Dal tragico all’osceno

In “Dal tragico all’osceno” (Bompiani, Milano 2016), Antonio Scurati nota come per la prima volta siano stati diagnosticati casi di Sindrome Post-Traumatica da Stress Acuto in soggetti, per così dire, colpiti da un evento mediatico, costituito dall’ossessiva diffusione delle immagini relative al crollo delle Torri gemelle.

Non “reduci di guerra”, bensì spettatori televisivi della violenza terroristica.

Fino a quel momento non erano stati documentati gli effetti sulla salute mentale di una catastrofe sperimentata da lontano. Quindi, non soltanto le persone presenti a un evento traumatico subirebbero spesso sintomi da stress, poiché per un certo numero di adulti, e molti bambini, sarebbe sufficiente assistervi a distanza, per considerarsi anch’essi alla stregua delle vittime. L’11 settembre 2001, buona parte degli americani possono avere percepito gli attacchi terroristici come diretti alle loro persone fisiche, in quanto, nel mostrare i due aerei schiantarsi contro il World Trade Center, la pervasività televisiva li ha ampiamente descritti quali incombenti minacce alla sicurezza dell’intera nazione.

Il quadro clinico della sindrome post-traumatica è contrassegnato dal lacerante e intrusivo ritorno di engrammi mnesici relativi al vissuto dell’accadimento. La ferita viene a riaprirsi e reagisce sanguinando anche nella dinamica psicologica dello spettatore che rigetta a priori l’immagine, in quanto assolutamente intollerabile.

Nel ruolo della psicopatologia collettiva paradigmatica d’un’epoca, il trauma psichico avrebbe allora sostituito la classica paranoia. Quasi quale corpo contundente, l’assalto delle immagini colpisce con una violenza che trascende il suo stesso significato, non tanto per l’eloquenza della simbologia, bensì, come scrive Nicholas Mirzoeff, in “Watching Babylon” (2005),  per la “forza inesorabile della loro mera presenza”.

Ci si chiede se qualunque trauma avrebbe in ogni caso una sua origine anch’essa traumatica, pure se spesso dubbia e persino inconsistente, come nel caso delle nevrosi.

Difatti, il primo riferimento di Sigmund S. Freud (1856-1939) a questo particolare meccanismo d’azione “traumatica” (“Projekt für eine wissenschaftliche Psychologie”, 1895), prese il nome di “Nachträglichkeit” (“après coup” in francese, o “azione differita”), perché disse: “Troviamo sempre che viene rimosso un ricordo che è diventato un trauma solamente più tardi”.

Secondo questa definizione, un evento traumatico diventerebbe veramente tale solo in un momento di successiva elaborazione intrapsichica. L’accento della dinamica traumatica, dunque, si spostava da una “fattualità esterna” alla risonanza intrapsichica che la prima può suscitare.

Questa riflessione freudiana non procedette in maniera lineare, presentando sia continui sviluppi, sia ritorni su posizioni precedenti, tutti comunque centrati intorno alle varie modalità di reciproco influenzamento fra eventi esterni, “fattuali”, da un lato, e, dall’altro, un’attività fantasmatica e rappresentativa intrapsichica, condizionata da dinamiche pulsionali. Finché il ruolo patogeno non lo fece assumere, in maniera preponderante, alle “attive” fantasie infantili, di tipo incestuoso ed edipico, raggruppate sotto il termine di fantasmi originari (scena primaria, castrazione, seduzione).

Con il declinare di quest’ultima, intesa quale seduzione infantile “perversa”, comparvero riferimenti a normali situazioni di “precoce” seduzione, inavvertitamente messe in atto nel corso dell’accudimento corporeo. Un’universalizzazione e una retro-datazione di situazioni potenzialmente “traumatiche” che venne in seguito sviluppata in “Hemmung, Symptom und Angst” (1925), in cui vien dato particolare rilievo al ruolo sostenuto dalla perdita, dalla mancanza, e dalla condizione di impotenza (hilflosigkeit), in contrapposizione alla presenza intrusiva, e disorganizzante, violenta, o seduttiva, che aveva fino ad allora caratterizzato lo scenario traumatico.

Questo tema delle carenze assistenziali, non necessariamente vissute immediatamente come drammatiche, ma che si ripetono e si prolungano nel tempo, con effetti traumatici, è stato ripreso da Donald W. Winnicott (1896-1971), come pure da Wilfred R. Bion (1897-1979), Piera Aulagnier (1923-1990), André Green (1927-2012), nonché da Christopher Bollas.

Nel concepire la teoria del trauma “cumulativo”, derivato dalle tensioni e dagli stress sperimentati nel contesto della dipendenza dell’Io infantile dalla madre, Io ausiliario e insieme scudo protettivo, M. Masud R. Khan (1924-1989) ha sottolineato una modalità traumatica “strisciante”, che per lo più passa inosservata, ed è trascurata sia dal soggetto che ne risulta “colpito” sia dall’ambiente che lo circonda. Tali concetti riportano alle idee di Winnicott, relative al crollo o difetto della madre, per quanto riguarda la sua funzione di dosaggio e regolamentazione degli stimoli esterni e interni, che può portare a una situazione di invasione a effetto destrutturante sull’organizzazione e integrazione dell’Io del bambino.

Quanto l’interpretazione filosofica di un Jackie Élie Derrida (1930-2004) sottolinea dell’ipotesi freudiana circa l’incertezza o superfluità dell’origine traumatica nella genesi della nevrosi è stato poi applicato alla critica della narrativa letteraria. Mentre prima avrebbe comportato soltanto rimozione, e silenzio, oggi il trauma verrebbe persino evocato, e rivendicato, quale fattore identitario, tanto da farlo sospettare sia pur in assenza del medesimo: dunque, un trauma sine trauma.

Che sia forse un’impotenza (hilflosigkeit) autodenunciata nella crisi dei linguaggi in cui si riflette l’esperienza del vivere associato, o meglio ancora un difetto di forma nel quale modellarsi retroattivamente (nachträglichkeit), che obbliga a un supplemento di spiegazione per rivendicare orgogliosamente una giusta riparazione, quale istanza di irriducibile verità da esprimere?

Quando un’oscena vergogna assurge a feticcio sembra che il rapporto con la realtà sia stato requisito interamente dall’immaginario!

L’alternativa a un trauma non nostro, mai completamente nostro, infatti, è un’imperturbabilità di risulta”, – asserisce Scurati. “Siamo o spettatori sconvolti dalla nostra sedicente sofferenza o indifferenti a quella altrui. Rimpiccioliamo, riducendo la superficie vulnerabile dei nostri corpi, oppure incalliamo, mettendo avanti le nostre cicatrici. Oscilliamo tra autentica banalità e orrore inautentico. Trauma o noncuranza. Siamo psicolabili o blasé. O entrambe le cose”.

Quali i postumi d’una catastrofe non accertabile, se non il turbamento di quel che poteva accadere?

Il disordine post-traumatico da stress rientra nell’esigenza narrativa d’una “malattia professionale”, tipica dei reduci accomunati da quelle esperienze estreme da raccontare per la loro rarità. Pietra di paragone non possono che essere i miti e i modelli letterari del mondo classico.

Jonathan Shay però lo reputa alla stessa stregua d’un banale infortunio: “For years I have agitated against the diagnostic jargon ‘Posttraumatic stress disorder’ because transparently we are dealing with an injury, not an illness, malady, disease, sickness, or disorder“.

Non una malattia, disturbo, disfunzione, morbo, infermità, ma la persistenza di comportamenti adattivi necessaria per sopravvivere in un ambiente stressante. L’intorpidimento emotivo, per esempio, torna utile in una situazione di emergenza e di disadattamento familiare; e la perdita di fiducia migliora la sopravvivenza in una prigione, anche se non in altri ambienti comunitari.

La storia del disturbo da stress post-traumatico costituirebbe poi, per Derek Summerfield, un eloquente esempio del ruolo giocato da società e politica in ciò che pare un processo creativo di “invenzione”, piuttosto che di scoperta etiologica.

Questa diagnosi è un retaggio della guerra americana in Vietnam ed è, per molti versi, un prodotto delle vicende postbelliche dei coscritti. Tornati a casa, scoprono d’essere sotto accusa per via delle atrocità commesse da alcuni di loro contro gli inermi civili. E questo avrebbe generalizzato l’epiteto di “psicopatico antisociale“, pesando fortemente nel riaggiustamento del loro ruolo in tempo di pace. Tale equivoca accoglienza ha agito da fattore primario nelle difficoltà incontrate nel riadattamento, tanto che  coloro i quali si sono sottoposti poi a visita psichiatrica hanno ricevuto diagnosi generiche diversissime da stato d’ansia, depressione, ad abuso di sostanze, disturbi della personalità, e perfino paranoia o schizofrenia; diagnosi queste solo in seguito sostituite da disturbo post-traumatico da stress.

I primi a sostenere tale diagnosi, quale degna succeditrice delle precedenti nevrosi di guerra, o “battle fatigue”, facevano parte del movimento politico contro la guerra, disgustati dal fatto che la disciplina psichiatrica fosse stata impiegata per servire gli interessi militari e dei poteri forti, piuttosto che quelli dei pazienti-soldato. I proponenti il disturbo da stress post-traumatico si prefiggevano lo scopo di incentivare per i veterani delle cure mediche specialistiche adeguate alla nuova diagnosi, destinata inoltre a spostare il centro dell’attenzione dai semplici dettagli di sfondo della psiche d’un soldato duramente provato alla sostanza concettuale della natura fondamentalmente traumatogena della guerra stessa.

Una potente trasformazione questa, di tipo essenzialmente politico, in quanto i veterani non sarebbero più stati inquadrati come colpevoli autori, o esecutori materiali di delitti impuniti, ma come persone traumatizzate da ruoli che erano stati spinti a sostenere dalle autorità militari. La nuova diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, trovando inappellabili prove medico-scientifiche a discarico, avrebbe pertanto offerto alibi morali e condivisibili discolpe alla difesa da pesanti accuse di ingiustificabili omicidi multipli, ispirati da fattori squisitamente ideologici, avrebbe garantito una pensione di invalidità, e infine legittimato il loro “vittimismo”.

Come Derek Summerfield, pure Shay si batte contro quest’etichettatura di disturbo post-traumatico da stress e il conseguente trattamento paternalistico, limitandosi a raccomandare la risocializzazione dei sopravvissuti al trauma quale unico metodo per promuovere più accettabili modelli di comportamento.

In “Achilles in Vietnam” cita, come possibili precedenti, il teatro classico greco e il lutto collettivo descritto nell’Iliade. E, con “Odysseus in America”, si richiama a una sorta di comunicazione che completi il circolo virtuoso del ricordo raccontato con fedeltà e sufficientemente trasmesso e compreso nella verità dell’esperienza originaria.

Attualmente tale sindrome sembra invece circoscrivere il quadro clinico dell’uomo vessato dal nostro tempo, stordito e confuso dall’intrusione di immagini più che da ricordi veri e propri, o irritato dallo sfavillio di quelle immagini aggressive.

In ogni caso, l’evento è già accaduto… anche se non a noi!

Non guarda nel vuoto ma il vuoto… – dice Scurati, descrivendo lo sguardo allocchito d’un traumatizzato – È tempo aoristico questo partorito dalla bolla di fuoco, il tempo del passato perfetto, in cui tutto è già stato, la catastrofe è colma, eppure noi, come lo psicotico di Winnicott, continuiamo a fremere ‘per una catastrofe già accaduta’. È il tempo in cui tutto il significato è riposto nel passato. Un passato di cui non si dà memoria. Ciò nonostante, è un significato di morte. È il tempo di quel vecchio condannato a morte, fotografato un istante prima dell’esecuzione, che è sempre già morto e sempre sul punto di morire.

Della fotografia Roland Barthes (1915-1980) pensava: “Medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo“.

E che aggiungere su quel vuoto futuro allucinatorio che non nutre speranze, ma solo alimenta paure?

Schiacciati sul presente da un passato reiterato, dimentichiamo quest’ultimo come pure l’avvenire. Perché quando avverrà è come se fosse avvenuto, all’interno d’un incessante propulsione al movimento che non produce spostamento alcuno.

Ciò che arriva”, dice Paul Virilio, corrisponde all’infantilizzazione televisiva degli spettatori, costretti a vivere la frustrazione del tentativo fallimentare di procedere altrimenti; cittadini d’una telecrazia fondamentalista che aspettano un im-perdibile Godot, sotto forma d’accidente da riprendere in diretta, in mondovisione, sullo sfondo d’una possibile, ma impassibile, tele(ir)realtà inumana.

In un breve racconto di “science fiction” (“The Minority Report”,1956), Philip K. Dick (1928-1982) ha ipotizzato l’eliminazione della maggior parte delle azioni criminali, grazie all’istituzione d’un corpo speciale di polizia “preventiva”, in grado di sventare i crimini prim’ancora che possano essere commessi. La squadra dei  precognitivi, a livello di impressioni neuronali,  vivrebbe in anticipo gli avvenimenti delittuosi che poi non sarebbero accaduti, proprio in virtù del loro intervento.

Nel 2002, Spielberg avrebbe portato quella trama sul grande schermo quale metafora della guerra di Bush, per alcuni preventiva, per altri premeditata. Richard Grusin ha fatto ricorso a una terminologia piuttosto affine di ‘pre-mediazione’ di eventi futuri, necessaria in un’epoca di accresciuta ossessiva richiesta multimediale di sicurezza. In risposta allo shock dell’11 settembre, stampa, televisione e la rete avrebbero stipulato una sorta di “assicurazione”; un lavoro di prevenzione, e assuefazione, che per la natura stessa della sua finalità e del suo mezzo informativo, onde perpetuare bassi livelli di apprensione, colpisce d’anticipo l’intera collettività nei suoi gangli connettivi più suscettibili a tale pre-mediazione.

L’esperienza del futuro ci sarà sempre fornita dalla “mediazione” tecnologica, che l’ha già vissuto, esperito e compreso in anticipo, giungendoci filtrato dalle stimolazioni sensoriali di massa che ci lasceranno solo l’incombenza di osservarlo da spettatori, in una condizione di inedito déjà vu.

Una nuova logica mediale anticipatoria e strategica, in risposta al trauma nazionale del fallimento nel controllo della realtà, che ora però punta tutto sull’immaginario. Questa politica di ricerca del senso di sicurezza mira a depotenziare di fatto gli accadimenti, attraverso una loro sistematica metabolizzazione astratta. Ne è nata una modalità nuova, non narrativa, di produzione dell’informazione, che non racconta gli avvenimenti, ma “premedia” delle ipotesi. Quasi un “rimedio” preventivo impostato sulla ri-mediazione storica di quanto accaduto in precedenza, al fine di meditare e premeditare sull’avvenire.

Ne ha risentito lo stesso linguaggio mediatico, in una  messa in scena dell’interruzione della prevedibilità che  fosse funzionale al palinsesto; e, col porre in equilibrio l’esorcismo dell’apprensione dell’attesa con un’angoscia paranoide, avrebbe pure consolidato delle convenzioni sociali.

L’intollerabile inatteso, come reale, è subentrato all’irreale, terrifico e riassorbibile, sconvolgendo qualsiasi programma di previsione, revisione e controllo.

Se la condizione di crescente insicurezza ha reso precaria ogni promessa di benessere, allo scopo di superare l’evidente discrepanza fra lingua e realtà, che rischia di inficiare qualsiasi forma di comunicazione, s’è avvertita la  necessità di ridefinire, non solo semanticamente ma pure giuridicamente, oltre che la valenza delle parole, gli stessi concetti sottoposti ai pericoli della globalizzazione. E, per impedire che il futuro si possa manifestare in una maniera differente dalle previsioni premediate, s’è finito per moltiplicarle, incrementandone la produttività, nell’illusione che niente possa più accadere in quanto tutto è già accaduto.

La chiusura del ventaglio di possibilità alternative apre un’ineluttabile scenario politico autocratico circa le decisioni che si devono prendere ma che non possono prendersi perché sono state già prese.

Come il tempo, ogni opinione è divenuta aforistica, tanto da suscitare la perplessità di un Francis Fukuyama che, nell’estate del 1989, ancor prima della caduta del Muro di Berlino, su The National Interest, si chiese se la storiografia fosse finita (“The End of History?“). Al concetto di storia universale dell’umanità, “direzionale” per i traguardi raggiunti, o da raggiungere, si affiancava un ripensamento teorico che ne inquadra le controverse contraddizioni. Ma, tra gli accadimenti epocali e i loro contenuti fatidici, che certo sarebbero venuti meno, si erano pure profilate delle mutate modalità nella loro narrazione.

A ripensarci oggi, il tempo della storia portava sempre con sé un’aspirazione al compimento, – aggiunge Scurati -a superare il momento presente verso una fine che fosse anche il fine, verso il momento conclusivo e riepilogativo nel quale il protagonista del romanzo, voltandosi indietro, potesse dire: ‘Dunque è andata così, proprio così…’. Una fine che completasse, un fine che compisse, questo è stato il segreto tormento, l’aspirazione violenta, la paura e il desiderio degli uomini al tempo della storia”.

Tra la teleologia storica e la conclusività del racconto v’è una relazione semantica significativa. “It is not expected of critics as it is of poets that they should help us to make sense of our lives; – affermò  John Frank Kermode (1919-2010) – they are bound only to attempt the lesser feat of making sense of the ways in which we try to make sense of our lives.

Se appartiene ai poeti dare un senso alla vita, i critici sono però tenuti a fornire delle spiegazioni analitiche alle modalità da quelli impiegate. Sia nelle grandi narrazioni che nella moderna fiction sono onnipresenti riti e miti delle cronologie quotidiane, che vanno dalla scansione delle stagioni fino alle ansie millenaristiche. “Mille e non più mille” è forse la profezia più ricorrente che ipotizza catastrofi universali e fine del mondo quasi a ogni passaggio di secolo. Tuttora al centro del dibattito filosofico contemporaneo continua a permanere l’idea stessa di apocalisse, che sebbene abbia perduto il suo vecchio significato di imminenza, ne ha acquistato uno nuovo, di tipo descrittivo, in linea del resto con il primitivo etimo “rivelatore”.

Finito il tempo della storia, è inesorabilmente iniziato quello della cronaca. Proprio perché, insistendo sul momento presente, la cronaca non conosce compimenti, nemmeno ne rileva l’assenza; non si pone il problema di un corretto inserimento nel sistema logico-sintattico della “consecutio temporum”, né riconosce altre coniugazioni verbali che non siano in atto rigorosamente contemporanee alla violenza di turno, impossibile da inquadrare dentro una cornice di poco più ampia, che comprenda l’imperfezione della memoria individuale e della previsione collettiva.

Anche la cronaca, anzi soprattutto la cronaca, subisce il fascino della rappresentazione, ma  poi magari non si sa più di quale realtà. L’espansione dell’età dell’adolescenza ha inglobato pure il tempo nella sua attualità cronachistica. Le caratteristiche di diversità vengono dettate dalla dispersione e dall’apparenza. Gli avvenimenti restano provvisoriamente privi di connessioni con la maturazione delle altre vicende.

La violenza della storia annoverava dei protagonisti, eroi che si espongono ai rischi, o colgono le occasioni offerte dalle azioni da compiere. La violenza della cronaca rende invece tutti impotenti, spettatori passivi e vittime inerti.

La storia, fino a pochi anni addietro, si sarebbe esposta come un processo evolutivo orientato secondo uno scopo ideologicamente determinato, quale disegno politico, o  reazione programmatica, in un tracciato che ne delineasse un significato intellegibile. La cronaca non conosce una sintesi, si espande in interminabili analisi tra loro slegate, disgiunte in labirinti dagli intrighi innumerevoli; insomma non procede, ma somma.

Alain Badiou s’è posto il problema di “ciò che è successo”, scegliendo infine di concettualizzare “ciò che si è pensato”, al di fuori della storica prosecuzione d’un’ideologia anteriore, che non fosse un unico tipo di unità obiettiva. Ha concluso con l’argomentare circa una “passione del reale”, proveniente dalla convinzione romantica, ottocentesca, che le profonde trasformazioni annunciate prima dovessero trovare attuazione nel secolo appena trascorso, il quale, nella sua essenza, non sarebbe potuto che essere nichilista, in quanto per far nascere il nuovo è necessario annientare il vecchio, e, nella sua forma, ancora classicamente epico. Adesso, l’epicità ha ceduto alla modalità cronachistica, pur rimanendo l’essenza sempre più abbarbicata al precedente nichilismo, che anzi si sarebbe andato ad accentuare.

La lotta per la libertà avrebbe dovuto avere quale posta in gioco la verità, che è divenuta nel frattempo l’oggetto d’un opinionismo aggressivo e impudente, ordinario e ovvio, quasi a rappresentare una quotidiana, secondo l’espressione di Hannah Arendt (1906-1975), “banalità del male”, separata dal senso, visto che i fatti di cronaca son sempre violenti, quasi per antonomasia. Di fronte a essi, ci si ammutolisce, come Lord Chandos: “Ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”!

L’estensore immaginario di “Ein Brief” (1902) di Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) paragona a “funghi ammuffiti” i concetti astratti, per poi estendere la sua repulsione a ogni singola parola del linguaggio. Ora, avvertita da Camus, ne “La Peste” (1947), come un “dover accettare di vivere giorno per giorno, e solo di fronte al cielo”, la violenza della cronaca sentenzia un’ulteriore condanna senza possibilità d’appello.

L’attuale Zeitgeist, proteso verso l’immaginifico, sembra impermeabile alla distinzione tra vero e falso, più che tra reale e fittizio, ancorché verosimile. Ma la narrazione documentaria possiede, come si chiede Scurati, la medesima “propensione a dissotterrare l’inestirpabile radice del male”, che avrebbe più volte dimostrato la creatività della fiction?

Pietro Montani sostiene che una certa tendenza degli audiovisivi avrebbe fornito irrefrenabile impulso a un universo narrativo altrettanto irriducibile ai canoni della letteratura; spingendo “la dimensione del racconto oltre gli schemi di composizione del testo scritto“, è approdato a una dimensione “oltre-letteraria“, in grado di “risalire sino alle radici profonde” delle medesime modalità di raccontare, mediante l’esplorazione di quella “regione immaginativa in cui, prima ancora di trovare le sue forme, la comprensione narrativa delle cose e del tempo che le connette si fa cogliere nel suo più originario, e problematico, dischiudersi“.

Evidenzia, pertanto, problematizzandola, quella disponibilità del cinema a occupare lo spazio offerto dall’originaria apertura “in cui ne va della disposizione reciproca del ‘fattuale’ e del ‘finzionale’, del dato e del costruito, della cosa e dello sguardo“.

Citando l’enunciato del protagonista del “Pierrot le fou” (1969) di Jean-Luc Godard, che ambiziosamente descrive il suo progetto “narrativo” in “Non più scrivere la vita della gente. Ma soltanto la vita. La vita da sola. Quello che c’è tra la gente: lo spazio, il suono, i colori“, distingue ciò che può essere raccontato (della “vita della gente“) da quanto invece non appartiene all’ordine del narrativo (ma alla “vita da sola“).

Una certa “prestazione” filmica si muoverebbe in quello spazio intermedio proprio dell’immaginazione tra “qualcosa che è dato” (ed è “fattuale“) e quel “qualcosa che ha senso” (ed è “finzionale“, e funzionale), in una tendenza che “non mira a perlustrare le radici profonde del racconto al fine di distruggerlo“, bensì ne percorre a ritroso l’istanza, per privilegiare “la complessità della prestazione immaginativa originaria da cui quell’istanza dipende“.

Ovviamente fondamentale importanza assume, in un tale orizzonte concettuale, la questione del rapporto fra il tempo del racconto e il tempo della vita, fra la “chiusura finzionale“, e funzionale, del primo e la “fattuale” apertura, a ciò che viene (“Ce qui arrive”), nell’altro.

Il rischio che si corre è che sempre di inesperienza si tratti, della deprivazione cioè da fatidicità, irreversibilità, continuità. La prevalenza dell’immaginario sproporziona il rapporto tra visibilità e spettacolarità, diminuendo per di più la capacità di libero discernimento sull’agire politico. Per uno spettatore totale, ormai globalizzato, diviene irrilevante una vera pre(te)sa cognitiva  sulla realtà.

Nel regno del fictual nemmeno l’annientamento dell’essere umano significa più qualcosa in se stesso, ma assume il proprio significato per rifrazione dalla diffusione mediatica delle immagini della sua distruzione, come nel terrorismo mediatico…”, precisa ancora Scurati; mentre “…Nel regno del fictual si uccide al futuro anteriore. In vista del significato che questa uccisione un giorno avrà assunto al termine della sua circolazione mediatica, in vista di ciò che un giorno il morto sarà stato dopo che verrà tradotto in immagine”.

Edgar Morin ha analizzato forme, contenuti, meccanismi ed effetti della cultura di massa, dimostrando come questa, oltre a costituire un nuovo strumento per “fughe immaginarie dal mondo”, sia pure una modalità autonoma e specifica di partecipazione alla realtà.

La catarsi della scena drammatica è però scaduta in un volgare consumo cronachistico, apotropaico o consolatorio, in cui il tema sacrificale di “coloro che muoiono in vece mia”  viene macchiato dall’aberrazione: “loro muoiono e io no”. Congeniale, allora, alla fondamentale tendenza della cultura di massa non è altro che un de-genere passaggio di genere: “dal tragico all’osceno”.

Giuseppe M. S. Ierace

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