Il mito del “volere è potere”

Il nostro comportamento è frequentemente distinto, in situazioni conflittuali, dal riproporre gli schemi mentali ed i modelli d’azione che hanno contribuito, in modo significativo, alla genesi del conflitto. O, quando le origini del dilemma sono esterne al soggetto, dal ripetere ossessivamente la scelta meno idonea a dipanare il nodo. Rendendolo perciò ancora più ingarbugliato.

Tale dinamica trova spiegazione in molteplici fattori sia di origine intrapsichica che relativi a distorsioni cognitive, ossia a modi di pensare basati su disinformazioni e luoghi comuni tanto stantii quanto rischiosi per il proprio- ed altrui, in taluni casi- benessere materiale ed immateriale.

Tra questi, emerge il famoso (famigerato) detto “volere è potere”, che trova traduzioni in semplicistici slogan ad effetto – tipo “se vuoi, puoi”- utili ai guru del cambiamento per rimandare al soggetto, che è direttamente alle prese con il dilemma, tutta la responsabilità della sua condizione e celare, così facendo, l’incapacità a dare effettivo sostegno.

Si tratta di dinamiche che coinvolgono singoli individui, gruppi ed intere organizzazioni.

Da qualche decennio, anzi, proprio il mondo del lavoro è il palcoscenico dove i seguaci del “volere è potere”, declinato nelle sue molteplici forme, mettono in scena le loro scintillanti performance.

Eppure le complessità che quotidianamente affrontiamo come soggetti privati (in famiglia, con il partner, nel sociale, ecc.) e/o come professionisti dovrebbero farci dubitare di formule magiche e di soluzioni fatte di slogan, vuoti come la maggior parte degli slogan.

Altrettanto sarebbe lecito che accadesse all’interno delle Organizzazioni, i cui assetti tradizionali sono messi in discussione, ormai da anni, da fenomeni micro e macro-sociali, micro e macro-economici. Condizione, questa, che dovrebbe aumentare le pretese degli Imprenditori verso chi si propone loro come portatore di soluzioni.

Sia chiaro: non si stanno enfatizzando lunghe e aggrovigliate procedure terapeutiche, siano esse  rivolte all’individuo singolo  che destinate ad un’Azienda. La complessità, in uno scenario sociale e professionale (locale e globale) così repentinamente mutevole come quello odierno, richiede anzi interventi essenziali, mirati, focalizzati sul problema. Proprio per questo motivo diventa indispensabile stabilire in modo chiaro ed inequivocabile premesse, contenuti ed obiettivi dell’intervento stesso.

In questa prospettiva, “volere è potere” (e tutti i suoi derivati), assunto come premessa e guida di un percorso di cambiamento, rischia di produrre significative distorsioni, con laceranti ricadute sul destino di singoli e collettivi.

Non è certo il caso di controbattere ricorrendo all’affermazione, tanto prevedibile quanto dotata di sostanza, “Bastasse, la volontà!”. Giova, invece, riflettere sul fatto che “se vuoi, puoi” è la convinzione che più di altre alimenta la tendenza del tutto umana a reiterare quei comportamenti che risultano più agevoli da realizzare, per quanto disfunzionali possano essere. Anche quando l’esortazione si riferisce all’invito a cambiare.

Lo slogan, di fatto, al di là di ogni dichiarazione d’intenti da parte di chi lo propina, radicalizza la “pigrizia” delle persone – e delle Organizzazioni – ovvero la loro resistenza al cambiamento stesso al punto che, come accennato, il cambiamento viene declinato semplicemente con il fare il contrario di quello che si è fatto fino a quel momento (il che, si sa, non è necessariamente la cosa giusta da fare). Lo slogan alimenta, dunque, la svalutazione di sé e degli altri su cui si fonda, il più delle volte, la resistenza al cambiamento e l’adozione di modelli comportamentali noti, a prescindere dalla loro congruenza al contesto.

“Volere è potere” è la distorsione cognitiva fonte di giochi, manipolazioni e simbiosi disfunzionali (termini diversi per indicare una medesima dinamica intrapsichica e relazionale), che assume come riferimento una posizione esistenziale del tipo Io Ok–Tu non Ok per favorire, nell’altro, la radicalizzazione della posizione Io non OK- Tu Ok.

In termini analitico-transazionali, quel tipo di slogan favorisce comportamenti contro – copionali, che non sono un’uscita vera dal copione ma, anzi, lo mettono in atto e lo rafforzano.

Posizione esistenziale e copione/contro-copione sono concetti, qui, estendibili dal singolo al collettivo, dal soggetto all’Impresa. Così come l’individuo singolo può relazionarsi agli altri da una specifica posizione esistenziale, che sarà la lente attraverso cui interpreterà (distorcerà) i propri ed altrui comportamenti, anche una Organizzazione può interagire con l’esterno (utenti, clienti, competitors, istituzioni) a partire da una svalutazione delle proprie risorse materiali e umane.

“Volere è potere”, privato di una riflessione sulle origini e sulle caratteristiche strutturali del contesto socio-professionale in cui vive il singolo e/o l’Organizzazione, lo stesso contesto in cui si sviluppa la dinamica conflittuale, si traduce praticamente nell’”insistere”: rifare, cioè, meglio e con più accuratezza quello che si è fatto fino a quel momento, giungendo al punto di esaurire ogni energia fisica e mentale, quando non c’è più nulla da dare e da consumare. Fino, perciò, ad un fallimento ancora più acuto ed alla rinuncia.

Rinuncia, e le sue conseguenze: ad esempio coppie che si sciolgono, studenti che abbandonano l’università, aziende che falliscono.

Assumendo come premessa “volere è potere”, dunque, si rischia di sbagliare “di più” e “meglio”.

A proposito, poi, del settore aziendale … Resta un mistero il fatto che proprio il mondo delle Imprese, che vive quotidianamente la moderna complessità socio-economica nazionale ed internazionale, nel cercare soluzioni a cali di produzione (reali o temuti, dunque da anticipare), si affidi talvolta ad una retorica motivazionale fondata sul mito della volontà, in tutti i suoi possibili derivati.

L’individuo che vive le dinamiche organizzative, che vi lavora insomma, in questa prospettiva si tramuta in un soggetto “malato”, che presenta consistenti carenze caratteriali, affetto da scompensi nella sua capacità di decisione, di stimare gli altri e di auto-stimarsi. Dunque è un soggetto va “curato”, prima che essere informato e formato.

Il discorso motivazionale, in azienda e dovunque si palesi l’impasse (così infatti può accadere per lo studente o per il genitore oppure per il partner), si traduce, perciò, in una “cura” destinata a colmare quelle carenze a cui abbiamo fatto cenno. La crescita motivazionale, da quest’ottica, è l’esito di un percorso terapeutico, più che informativo e formativo relativamente al problema che sta affrontando o che dovrà affrontare. Il formatore o il counselor oppure il coach (mental coach, life coach, personal coach, ognicosa coach), checché ne dicano costoro, assume  il ruolo del “guaritore”, del terapeuta, del promotore dei più svariati percorsi di crescita personale. Alimentando spesso, al di là delle dichiarazioni d’intento, la confusione tra queste figure e quella dello psicoterapeuta (dando nutrimento alle proteste-perché no, in alcuni casi legittime- di psicologi e psicoterapeuti).

Il mito della volontà che tutto risolve si manifesta, in modo plateale, nei cosiddetti video motivazionali, per lo più utilizzati in ambito aziendale e dove, il più delle volte, si possono ammirare eccellenti performance sportive realizzate da eccellenti atleti.

In tali circostanze, lo spettacolo rischia di avere tutt’altro effetto sul destinatario, che può giungere alla conclusione “Se il mio lavoro è equiparabile a lanciarsi con il paracadute in caduta libera, allora non fa per me. Non sarò mai capace di tale perfezione e di tale coraggio”.

L’esito, perciò, può essere demotivare, invece che motivare.

Si dimentica, in sostanza, di ricordare allo spettatore che quegli atleti, prima di dare vita alle loro strabilianti performance, hanno imparato a fare quello che fanno. Lo hanno imparato, cioè si sono formati. Hanno lavorato sul corpo e sulle loro emozioni per dotarsi di coraggio, che, lì dove non sfocia nella totale irrazionalità, è la derivazione della propria capacità di tradurre la paura in attenzione.

Essi, dunque, prima di volere, hanno potuto. Si sono cioè dotati di strumenti.

Volere non è potere.

Potere, però, è volere.

 

Alfonso Falanga

Formatore iscritto all’AIF (Associazione Italiana Formatori)

Consulente della Comunicazione ad orientamento analitico-transazionale

PNL Practitioner

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