo il nostro ideale dell’io, l’ideale di noi stessi, ciò che vorremmo da noi, che suona anche con ciò che dovremmo essere. E’ una sorta di “imperativo morale”, una pretesa che avanziamo da noi stessi e si fonda su una serie di convinzioni circa la via da seguire, molto vicina alla perfezione e alla perfetta bontà di una data visione di sé! Assai dubbia, direi, perché culturalmente e soggettivamente determinata, oltre che impossibile.
Comprendo bene il senso di scoraggiamento, il dolore e la delusione della ripetizione, comprendo anche l’ansia di voler cambiare velocemente ed in modo indolore, ma la lentezza del cambiamento è protettiva, ci fornisce quel tempo di cui abbiamo bisogno per ricrearci e re imparare nuovi passi di danza, nuovi ritmi, per sperimentare qualcosa di sé non conosciuto prima, per verificarsi in queste nuove dimensioni.
Inoltre paradossalmente, la ripetizione è un meccanismo fondamentale per il cambiamento. In terapia (Lowen) la ripetizione assolve un’importante funzione, il paziente ha bisogno di rivivere l’esperienza rimossa, di rivivere la relazione perturbante, nella situazione terapeutica. Il risperimentare, il rimettere in atto, attraverso il transfert e l’agito, costituiscono due modi unici e indispensabili per conoscersi e farsi conoscere dal terapeuta, in tutta pienezza, si vede nel qui e ora, ciò che è stato e ci è capitato nel là e allora. Non di meno costituisce la vera spinta al cambiamento, perché il terapeuta che aiuta a mettere consapevolezza e chiarezza, introduce appunto la possibilità di una nuova risposta. Si ferma l’incastro e inizia un nuovo passo di danza.
Noi ripetiamo in ogni contesto, compreso la terapia, noi non possiamo che portare in giro il nostro “essere”, con il suo modo di parlare, gesticolare, atteggiarsi, respirare, baciare, piangere, lavorare, ecc. Il nostro essere ripete sé, si presenta per quello che è e grazie a questo si creano infinite possibilità di uguaglianza e di cambiamento, in terapia e fuori dalla terapia.
I bocconi amari devono essere digeriti uno per volta. Smascherarsi troppo prepotentemente, potrebbe essere troppo umiliante e denigrante per la propria dignità e tolleranza. E’ importante che le cose, procedano secondo i naturali tempi di de-apprendimento e nuovo apprendimento. A sua volta il nuovo che sostituisce il vecchio, necessita anch’esso della ripetizione, questa volta sana che permette l’acquisizione consapevole e solida.
Il cambiamento necessita della ripetizione delle nuove strategie, modalità e convinzioni, in momenti, modi e con persone diverse. Il consolidamento richiede impegno, costanza ed esperienze.
Nuovo e vecchio, innovazione e ripetizione del proprio essere, devono formare un andamento articolato e costante.
Non abbiamo fretta e diamoci il giusto tempo per il cambiamento. Il nostro essere è e sarà solo sé stesso.
BIBLIOGRAFIA
Gabbard G.O. (2007). Psichiatria psicodinamica. Quarta Edizione. Raffaello Cortina Editore.
Gabbard G.O. (2003). Amore e odio nel setting analitico. Astrolabio Ed.
Lowen A. (1982). Paura di vivere. Astrolabio Ed.