Fissare gli obiettivi in azienda e nello sport: c’è attinenza?

Senza obiettivi non si va da nessuna parte. Letteralmente.

La meta conferisce senso alla propria attività, che sia professionale o sociale, che si tratti di studio o di sport. Oppure dell’andare in vacanza.

La definizione degli obiettivi, perciò, è fortemente connessa ai processi motivazionali. A tale riguardo, è più agevole motivare una persona ponendogli uno scopo finale chiaro e accessibile, che quando il traguardo appare confuso e poco congruo alle risorse disponibili.

Sembra un’affermazione scontata, banale. Lo è certamente, eppure le ovvietà sono spesso svalutate, anche se in esse, il più delle volte, sono situati i principi guida dell’azione umana.

Alla luce di queste premesse, riflettiamo brevemente sulla presunta relazione tra il fissare gli obiettivi in azienda e la definizione delle mete per quanto riguarda un atleta agonista.

Nelle Imprese, in alcuni casi, i processi motivazionali che riguardano i team di lavoro risultano elaborati seguendo lo schema, e  la terminologia,  propri al mondo dello sport agonistico.

Eppure le differenze ci sono e sono rilevanti, per quanto ovvie. Appunto.

In primo luogo, un lavoratore non è un atleta, e non lo è per alcuni semplici motivi, tra cui prevale il fatto che non necessariamente quella persona ha scelto il lavoro che fa e, forse, non gli piace nemmeno farlo.

Oggi, in tempo di contrazione delle opportunità di inserimento nel mondo produttivo, tale eventualità risulta ancora più probabile.

L’atleta, al contrario, si suppone che abbia deciso liberamente di praticare quella particolare disciplina sportiva. Gli piace. Lo fa proprio per superare gli altri e, di più, per superare se stesso.

Se non è così, non c’è processo motivazionale che tenga. Fallirà.

In azienda, perciò, la leadership ha il compito di creare condizioni di lavoro, sotto il profilo emotivo e quello procedurale, anche per coloro a cui quel lavoro non piace. D’altronde è questo il compito della leadership in genere, non quello, come il luogo comune vuole, di creare “consenso” … e qui si aprirebbero altri discorsi.

Il coach sportivo, invece, spinge l’acceleratore di un’auto che è già in corsa.

Quindi i discorsi motivazionali e di definizione delle mete possono essere identici nei due settori per ciò che concerne l’aspetto formale, ma non lo sono nelle premesse e nella sostanza.

In entrambi i contesti, ad esempio, vale il principio secondo cui un team, o un singolo individuo, o  si muove verso una meta oppure ha come scopo allontanarsi da una situazione indesiderata.

In azienda, generalmente, il management pone e propone gli obiettivi come un “andare verso”,  eppure l’”andare via da …” è sempre presente nella mente del lavoratore, dal momento che l’eventuale insuccesso avrà non solo ricadute psicologiche e sociali ma, principalmente, comporterà danni  economici, se non la perdita del lavoro stesso. Ciò accade oggi più che mai, dal momento che la crisi spesso fa coincidere la realizzazione della meta con la sopravvivenza dell’azienda stessa.

Per lo sportivo, invece, la realizzazione dell’obiettivo è accompagnata dall’ambizione. L’obiettivo stesso è frutto dell’ambizione, è segno che è giunto per l’atleta o per il team  il momento di andare oltre, che si è pronti: la meta più alta è una sorta di premio per quel che già si è fatto fino a quel momento. Certo, sorgeranno interrogativi di natura psicologica : “ ce la farò?”, “ deluderò il coach, il team, il pubblico, ecc. ?”. Non è che con l’atleta fili tutto liscio necessariamente, certo. Ma eventuali timori avranno contenuti ben diversi rispetto a quelli del professionista.

Arrivato al traguardo, l’atleta dovrà motivarsi (ed essere motivato) a spingersi oltre, ad attivare, perciò, nuove risorse emotive, cognitive, fisiche e comportamentali.

Il lavoratore, invece, vive il percorso verso l’obiettivo spesso sotto la costante pressione della paura del fallimento.

La realizzazione della meta, perciò, viene da lei/lui vissuta come lo scampato pericolo: a quel punto è forte la tendenza a rilassarsi, con il rischio di essere, proprio dopo tanto impegno, risucchiato nella condizione di partenza. Il rischio implicito in un simile atteggiamento, perciò, è quello di rimandare il fallimento, più che eliminare le condizioni che esso possa realizzarsi.

Tale evento si verifica, per lo più, quando la leadership aziendale invia un duplice messaggio: uno diretto, evidente e consapevole, che esprime una spinta ad “andare verso”.

Un altro, invece, indiretto e più o meno inconsapevole, dove emerge la punizione per l’eventuale insuccesso, producendo, perciò, una spinta ad “andare via da … “.

Il lavoratore, in questa circostanza, è motivato ad uscire da quel che è, invece di sentirsi valorizzato per quel che è. Egli/ ella, in tal caso, sperimenta l’obiettivo stesso come una punizione, invece che (come accade all’atleta) un traguardo ambizioso, per quanto faticoso da raggiungere, ed un’opportunità per migliorare professionalmente ed economicamente.

 

 

Alfonso Falanga

Formatore iscritto all’AIF ( Associazione Italiana Formatori)

Consulente della Comunicazione ad orientamento analitico-transazionale

PNL Practitioner