La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione

Ci sono al mondo molte più persone infelici per la mancanza del superfluo che per la mancanza del necessario”, Antoine Rivaroli, detto le comte de Rivarol (1753-1801).

Nell’ambito d’una corrente pratica psichiatrica sembra serpeggiare una certa confusione, sostenuta per giunta anche da scorretti modelli teorici, che non aiuterebbe quella necessaria discriminazione tra psicopatologia dei sentimenti ed emozioni negative rientranti in una normale oscillazione dell’umore. Studi antropologici e sociologici contribuiscono ad alimentare tale sovrapposizione del disturbo depressivo su ciò che invece andrebbe considerato come un tipo del tutto naturale di tristezza. Da parte degli uni si tende all’elaborazione d’una concettualizzazione che finisce per trascendere la comprensione stessa di più appropriate e corrette definizioni cliniche, mentre gli altri arrivano ad accorpare tutte le possibili risposte in un’unica intercambiabile varianza di reattività. A questa ricognizione, gli Autori di “La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione”, Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield [traduzione di Michele Sampaolo (titolo originale: The Loss of Sadness. How Psychiatry Trasformed Normal Sorrow into Depressive Disorder), L’Asino d’Oro, Roma 2015], aggiungono una certa carenza nell’esercizio d’una critica autonoma, e non pregiudizievole, nei confronti di criteri diagnostici a volte fin troppo convenzionali, se non a volte quasi aleatori.

Sottigliezze definitorie?

Il titolo italiano traduce due volte con un unico termine, “tristezza”, due vocaboli anglosassoni, “Sadness” (da sad, latino satis, la sensazione della gravità, e ness, che indica lo stato d’essere) e “Sorrow” (dall’etimo sanskrito surksati, prendersi cura), che forse potrebbero essere considerati dei sinonimi, tant’è che si sente l’esigenza, almeno per il secondo, d’affiancare un aggettivo che lo qualifichi per la sua naturalezza (Normal), così come analogamente sembra necessario ribadire la definizione patologica (Disorder, dal latino medievale disordinare) di quella che, per noi, linguisticamente, risulterebbe una “semplice” depressione.

Lo psichiatra transculturale Arthur Kleinman (1986) distingue tra “disease” (da des-, senza, e dal francese aise, benessere) e “illness” (da ill, che in origine definiva una qualità talmente cattiva da lasciare insoddisfatti), intendendo anormalità o malfunzionamento all’interno d’uno spettro di naturalezza, l’uno, e vissuto di malattia comprensivo della percezione e sua rappresentabilità, l’altro.

Psichiatria transculturale

L’antropologo Gananeth Obeyesekere, che inquadra dispiacere, disperazione e sensazione di non aver peso nel proprio contesto comunitario, all’interno d’una filosofia di vita culturalmente riconosciuta tra i cingalesi dello Sri Lanka buddista, nega l’eventualità d’un’universalistica concettualizzazione (e cioè illness) del disease, ma nel renderli ancora una volta paradossalmente sinonimi, come in italiano, parteggia per  una persistenza di illnesses e non di diseases. La nozione obiettiva della psicopatologia (disease) soccombe di fronte a una cruda definizione (illness) di chi assume il ruolo, connotato culturalmente, di malato.

Catherine Lutz ha studiato gli Ifaluk della Micronesia, i quali reagiscono a una perdita (luttuosa) o a un abbandono della loro isola con “un eccessivo pensare/sentire la persona che se ne è andata, una diminuzione della voglia di mangiare o d’impegnarsi nella conversazione o in altre attività, e sopore”.

Piuttosto che alla sintomatologia, l’accentazione viene posta sulle condizioni intrapsichiche che la promuoverebbero. “Queste varie interpretazioni delle situazioni di perdita si riferiscono tutte a persone come oggetto primario cui si può essere legati e da cui di può essere separati. Non si parla mai, per quanto ne so, di risposte alla perdita non concentrate su una persona o senza oggetto”. La qual cosa le farebbe rientrare nello spettro di una certa “normalità” dell’illness.

Pertanto, proprio per non incorrere nell’errore di classificare disfunzionali tali risposte, evitando di enfatizzarne solo i sintomi, o strutturando categorie che abbiano lo scopo di meglio omologarli, “l’indagine transculturale della depressione potrebbe essere sostituita dall’esame delle definizioni indigene delle situazioni di perdita e di blocco degli obiettivi, e dell’organizzazione sociale delle risposte a esse”.

Psichico o somatico?

L’errore psichiatrico potrebbe consistere nell’immettere tratti marginali della cultura (e dell’illness) in un metodo diagnostico universale. Nell’impossibilità di evitare completamente tali contagi, occorre ricercare modalità esplicative specifiche a quest’ambito di influssi (Kleinman, 1988). Se deseases sono per lo più sensazioni somatiche generali e universali, l’esperienza soggettiva del disturbo psicopatologico risponde a significati di tipo normativo, propri di determinati gruppi sociali.

Un rifiuto verso ogni forma della valorizzazione psicologica, concentrerà maggiormente l’attenzione sulla sintomatologia fisica. Un’educazione che promuova esclusivamente relazioni interindividuali, evidenziandone soltanto i ruoli sociali, scoraggia l’espressività dei sentimenti personali, non consentendone la verbalizzazione, che svelerebbe un imbarazzante egocentrismo, e di conseguenza neppure la “mentalizzazione”, che risulterebbe repressa dallo stigma nei confronti della solitudine verso la quale naturalmente spinge lo scontento.

La depressione sperimentata completamente come mal di schiena e la depressione sperimentata completamente come colpevole disperazione esistenziale sono forme di comportamento di illness così sostanzialmente diverse con diversi sintomi, modelli di ricerca d’aiuto, decorsi e risposte di trattamento che, sebbene la disease possa essere in ciascuno dei casi la stessa, il fattore determinante è la illness piuttosto che la disease” (Kleinman, 1987).

La sottostante disfunzione universale (disease) tende a realizzarsi in espressività culturalmente connotate (illnesses). Il trattamento sarà però tanto più efficace quanto più indipendente da questa rappresentazione relativistica, e ciò richiede ovviamente un’indagine attenta alle modalità di inferenza della disfunzione soggiacente alla rappresentazione che di essa si fornisce, attraverso un’appropriata lettura di quell’idioma dell’angoscia sul quale si andranno a concentrare i sintomi culturalmente indotti su un versante (somatico) piuttosto che su un altro (psichico).

La somatizzazione

Nella misura in cui rimangono differenze di espressione, – precisano Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield – la somatizzazione della depressione può dipendere dal fatto che alcune culture non possiedono vocaboli per descrivere stati interni emotivi o hanno norme sociali che impediscono di percepire o parlare di sentimenti interiori”.

Il superficiale misconoscimento delle emozioni andrà aggirato per approdare alla mera realtà della sperimentazione dei sentimenti. Le esperienze spiacevoli soggettive vanno allora ben distinte da qualunque altra situazione organica o psicopatologica sottostante. Assolutamente determinante diverrà, per far ciò, la discriminazione  tra l’effettiva descrizione delle sensazioni provate e quanto riferito magari perché consentito o socialmente gestito da convenzioni (Kleinman, 1986).

Relativismo culturale

L’unicità culturale si riferisce a valori, credenze, norme, costumi, simboli, condivisi in un gruppo, ma non per questo validi negli altri, dove quelli vigenti potrebbero differire. Dipende da questo relativismo la concettualizzazione della normalità o della devianza, molto meno la negatività d’un disturbo patologico di cui sia possibile una determinazione universale. In proposito, Laurence J. Kirmayer aggiunge però che i sistemi psicologici “sono così malleabili da essere pronti per qualsiasi cosa… A parte poche funzioni fisiologiche relativamente semplici, è impossibile identificare a che cosa i sistemi o le funzioni psicologiche sono destinate in senso universale” (1994). Per cui sarebbe oltremodo difficoltoso impostare, all’interno della prevista variabilità tra una cultura e l’altra, distinzioni che si rivelino altrettanto costanti di quelle fondate sul funzionamento della biologia (Kirmayer & Young, 1999).

Nel classico articolo del 1934, la grande antropologa Ruth Fulton Benedict (1887-1948) asserì che le definizioni di normalità e devianza patologica derivano da concezioni che non possono essere generalizzate e quindi applicate a culture diverse. Da studiosa delle popolazioni native del Nord-America, portava l’esempio degli Zuni dell’Arizona i quali considerano del tutto normali, se non addirittura tipici di una loro espressione culturale, radicata in atteggiamenti filosofici e tendenze caratterologiche configurabili in un certo sistema di significato comunicativo, quel certo fatalismo ed estrema passività che la psichiatria occidentale non esiterebbe a diagnosticare quale forma di depressione maggiore. Riteneva pertanto, la discepola di Franz Boas (1858-1942), che, in ciascuna società, a dover discriminare tra ciò che va considerato patologico e quanto invece accettato come normale non può essere che la locale metodologia definitoria.

La differente socializzazione

Se una certa condizione viene compresa nella normalità, è da supporre che la sofferenza provenga da una comune configurazione dei sistemi espressivi e di significato. Parimenti, procurerà un deciso inquadramento patologico qualsiasi più superficiale malfunzionamento nei meccanismi reattivi alla perdita che abbiano conosciuto o subito una differente socializzazione.

Le esperienze di perdita, dall’umiliante caduta di status all’incapacità di raggiungere degli obiettivi o di mantenere legami importanti, hanno degli equivalenti del medesimo rango in ogni cultura, la quale semmai ne influenza la loro particolare maniera di apprendimento e gestione, oltre che di espressione. Dall’approfondimento di questa disfunzione e dall’interazione di essa con i significati culturali ci si potrà aspettare qualche critica costruttiva all’impostazione diagnostica della psichiatria sociale e transculturale.

 

Paradigma dominante della sociologia della salute mentale sembra essere l’assetto stressante del vivere insieme. Il riflettore, in tal caso, si sposta sull’iniquità e negatività delle situazioni esistenziali, dal fallimento coniugale a quello lavorativo, dalla mobilità alla conflittualità, dagli impegni agli obblighi e alle preoccupazioni familiari, onde fornire un qualche correttivo a una pervasiva medicalizzazione di problematiche soprattutto sociali.

Uno degli Autori di “La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione”, Allan V. Horwitz, in precedenza (2007), aveva individuato i tre principali processi che generalmente predispongono a situazioni percentualmente alte di stress, in grado di indurre comprensibile demoralizzazione, nelle perdite di legami personali importanti, nell’incapacità  di conseguire obiettivi di valore e nell’abbassamento a posizioni inferiori delle gerarchie di status. Ciò non esclude che le conseguenze stressanti della stratificazione economico-finanziaria, di relazioni interpersonali subordinate in ambito familiare o lavorativo, di preoccupazioni per problemi di salute personali o dei propri cari, non giungano a incidere effettivamente sulla sanità mentale. Ed è certo molto più probabile che tali stati costituiscano la causa invece che una conseguenza dello scoramento esperito.

Gli eventi notoriamente considerati più stressanti, nella percentuale da un terzo a circa la metà (Radloff 1977), riguardano la perdita dei legami affettivi più intimi, dalla separazione coniugale al divorzio e alla vedovanza (Holmes and Rahe 1967).

L’assestamento del tono dell’umore

Quelle situazioni in cui non si riesce a disimpegnarsi da mete irraggiungibili o che rivelano vane le speranze perseguite produrrebbero prevalentemente una demoralizzazione non patologica. I casi relativi a quegli studenti universitari che non arrivano al conseguimento della laurea, o di quelli che da laureati non trovano un’occupazione nel loro campo di interesse, o la cui carriera accademica non comprenda una cattedra, inducono Randolph M. Nesse a domandarsi se la reazione depressiva non rappresenti una forma di adattamento, in cui pessimismo e mancanza di motivazione, inibendo sfide rischiose, costituirebbero in effetti una profilassi difensiva da eventuali ulteriori danneggiamenti peggiori. Altri (McEwan, Costello & Taylor 1987) riferiscono un analogo assestamento riguardante quelle donne sterili che vorrebbero diventare madri a ogni costo.

La depressione come adattamento

Molto verosimilmente l’espressione emotiva risulterebbe equipollente alla comunicazione d’un bisogno di aiuto, che spesso segnala un cedimento nel corso d’uno sviluppo gerarchico conflittuale, o la necessità del disimpegno da obblighi, di cui si avverte tutta la pesantezza, nei confronti di obiettivi rivelatisi, rispetto alle previsioni, molto più difficili da raggiungere. L’umore in tal modo fungerebbe da regolatore per i futuri modelli di investimento.

Una spiegazione più completa, di tipo evoluzionistico, identificherebbe l’avvilimento quale tentativo di recupero delle consuete capacità d’un organismo di far fronte alle impellenti richieste di accomodamento dinanzi a quelle situazioni nefaste in cui lo sforzo di insistere nel perseguire un obiettivo, sia pur importante, presumibilmente si configurerebbe quanto meno come fatica sprecata, se non un vero e proprio imminente maggior pericolo per l’integrità psico-organica. In assenza di cruciali risorse di cui disporre, o di progetti efficacemente praticabili, qualsiasi modificazione psichica, meno grave, atta a interrompere un’insoddisfazione più deleteria, che potrebbe danneggiare l’intero organismo, risulterebbe di ristoro per il fisico, potenzialmente in grado di recuperare le forze al momento mancanti, nonché una valida alternativa a quanto potrebbe dunque rivelarsi di maggior nocumento (Nesse 2000).

Un effetto sommatorio

Gravità e durata della risposta a tali incapacità, vissute come ferite narcisistiche, si correlano alla profondità dello stress intervenuto, sottolinea R. Jay Turner (2003), anche in funzione diretta dei precedenti, o persistenti, altri fattori cronici, quali eventi esistenziali sperimentati come particolarmente sgradevoli.

Spesso gli studi socio-psichiatrici non prendono nella giusta considerazione il contesto ambientale nel quale si va sviluppando la sintomatologia psicopatologica. I criteri diagnostici in voga esigono la coesistenza di una qualche difficoltà di provare piacere, e di una certa durata di questa condizione, di almeno due settimane. Se non si tiene conto di quest’ultimo requisito minimo si rischia di includere nella psicopatologia affettiva quei fenomeni passeggeri e molto banali di fallimento, delusione o sconfitta, che invece procurano un qualche banale disagio da scoramento, avvilimento e sconforto, semplicemente auto-riferito al surrogato d’un equivalente depressivo (Coyne J. C. 1994). Per esempio, tra adolescenti, risulta essere un fenomeno piuttosto diffuso la rottura d’un rapporto sentimentale. Per cui, l’inquietudine, o la difficoltà a concentrarsi, in seguito a ciò, non andrebbe enfatizzata più di tanto, soprattutto se tale emozione deprimente non perdura oltre il suo consueto limite.

Altre volte, si fa confusione tra mancanza di benessere, situazione stressante e stress nudo e crudo. Di per sé, uno stress non patologico compare quale funzione di condizioni esterne rispetto alle quali rimane del tutto proporzionale e dipendente, mentre il vero disturbo depressivo è conseguenza d’una disfunzione psicologica interna e autonoma nei confronti degli accadimenti.

Le conseguenze d’uno stress provocato da normali situazioni e fattori sociali possono rivelarsi comunque esagerate e rientrare quindi nel disturbo mentale, almeno quanto gravi cause esterne, di natura traumatizzante, quali violenze, combattimenti, disastri, possano procurare disfunzioni psicologiche abbastanza tipiche (Mollica et al. 1998, 1999). Ma anche il prolungarsi della situazione stressante, come la povertà senza prospettive, infonde un senso pervasivo di disperazione che potrebbe permanere interiorizzato persino dopo il cambiamento delle circostanze che l’avevano provocato. Si tratta d’una caratteristica tipicamente umana, brillantemente posta in rilievo da Robert Morris Sapolsky nel suo “Why Zebras Don’t Get Ulcers” (1993), pur sempre però in esito a risposte prevedibili (Price et al. 1994, Nesse 2000), in quanto preordinate da meccanismi reattivi normalmente funzionanti.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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