Solitudine di vita

Solitudine di vita, suona come un abisso oscuro, misterioso e freddo, abisso in cui puoi cadere, perderti e rischiare di non tornare mai più. Una sorta di buco nero risucchiante, la cui forza centripeta supera ogni ferrea volontà!

La solitudine è un sentimento d’inquietudine forte, un senso di estraneità a sé, un disagio di fronte a noi stessi, un “dis-agio” non ben identificato, è un senso di tremolio e di indefinitezza sobbalzante allo stomaco, un senso di fragilità alle gambe e confusione alla testa. Non c’è nessuno intorno a noi, nessuno accanto a noi, non vediamo nessuno e non sentiamo nessuno, siamo completamente isolati in una piazza affollata, ci sentiamo incompresi in mezzo a tante orecchie, non sentiamo conforto di fronte a tante parole!

Non si sa bene cosa si sta sentendo, cosa pensare e come affrontare ciò che ci capita. E’ una condizione che alberga nelle nostre anime, ma difficile da afferrare e definire.

Nel mondo dell’arte si trovano sovente scritti ed opere che ne parlano, in modo più o meno  diretto. La ritroviamo sotto le vesti di una speranza ormai morta nella domenica del villaggio (Giacomo Leopardi), nel vuoto desolante del dopo bombe devastanti, di una guerra mondiale (Giuseppe Ungaretti), come nostalgia della terra natia (Ugo Foscolo), come costante ricerca di una musa ispiratrice alla stregua dell’amor cortese (Dante Alighieri). E non è forse la solitudine, l’orrore di un urlo muto, di una condizione angosciante, quella che s’intravede in modo inquietante, nella rappresentazione di Munch? Pensate poi alla solitudine kafkiana, di un uomo che si vede ridotto ad uno scarafaggio, relegato in un angolo della casa e della società, per poi essere spazzato via, proprio nel momento in cui smette di essere utile, produttivo e sfruttabile. Non resta più traccia di umanità!

Forse la solitudine rappresenta la fonte della disperazione, che muove l’uomo anche nell’angoscia di morte. Infatti la morte ci spaventa, solo come proiezione di vita, come termine di qualcosa che non è stata piena e “accompagnata”. Per cui, l’angoscia di morte in realtà non è altro che angoscia di vita, l’angoscia di una vita poco sentita, povera, mancante di qualcosa. Un’assenza, generata da una solitudine di vita costante e da una codardia che produce fuga e negazione. Allora, non si può tollerare che tutto finisca, perché questo tutto non è stato adeguato, non è stato sufficiente e soddisfacente, come se non fosse stato vero ma vissuto da dietro un vetro, privato di possibilità importanti. Questo tutto, è niente.

E la morte rappresenta la fine definitiva di una qualche possibilità, mai raccolta prima.

La solitudine è un sentire veramente divorante. E’ difficile da conoscere, da tenere a freno, da arginare. E’ come un fantasma che sfugge da tutte le parti. Incute un terrore profondo, desolazione e tristezza. Ci lascia vuoti, sfiniti, senza contenuti.

Nella maggior parte delle nostre esperienze, la solitudine è sinonimo di malessere e angoscia. Ma, in verità la solitudine costituisce anche un abisso da cui si può prendere le giuste distanze. Procedendo lungo un filo che unisce i due versanti perfettamente equidistanti, quali lo smarrimento e la lucidità cieca, si giunge ad un luogo sospeso, un’isola di serenità. Si tratta di giocare a fare il trapezista, di volteggiare e camminare con cautela su un terreno sospeso, procedendo sempre con grande attenzione, per non rischiare il volo senza rete di protezione.

E’ un compito di tutta la vita, è la connotazione della vita stessa.

Vista così, si percepisce subito la fatica immane, che tale percorso comporta. Se mai fosse realmente così, costituisce il prezzo dell’equità e del rispetto di sé, la rinuncia alla compagnia vacua, la distanza dalla dipendenza più bieca e strisciante.

J.M. Quinodoz ha parlato di solitudine addomesticata, rimarcando questa condizione come elemento base di vita. La solitudine, è una condizione che non ti abbandonerà mai, nel corso dell’intera esistenza. La vita sembra contenere il tacito obiettivo di addomesticarla, di renderla meno amara ed intollerabile, di aggraziarla e civilizzarla, ma non ha il potere di eliminarla.

Nel corso della nostra esistenza addomestichiamo la solitudine, esattamente come il Piccolo Principe di Saint Exupéry addomestica la sua volpe, cerca di renderla nota, riconoscibile, crea dei momenti comuni con lei, dove ci sia complicità, desiderio e affetto reciproco. Il Piccolo Principe addomestica la sua volpe fino ad amicarsela, a creare una storia comune, un passato e l’uomo cerca di rendere conosciuta e amichevole a sé, la propria condizione di vita.

Senza questo paziente lavoro di avvicinamento e frequentazione, la solitudine rimarrebbe come un animale feroce, una fiera imbelvita dalla paura e dell’insensatezza della propria condizione. L’uomo in preda alla solitudine più totale, arriverà perfino ad odiare sé stesso, preso da una rabbia continua, lacerante e macerante, dove in ogni istante si mischiano immagini, suoni, sensazioni, intuizioni, ricordi, tutto rinchiuso in una cantina umida ed interrata, lontana dagli sguardi e dalla comprensione del mondo.

Si tratta di una condizione di grande miseria, dove l’individuo si ritrova preda ignara della rabbia autoalimentante, diventata odio e rancore strisciante, che incrudisce oltre ogni tolleranza la solitudine, nelle sue forme più abnormi e sottili. E’ una solitudine immensa, vuota, atona, cieca, eppur senza spazio e tempo, assordante, deprivante e caotica nello stesso tempo. Una solitudine, che urla parole che non riusciamo ad udire e comprendere.

Si tratta di solitudine di vita, perché ha inizio già al momento della nascita e ci accompagna fino alla morte. Anzi, molto spesso si riversa e si proietta sulla morte stessa: la grande angoscia di lasciar andare e rimanere soli!

Questa condizione, quest’emozione immensa, profonda e inabissante d’angoscia, è la condizione che ci attanaglia fin dall’inizio. Al momento del parto, per il bambino comincia la prima grande separazione da quell’ambiente totale che è la madre. Un ambiente fatto di calore, di umidità, di flessibilità, di molleggiamento, di dolcezza, di amore, di parole ovattate, di umori nascosti, di scambi, protezioni e bisbigli invisibili. Un mondo indicibile, segreto e magico.

Ed ecco improvvisamente una grande spinta di vita e di crescita che ci catapulta in un ambiente freddo, rumoroso, quasi assordante, fatto di suoni spigolosi e diretti, asciutto, secco fino a prosciugare le narici, duro e rigido, senza alcun sostegno. Ma soprattutto un mondo separato! Separato dalla propria madre! Se si desidera averla vicina, si deve fare qualcosa perché ciò avvenga e non è detto che si ottenga. Nulla, è più così gratuito.

Ma che succede? Prima era sempre tutto presente, a disposizione, dolce e tenue, adesso tutto il mondo ha cambiato faccia, il nostro “mondo è caduto dai suoi cardini”, come recita Amleto.

Che grande stupore, meraviglia e quanta angoscia! Si è confusi, disorientati, sommersi da stimoli, a cui non si sa farvi fronte. Qui comincia il pianto! Qui comincia la solitudine più vera e profonda.

Una condizione di cui nessuno ha colpa, ma di fatto è questa ed è immensa.

Si è soli nel mondo e si deve imparare come farvi fronte, come fare in modo che chi ci circonda ci dia ciò di cui abbiamo bisogno e di cui ignoriamo l’origine. Completamente indifesi, siamo alla completa mercé degli altri, della loro disponibilità e bontà. Siamo nelle loro mani, nel senso più totale del termine: per mangiare, bere, soddisfare i bisogni di sonno, protezione, amore, considerazione, per sapere chi siamo!

Già, chi siamo!

Gli altri sono essenziali per vederci, per capire, per conoscerci, costituiscono uno specchio indispensabile. Le loro parole sono per noi, la via maestra, l’unica fonte di comprensione, l’origine dei nostri lumi, della lucidità, del senso, il senso e la verità stessa.

Ma che succede, se chi ci sta intorno, chi ci dovrebbe amare, proteggere e crescere, non riesce a funzionare come specchio, non ci rimanda la nostra immagine, ma un’immagine che non ci appartiene, frutto della mente e del cuore di chi la detiene e magari, di chi l’ha detenuta prima di lui? Che succede, se per qualche strano motivo, ci arrivano parole ed etichette estranee al nostro essere, ma così insistentemente definenti e inviate con rinnovata forza?

Che ne sarà di noi? Che ne sarà del nostro senso di identità, di continuità con il sé, del senso di coerenza con il proprio sentire, del riconoscimento fra corpo e anima? Cosa ne sarà di noi?

Quanto buio in fondo a noi stessi! Quanta confusione e quanta solitudine. Sì, una solitudine che si fa sempre più profonda, che varca i confini della nascita, per estendersi ad una vita più totale, imperviamente in salita. Non si sa cosa pensare, non si sa cosa stia capitando e per quale motivo sta capitando. Perché non ci vedono, non ci capiscono, non si prendono abbastanza cura di noi? Cosa c’è in noi, che non va? Non sappiamo da che parte girarci.

Sì, perché vedere gli altri per quello che sono, non è un processo facile. E’ scontato che dovrebbe essere così, ma non lo è! Ed il bambino che lo subisce, non può rendersi  conto di ciò. E spesso il bambino che subisce questa pressione, si convince che succede per “colpa” sua.

L’uomo non è mai scevro di un bagaglio suo personale, di un paio di lenti che lo inducono a vedere il mondo con una certa luce, con una sfumatura tutta particolare. Questo bagaglio non è altro che il frutto di ciò che lui è da sempre: personalità, atteggiamenti, pregiudizi, pensieri, emozioni, fantasie, aspettative e quant’altro può esservi incluso.

La sua visione del mondo, dipende sostanzialmente da ciò che è, da come vive sé ed il mondo circostante, da come vede le cose. Va da sé, che nel momento in cui si accinge ad affrontare qualunque evento, lo farà sulla base delle convinzioni e vissuti in suo possesso. Così, anche la nascita di un figlio verrà gestita nello stesso modo.

Ancora prima che lui nasca, si creeranno delle fantasie sull’evento, su come si desidera essere in quanto genitori, su come sarà questo figlio, su come andranno le cose. Noi non sappiamo come realmente sarà, ma non possiamo far a meno di prefigurarcelo, di immaginare cosa sarà meglio per lui, cosa vogliamo insegnargli, quanto amore vogliamo dargli, ecc.

E allora, per quanto amore possa esserci dentro noi, per quanto desiderio di farlo crescere nel modo più sano possibile, la verità è che nascerà con un vestito già cucito addosso. Questo vestito, che anziché riscaldare raffredda, crea la vera e profonda solitudine, perché allontana anche da sé stessi, rende persi ed estranei al vero sé.

Il bambino infatti, fidandosi cecamente di chi lo circonda, si dissuade precocemente circa la verità di quanto sente, a favore della verità familiare. Perseguire quanto aleggia nel fondo di sé, significa allargare progressivamente quella frattura fra sé e gli altri, fino a farla diventare una voragine insanabile. Perseguire la visione che gli altri possiedono di sé, comporta l’allontanamento dal proprio essere, a favore di una compagnia tiepida, di una vicinanza fatua, ma pur sempre “vicinanza”.

Comunque vada, siamo soli! Ma, il rispetto di sé induce ad essere accompagnati almeno da sé stessi e comporta l’addomesticamento di quella solitudine che ci appartiene da sempre.

Questa è una scelta difficile, quasi improbabile. Il bambino possiede un bisogno disperato di amore e vicinanza, sarà dunque disposto a qualsiasi cosa, per ottenerli. Quanto meno gli verranno dati come lui desidera, tanto più li cercherà per il resto della vita. Venderà anche la propria anima al diavolo, si umilierà e negherà il proprio sentire, pur di ottenere un minimo cenno di approvazione, di calore, un’affiliazione.

Farà di tutto, di più, ma nello stesso tempo perderà la propria gioia, la vitalità di bambino, l’ingenuità e soprattutto la fiducia, la sua forza più importante. Il dramma di questa grave perdita, è proprio la solitudine. Infatti, il bambino cercherà a tutti i costi l’approvazione altrui, ma perderà progressivamente fiducia in sé, come individuo capace, amabile e  in chi lo circonda, il cui amore sentirà come interessato, falso e condizionato. Vivrà e crescerà, sentendo segretamente di aver tradito sé ad un giuda e disprezzandosi nascostamente, non potrà più far a meno di guardarsi ad ogni angolo, per scovare nemici e detrattori.

Non esiste più, quel mondo incantato! Un mondo fatto di possibilità, di infinita ricchezza, di speranza e fiducia illimitata. Non si riesce più a staccarsi dalla concretezza, non si sogna più!

Diventeranno così, adulti che si prostrano al volere degli altri, senza mai osare esprimere un proprio desiderio, scapicollandosi per accontentare e confermare chi li circonda. Ci sarà la corsa agli impegni, agli hobbies, alle attività e organizzazioni di ogni tipo, qualsiasi cosa pur di non rimanere soli, pur di avere la pur pallida sensazione di “far parte”, di “saper fare”, di “saper dire”, di essere sotto l’attenzione altrui, di guadagnarsi la stima e la fiducia. Ma poi sulla base di cosa? Di quale criterio?

Di quale criterio non si sa, l’importante è correre, correre e fare, stare, stare con, cercare di non sentirsi soli, di non sentire. Si gioca a fare i genitori, a fare i professionisti, gli esperti in qualcosa, gli amici, i parenti …….

Ma, nonostante la giostra giri vorticosamente, il senso di solitudine non cambierà, non diminuirà, anzi aumenterà inesorabilmente, perché apparentemente si riduce la crepa fra noi e gli altri, ma si accresce quella fra noi e noi. Non possiamo più contare su noi stessi, sulla nostra intuizione, sul sentire, sulla stima di noi stessi e neanche lo sappiamo. Ormai è così tanto tempo che siamo dediti al conformismo che non sappiamo neanche chi siamo, dov’è il vero sé. Non sappiamo cosa sia la nostra sofferenza, non ne conosciamo l’origine e la direzione, rischiando di correre ancora più forte, in un inseguimento di felicità eteree e vacue.

Diventando grandi e indipendenti, ci s’illude erroneamente di essere finalmente liberi e completamente padroni della propria vita. Ma non è così, si possono fare molte cose ma non si può cambiare, ciò che non è cambiato fino ad allora. Non si modificano le etichette su di noi, il tipo di rapporto con i nostri genitori, non possiamo cambiarli! Questa frustrazione non potrà essere mai lenita. Nessuna attività, oggetto o persona cambierà la desolazione subita.

Sarà una vita presa da lavoro, figli, palestra, cene, scommesse, oggetti, acquisti, sesso, denaro e quant’altro si può mettere. Fino a che un giorno, magari uno di questi elementi cade, lasciandoci in un crollo più totale. Quest’occasione, può essere accolta come possibilità di cambiamento, oppure ancora ignorata e affrontata come tutto il resto, magari con un altro riempimento, con un farmaco e con l’ignoranza. Tutto questo, finché dura la giovinezza, la forza e l’energia, perché la vecchiaia poi, porterà una rinnovata ondata di solitudine, tristezza, malattia e morte.

Quale bilancio mai, si può fare di una vita condotta così?

Forse è per questo che spesso, si evita di fare bilanci!

Ci sono bambini poi, così tanto, eppur segretamente e invisibilmente feriti, che saranno danneggiati nella loro capacità di procreare, ma ancora di più nella loro fiducia di poterlo fare. Il loro rapporto con i genitori è così tanto distorto e la stima di sé così stranamente compromessa, da non riuscire a pensare di poter essere generosi e creativi. Così, perderanno due volte sé stessi, saranno privati della possibilità di fare i genitori, di stare dall’altra parte della medaglia e della possibilità di rivedere a più riprese, sé stessi e la propria infanzia.

A volte, il frutto di ciò origina proprio da una falsa immagine di genitori perfetti, di genitori altruisti e generosi oltre ogni umana possibilità. Per il figlio, non sarà mai possibile competere con una tale famiglia, non è neanche pensabile riuscire ad essere genitori altrettanto bravi! Ancor meno, sarà pensabile di poter essere arrabbiati con loro, per qualunque cosa o di fare scelte di vita proprie. Quindi, vivranno attribuendo a sé e solo a sé ogni nefandezza, l’ingratitudine, l’incapacità come figli, come genitori, come persone imperfette!

Dentro, perpetuerà il lacerante conflitto: io o loro? In momenti cruciali della propria vita, si rinnoverà il peso della rinuncia, quella rinuncia che i suoi genitori hanno sostenuto per lui, per crescerlo, per amarlo, per non fargli mancare nulla, per essere sempre equi. Non ci sarà possibilità alcuna, se non quella di soccombere sotto questo peso. E’ veramente difficile, lasciarli andare. Al contrario, rinuncerà realmente a sé!

C’è chi invece, pressato da quest’insoddisfazione nascosta, che la solitudine rimanda segretamente, somatizza o proietta sul corpo, passando la propria vita da un’indagine all’altra, da una diagnosi all’altra, da un intervento all’altro, tagli, asportazioni, bruciature, cicli farmacologici, antibiotici, ecc. Il corpo sarà sempre più depauperato, martoriato e perso. Ogni malattia, costituirà un’occasione di consapevolezza e cambiamento, ma difficilmente si riuscirà a coglierne il reale messaggio, a favore di una condizione concreta perseverante, che finirà per togliere la vita.

Nel frattempo però ad ogni nuovo specialista, la persona sofferente rinnoverà la sua speranza, di trovare la causa del suo “dolore” e la sua risoluzione, per conquistare il benessere agognato. Ma, questa speranza sarà ogni volta delusa ed il benessere raggiunto, di brevissima durata. Ad ogni giro, ci si allontana sempre più da sé e dalle cause della propria sofferenza originaria.

In questa condizione di solitudine primigenia, si può anche perdere il senno e offuscarsi la coscienza con una diagnosi, che ci renda ragione e giustifichi la ritirata dalla vita. Può trattarsi di una diagnosi medica, ma anche di diagnosi psichiatrica, si fa i “malati di nervi”, i “matti” e si fugge. Non si assume nessuna responsabilità, non si è abili al lavoro, non si è capaci di amare, di pensare, di occuparsi di sé, tantomeno di qualcun altro.

Questa “soluzione” non solo è deresponsabilizzante, ma anche molto aggressiva. Infatti, chi ci circonda deve subire passivamente questa condizione, senza poter far nulla. Familiari e amici devono fare al posto di, devono sostituirsi per proteggere, sostenere, scegliere e aiutare, in tutto ciò che il malato non può e non vuole fare.

C’è chi non accetta questa sorte e non ne vede altra. Sceglierà una via ancora più drastica attraverso il suicidio, che lascia ancora gli altri a subire un’aggressività e una violenza senza confini, inaffrontabile. Il peso e la solitudine altrui, sarà ancora più grande e inesorabile.

Dall’altro lato, abbiamo chi è più vicino al proprio sentire e all’origine di questo “grande male” e da sempre, per una strana combinazione di fattori, non si è mai affiliato al sistema prevalente e ai giochi scaccia solitudine. Il più delle volte, si tratta di bambini ribelli, quelli che hanno trovato in quest’etichetta una sorta di via d’uscita. Grazie alla combinazione di ribellione, spiccata sensibilità, consapevolezza e forza di vita, sono riusciti ad andare oltre. In questo caso, la ribellione è solo la forma esterna di una condotta orientata a cercare sé stessi, svincolata dalla ribellione stessa, che costituisce la più nascosta e potente forma di dipendenza.

Questa scelta, comporta un prezzo molto alto. Prezzo rappresentato, non solo dal ritrovarsi nella più profonda solitudine, ma anche in una condizione segnata da rifiuto, disapprovazione, svalutazione, disprezzo. Si tratta di un individuo strano, anomalo, forse di un errore del sistema, perché non gira come tutti gli altri, non apprezza ciò che apprezzano gli altri, non gli va bene nulla, non gli basta mai. Del resto, fin da piccolo è sempre stato difficile e ha dato un gran da fare a quei poveri genitori, che non sapevano proprio più da che parte prenderlo, l’hanno provate proprio tutte!

Adesso più che mai, riuscire ad addomesticare la solitudine, attraverso la ricerca di compagni di viaggio e di consapevolezza, costituisce un obiettivo di vita e serenità.

Trovare qualcuno che riesca a comprendere e condividere non elimina la condizione di base, di solitudine profonda, ma rende ragione della propria scelta di vita, contribuisce a dargli un senso e a tollerare meglio questo profondo sentire.

Si tratta di una condizione che mi fa venire in mente la fiaba La Bella e la Bestia. L’ultima figlia Bella, non desidera come le altre sorelle, vestiti e gioielli, ma qualcosa di diverso e al padre che si reca al porto, chiede delle rose. Forse desidera altro perché lei è diversa e forse, anche per non gravare sul padre già in rovina. Proprio questa sua condizione di ultima figlia, che subisce la pressione degli adulti e delle sorelle maggiori, nonché la sua diversità, le conseguono invidia, disprezzo e quest’increscioso incidente con la Bestia, che minaccia la vita del padre.

Bella deve pagare il suo prezzo, deve andare dalla Bestia per render ragione di aver desiderato qualcosa di diverso dal fatuo e materiale, deve render ragione di ciò che è e della propria dedizione di figlia. La ragazza paga per sé e per il padre, il quale non si assume la responsabilità di ciò che fa e non fa. E’ lui che dovrebbe mettere un freno alle figlie, che gli chiedono vestiti e gioielli ed è lui che entra in quel giardino a cogliere delle rose, che non gli appartengono. Ma non lo fa e la figlia fa per lui, lo salva, assumendosene tutto il carico, la responsabilità, l’ingiuria ed il destino.

La Bella e la Bestia si addomesticano a vicenda, imparano a conoscersi, ad abituarsi l’un all’altro, ad avere una reciproca fiducia e rispetto. In particolare, la ragazza impara ad andare oltre l’aspetto e le apparenze, per avvicinarsi e valorizzare qualcosa, che va oltre la mostruosità animale e umana. Ed è per questo che si verifica un vero addomesticamento, perché si crea un legame profondo di comprensione, di sentire ed empatia, con l’altro e con sé.

Grazie a questa miscela, l’incantesimo si scioglie e la Bestia ritrova le sue antiche sembianze umane, rinnova sé e la propria ricchezza. Bella da parte sua, ritrova la propria bestialità, l’anima più profonda, la solitudine incantata. E’ il fondo di noi stessi, la vera essenza, al di là di condizionamenti, etichette e false sembianze.

Ma quante Bella ci sono nel mondo?

Chissà se quel bambino che ha subito tanta triste pressione, riuscirà mai a trovare le parole per dire ciò che ha sentito, se troverà mai la consapevolezza per esprimerla, se darà mai ragione di ciò che è, se si spiegherà certe incongruenze, certi lati oscuri e fastidiosi del proprio carattere. Chissà, se avrà mai compassione di sé. Chissà, se troverà mai la voce per urlare tutta la sofferenza ed il dolore.

Forse urlerà come genitore, troverà una rinnovata opportunità di consapevolezza e di crescita con i propri figli, per loro e per sé. Proiettando la propria condizione d’infanzia nei propri bambini, avrà a disposizione uno specchio lucente e ricco. Sarà cura dei più umili e dei più consapevoli, usare questo specchio magico e saper cogliere quest’importante opportunità.

Per operare questo salto quantico, è necessario un ulteriore passaggio evolutivo, la capacità di lasciar andare una parte di sé a cui ci si è aggrappati prepotentemente, che ormai costituisce solo una zavorra, un ostacolo, per poter volteggiare sulle onde.

Questo salto è ben rappresentato dal protagonista di Cast Away, film di Zemeckis. Il protagonista Chuck Noland, è un naufrago finito su di un’isola deserta dopo l’ammaraggio del proprio aereo. Per sopravvivere alla desolante solitudine, proietta una parte di sé in un pallone, “Wilson”, a cui disegna occhi e bocca, come fosse una faccina che sta lì a guardarlo, ascoltarlo, giudicarlo, a ricordargli paure ed angosce. Wilson rappresenta una parte, che in un certo senso lo trattiene, lo tiene lì, lo farebbe morire lì senza speranze, schiacciato dal timore di non riuscire. Ma è anche una parte importante, un alter ego, è l’altro del dialogo, colui che gli ha permesso di sopravvivere e addomesticare la propria solitudine.

Nel momento in cui il protagonista s’imbarca in mare aperto, per provare a tornare a casa, deve lasciar andare Wilson, pena la sua vita. Per rientrare nel mondo socializzato, per poter vivere con gli altri e scambiare qualcosa con loro, deve rinunciare a ciò che gli ha permesso di addomesticare la solitudine, in un contesto di totale isolamento. Wilson è la proiezione di una parte di sé, è un mondo isolato ed autistico, dove la persona riesce a far a meno di tutto e di tutti, funzionale in un’isola deserta ma non in un mondo di relazioni.

E’ necessario compiere questo passaggio, lasciar andare quel qualcosa che ha permesso di sopravvivere e costruire, che han rappresentato un grande sostegno e spinta in un momento di burrasca, ma che ad un certo punto diventa vincolo e catena, che deve essere spezzata. Ad un certo punto si deve andare verso gli altri, addomesticare la propria solitudine, non tramite oggetti o contenuti privati della propria mente, ma attraverso il legame con gli altri. Solo attraverso lo scambio, esiste vera ricchezza e crescita consapevole.

Gli altri, non sono più mera proiezione silente, come poteva essere Wilson, che non contestava, non dava torto, frustrazione o delusione, ma costituiscono uno specchio che rimanda dei contenuti che interagiscono. Gli altri non ci soddisfano come vogliamo, ci contraddicono, ci odiano, ci detestano, ci adorano, ci amano. Noi, insieme agli altri viviamo e cresciamo nella propria solitudine.

Noi, con i nostri figli, vissuti come altro nella relazione, siamo in possesso di un’opportunità di consapevolezza e crescita incredibile. Questo legame costituisce una porta privilegiata verso il passato, una finestra che si apre nella propria infanzia, la possibilità di vedere e sentire ciò che abbiamo vissuto a quel tempo là senza completa consapevolezza, ma con la chiarezza e la forza di ora, dell’adulto che siamo diventati.

E l’adulto oggi, ha veramente la possibilità di stare con quel bambino, di addomesticare la sua solitudine, di camminare con lui, di aspettarlo ad appuntamenti e luoghi ormai noti ed amati da entrambe. L’adulto può stare con il bambino che è stato, amarlo e comprenderlo, come nessuno ha mai saputo fare fino ad ora.

Nello stesso modo l’adulto genitore, può accompagnare il proprio figlio nella vita, aiutarlo a crescere con tutto l’amore che ha, aiutarlo ad addomesticare la sua solitudine senza creare un legame che vincola, ma al contrario con un legame che gli permetta di volare più libero possibile, quando il suo bisogno lo chiederà.

Solo così la solitudine sarà addomesticata, sarà compagna di vita. Solo così ci sarà consapevolezza e vita vissuta interamente. E forse così, la morte non sarà poi un mostro così terribile, ma un’umana possibilità. Non un’ancora di salvezza, ma un punto di passaggio.

Si passa così da una solitudine percepita come un abisso divorante ad una solitudine come “contenitore vuoto”, che pazientemente attende creazione e scambio, attende un contenuto da sentire, pensare, donare.

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>> Presentazione personale e curriculum vitae di Sabrina Costantini

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BIBLIOGRAFIA

Saint Exupéry (1993). Il piccolo principe.

Quinodoz J.M. (1992). La solitudine addomesticata. Roma, Borla,

Kafka F. La metamorfosi.

Robert Zemeckis (regista) (USA, 2000). Cast Away, attori: Tom Haks. Helen Hunt. Genere: drammatico-avventura.

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1 commento su “Solitudine di vita”

  1. Grazie Dr.ssa Costantini per il suo approfondito e accessibile articolo “solitudine di vita”. MI è stato di aiuto e spunto per un riconoscimento personale e per prendere consapevolezza sulla solitudine vissuta nell’arco della mia vita. Mai come ora mi è ben chiaro il quadro sulla mia identità, sulla mia solitudine infantile, adolescenziale ed adulta. Grazie, perchè è stato uno spunto per me e mio marito per approfondire questo argomento e svilupparlo in un gruppo di adulti (di età attempata) di mutuo aiuto che desideravano approfondire il tema della solitudine. Risultati sorprendenti! Approfondimento della conoscenza delle singole persone, esternazioni di conflitti personali e di coppia, stimoli alla curiosità di conoscere sè stessi, desiderio di approfondire altre tematiche psicologiche simili.
    Grazie ancora e buona giornata!
    Elisa Menin
    Vicenza

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