Blaise Pascal è stato un grande filosofo francese vissuto nel 1600: dotato di una straordinaria capacità riflessiva, oltre alla filosofia, Pascal coltivava con passione lo studio della fisica e della matematica, … a soli diciotto anni ha creato una delle prime calcolatrici, detta appunto ‘Pascalina’.
Ciò che mi ha colpito e mi ha portato a scrivere di lui è la riflessione che quest’uomo ha dedicato alla psiche umana: questo suo focalizzarsi sulla dimensione dell’angoscia, del turbamento dell’animo, sull’inconsolabilità di alcuni momenti nei quali tutti ci troviamo a vivere, in determinate fasi della vita. L’analisi che Pascal fa della mente è acuta, fine e decisamente molto attuale, dal momento che pone l’accento sulla tendenza a sentirci sempre insoddisfatti, smarriti, inquieti e ‘vuoti’ di fronte ai grandi temi dell’esistenza: a cosa mi riferisco? Per esempio al fatto che da un certo momento in poi il nostro corpo non esisterà più, e non sappiamo se continueremo ad esistere sotto forma di anima, iguana o amanita phalloides, se saremo in grado di osservare dall’alto quelli che resteranno sulla terra, al momento di passaggio che ci farà lasciare la vita e passare altrove e tematiche di questo genere.
Al di là della soluzione religiosa che Pascal ritiene l’unica, autentica via d’uscita dal male di vivere, vorrei soffermarmi sul concetto di divertissement, una parola francese che racchiude un concetto utile alla riflessione.
Nella maggior parte dei casi, nota Pascal, gli esseri umani tendono a non pensare ai grandi problemi esistenziali (il senso della vita, il male, la malattia, la morte): le persone comuni preferiscono distrarsi, pensare ad altro, immergersi nelle mille incombenze e occupazioni che, ogni giorno, ci vedono protagonisti. Questo è il senso del divertissement, inteso come “distrazione”, “diversione” ma non come spasso o divertimento nel significato italiano del termine: le nostre giornate trascorrono piene di impegni e pensieri e guai a fermarsi un attimo … perché chi si ferma è perduto, o può perdersi. Questo meccanismo è molto noto a noi specialisti della salute mentale in quanto è proprio in occasione dei periodi festivi, quando si interrompono le abituali attività lavorative, che riceviamo il maggior numero di richieste d’aiuto.
Uno dei maggiori vantaggi nel tenersi sempre occupati, sostiene sempre Pascal, è che ciò ci distrae da pensieri che potrebbero angosciarci, da domande alle quali non sappiamo rispondere, dal senso di annichilimento che potrebbe derivare, per esempio, dal pensare che il nostro essere al mondo passerà pressoché inosservato a tutto il resto del globo terracqueo. La nostra precaria condizione ci viene costantemente propinata dai telegiornali: calamità naturali, guerre fratricide, germi patogeni che attraversano continenti, barconi alla deriva, crack finanziari, esplosioni di centrali nucleari … questi drammatici eventi sono sempre lì, in prima fila, a ricordarci che non siamo eterni, un costante memento mori (‘ricordati che devi morire’, un motto latino che spesso torna anche ai giorni nostri). Se ci fermassimo ogni volta a pensare a tutto questo, scivoleremmo velocemente in un agghiacciante, desolante senso di impotente nullità. “Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte”, recita il nostro filosofo (Pascal, Pensieri, 437).
Se, al contrario, trascorressimo buona parte delle ventiquattr’ore a pensare alla condizione dell’uomo e ai vari quesiti filosofici che da sempre hanno animato la conoscenza umana, non ne usciremmo vivi: saremmo cronicamente abbattuti, con l’umore orientato in senso pessimistico, devastati da una guerra interiore e pure devastante.
Secondo il filosofo francese, il divertissement, la distrazione, non è la soluzione al problema, in quanto rappresenta una costante fuga da se stessi: e neanche la filosofia può aiutarci a vivere bene. La risposta, come accennato poco sopra, è secondo Pascal nella fede cristiana, corredata dalla ben nota ‘teoria della scommessa’.
Cogliamo la palla al balzo, procedendo la riflessione in direzione di una via laica e in chiave psicologica: le due posizioni sono entrambe impossibili. Negare sempre e comunque la fragilità insita in ognuno di noi, buttandoci a capofitto nei nostri ruoli familiari, sociali, professionali rischia di farci scontrare improvvisamente con una durissima realtà: quando gli eventi della vita ci costringono a fare i conti con i lutti più gravi, le delusioni più scottanti, i nostri limiti, il pericolo è la caduta in picchiata … e senza paracadute. Come ho illustrato poco sopra, anche pensare sempre alla precarietà della vita non ci aiuta a combattere quando siamo in trincea perché saremmo troppo deboli e privi di difese. Ma allora, qual è la soluzione? La ricetta magica, la frase da ripeterci per uscire dal labirinto?
Una domanda, quella relativa alla ‘soluzione’ rapida e indolore, che noi terapeuti siamo spesso costretti a subire, specie nei primi colloqui di consulenza. Su questo, gli approcci psicologici si mostrano abbastanza d’accordo tra loro: non c’è, non esiste UNA soluzione, tanto meno una scorciatoia da imboccare per evitare i momenti critici in cui ci sentiamo crollare e non sappiamo a cosa aggrapparci, ma poterci aggrappare a noi stessi è già una enorme risorsa, e non tutti ne hanno coscienza.
Se ammettiamo di avere un problema e chiediamo aiuto, ci troviamo già sulla strada giusta. Se siamo abbastanza ‘corazzati’, se nei momenti liberi non ci siamo limitati a sprecare il nostro tempo o a confidare in un miracolo nell’illusione di alleggerirci la vita ma abbiamo avuto la forza di guardarci dentro (anche con rabbia e dolore, naturalmente), di osservare i nostri ‘buchi neri’, se abbiamo trovato il coraggio di cambiare quando le vecchie soluzioni si sono rivelate fallimentari, le cadute che la vita ci presenta possono essere improvvise e molto penose, ma non possono disintegrarci. Non ci frantumiamo in mille pezzi come un vaso di ceramica cinese se la nostra partner ha deciso di intraprendere un cammino esistenziale senza di noi o se i nostri progetti procedono in modo diverso da come ci saremmo immaginati. Perché è proprio di disintegrazione che stiamo parlando, è esattamente a quella che si riferisce il nostro amico Pascal e con lui molti altri filosofi (pensiamo solo a Friedrich Nietzsche o anche agli esistenzialisti): si tratta dell’annichilimento al quale un essere umano può rischiare di andare incontro quando, durante la vita, si ferma e non vede altro che il precipizio, il vuoto, l’abisso.
Le differenze costituzionali e caratteriali giocano senz’altro un ruolo importante, quando dobbiamo combattere contro i nostri fantasmi: ma se siamo disposti al dialogo e al cambiamento, abbiamo sicuramente molte più probabilità di rafforzarci, per guardare il nostro nemico interiore nelle pupille e sbaragliarlo, anche con un semplice sorriso o grazie alla forza dell’ironia. Un percorso di psicoterapia è anche questo, e non è esclusivo appannaggio di individui etichettati nosograficamente come ‘depressi’, ‘ansiosi’, ‘bulimici’, ‘perversi’: la terapia psicologica è un modo per incontrare se stessi, abbracciarsi, imparare a volersi bene come ci hanno amato le persone che si sono prese cura di noi durante la nostra infanzia e che ricorderemo sempre con affetto. E, concludendo con Pascal, vi provoco: scommettiamo che ci riuscite anche voi?
Dott.ssa Giorgia Aloisio
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