Quelle dita, convulsamente contorte, quali tentacoli di palmi inchiodati crudamente al braccio orizzontale, che, in una croce rozzamente abbozzata, si flette al peso morto dell’appeso, si protendono da membra disarticolate, guidando lo sguardo sulla testa, ancora coronata di spine, reclinata sul lato destro, a denunciare la smorfia dell’ultimo spasimo. L’estremo ansimare che precede la morte, come macabro trofeo, innalzato su un grezzo fusto ritorto e grossolanamente intagliato.
“Come un predicatore della Passione, – scrisse Ernst H. Gombrich, in “The story of art” (1950) – Grünewald non risparmiò nulla pur di esprimere gli orrori della crudele agonia: il corpo moribondo di Cristo è deformato dalla tortura della croce; le spine dei flagelli penetrano nelle ferite suppuranti che ricoprono l’intera figura. Il sangue rosso scuro contrasta nettamente con il verde smorto della carne. Cristo crocifisso esprime il significato della sua sofferenza attraverso le fattezze e il gesto commovente delle mani.”
Il dipinto di Mathis Gothart Nithart, meglio noto come Matthias Grünewald, costituisce uno dei pannelli centrali dell’Altare di Isenheim, conservato nel Musée d’Unterlinden a Colmar, e prosegue nei dettagli inferiori di ginocchia contorte sui polpacci, mentre dai piedi, accavallati e trafitti, di cui l’alluce sinistro si avvoltola al pari delle dita delle mani, sgocciolano in macchie ematiche gli ultimi segni della vita allo stremo, per andare a prosciugare un corpo già livido per le percosse. Ferite assalite dal marciume fanno apparire le carni martoriate come putride sezioni cadaveriche. E, all’ora del crepuscolo, il paesaggio mostra paludose acque stagnanti, in cui anche la natura si raggruma per decomporsi.
Principale riferimento ad alcuni particolari di quella concezione pittorica, definita da Roberto Salvini (“Il Cinquecento europeo”, 1985): “La più straziante Crocifissione che la storia della pittura ricordi”, sembra sia stato un testo mistico allora appena tradotto (1502) dal latino in tedesco: Le Rivelazioni celesti di santa Brigida, in cui si descrivono proprio le estremità degli arti: “I suoi piedi si erano girati intorno ai chiodi come sui cardini di una porta, voltandosi dall’altra parte”.
Nel primo capitolo di “Là-Bas” (1891), Huysmans fornì un’incomparabile descrizione di un “cadavere in eruzione”, con “il volto gonfio, la fronte disfatta, le guance avvizzite” e quegli orrendi piedi “spugnosi e scagliosi”. Successivamente, in “Trois églises et Trois primitifs” (1908), avrebbe commentato: “Quel Cristo spaventoso, morente sull’altare dell’ospizio d’Isenheim sembra fatto a immagine dei colpiti dal fuoco sacro che lo pregavano, e si consolavano al pensiero che il Dio che imploravano avesse provato i loro stessi tormenti, e che si fosse incarnato in una forma ripugnante quanto la loro, e si sentivano meno sventurati e meno spregevoli“.
Per secoli, l’altare di Isenheim sarebbe stato attribuito a Dürer, poi Jacob Burckhardt lo riconobbe, restituendolo al legittimo autore (“Handbuch der Geschichte der Malerei”, 1844), ma per la prima grande monografia, da parte d’uno storico dell’arte, bisogna aspettare Heinrich Alfred Schmid (“Die Gemälde und Zeichnungen von Matthias Grünewald”, 1911). Nel periodo di maggior trionfo dell’espressionismo tedesco, quando nel 1920 il grande altare fu esposto a Monaco, quella tormentata figura ricevette la meritata accoglienza tributata a un precursore.
Le parole di un Huysmans, ormai narratore maturo, amplificano fino a esasperare le emozioni suscitate dalla pittura, quasi a rivedere l’opera grazie allo sguardo deformante del pittore. Così quel Cristo è “gigantesco, sproporzionato”, il suo corpo “livido e lucido, picchiettato di sangue, irto, come il riccio di una castagna, per le schegge delle verghe rimaste nelle piaghe; all’estremità delle braccia, smisuratamente lunghe, le mani si agitano convulse e graffiano l’aria; i nodi delle ginocchia accostate sono rivolti all’interno, e i piedi, ribaditi l’uno sull’altro da un chiodo, non sono più che un ammasso confuso di muscoli sui quali le carni guaste e le unghie già blu stanno marcendo; il capo, circondato da una gigantesca corona di spine, si abbandona sul petto, che è come un sacco rigonfio, rigato dalla gabbia delle costole”.
Definito “il più forsennato dei realisti” ma anche “il più forsennato degli idealisti”, Grünewald, in questo “Cristo dei Poveri”, impietosamente descrive il disfacimento della carne riuscendo contemporaneamente a trasfigurarlo e a rivelarlo nella sua “celeste Superessenza”. A “quell’ideale di realismo sovrannaturale e di vita verace e redenta” si sarebbero potuti avvicinare, non senza sforzo, solo i racconti dei visionari mistici, come Anna Katharina Emmerick. La narrazione tenta di mediare l’immediatezza delle immagini, fin quando però lo scrittore arriva ad ammettere l’impotenza della sua descrizione, non avendo la pittura “equivalenti in nessun linguaggio”.
Il rapporto tra scrittura e pittura viene affrontato, da una prospettiva più tecnica, da Jonathan Littell, in “Trittico tre studi da Francis Bacon” (traduzione di Luca Bianco, Einaudi, Torino 2014), dove, citando Manuela Mena, sostiene che “uno scrittore può eliminare le parole, ma un pittore non può realmente cancellare la pittura. Così, l’unico modo per dipingere in economia è pensare in anticipo a quello che farà”.
A suo modo, anche Bacon inseguiva la possibilità d’inquadrare le aggressioni della realtà, “crocifiggendole” nella “violenza della pittura”.
“L’esperienza della morte – diceva Hans Belting – è stata uno dei più potenti motori della produzione di immagini da parte dell’uomo”. Maurice Blanchot (“L’espace littéraire”, 1955) ammetteva che: un cadavere è già un’immagine! Mentre, per Gaston Bachelard, “La morte è prima di tutto un’immagine, e resta un’immagine”.
“Ciò che nel mondo dei corpi e degli oggetti è la materia, nel mondo delle immagini è il mezzo”, chiarisce lo storico dell’arte tedesco. Questa consapevolezza della mancanza di vita equivalente al distacco dalla stessa e a un suo lontano riferimento, il pittore irlandese l’applicava nella pratica in cui la presenza dell’espediente veicola l’assenza di ciò ch’è raffigurato.
Dipingere corpi costituisce il tentativo di perseguirne la più precisa rappresentazione possibile, nell’afferrarne le più segrete sensazioni. Nelle tele di Bacon non vediamo l’apparenza d’un corpo, ma ciò che il corpo avverte, non l’aspetto ma la percezione, l’intenzione, il suo alitare e mostrarsi intimamente, oltre qualsiasi nuda crudezza, anche a costo di trasformare l’estetica esteriore in deformazioni capaci di scoprire direttamente l’indifesa personalità del soggetto. “C’è un sopracciglio che improvvisamente è proprio come me, o un pezzetto di occhio. So che sono io”, confermò una sua modella.
Bacon ammetteva provocatoriamente d’essere interessato a dipingere carne macellata (tipo “Pittura” del 1946), in apparizioni oniriche, il che farebbe del corpo quel “teatro di immagini d’origine ignota”, di cui parlava Belting.
Ogni immagine risulta stracarica di significati concettuali che si offrono a più letture.
Che il pittore pensi con i pennelli è una teoria che risale a Vincenzo Carducci, noto in Spagna come Vicente Carducho, la cui opera venne offuscata presso la corte reale dal tumultuoso sopravvento di Velázquez. A proposito del quale, John Francis Moffitt parla di “linguaggio simbolico, spesso criptico, carico di significati emozionali e altamente erudito che è sotteso a una gran parte del repertorio d’immagini di quel periodo – come dire: profonde verità velate dalla banale realtà”.
Las Meninas sembra riassumere l’importanza di questa intelligenza pittorica in uno stesso “processo mentale del disegno interno che necessariamente precede l’atto fisico del disegno esterno”, riportandoci così alle considerazioni di Manuela Mena.
Nel corso dell’ultimo restauro al Museo Nacional del Prado, intravide sotto lo scomparso tendaggio, un valletto offrire a Margarita Teresa il bastone reale, probabilmente allo scopo di far accettare, all’aristocrazia agraria e alle recalcitranti Cortes, l’inaccettabile discendenza femminile, contraria al diritto di successione sancito dalla legge salica. La finalità del dipinto, quando venne realizzata la prima versione del 1656, era politica, di propaganda dinastica, quella di affermare l’avvicendamento con una graziosa bambina, sulla quale s’irradia l’autorità del re, riflessa in tutta la sua potenza da quel famoso specchio centrale, da cui si diffonde in tutta la sala rappresentata nel quadro.
Dopo la nascita dell’erede maschio, Felipe Pr?spero, il messaggio perde l’originario significato e, al posto del paggio offerente, il pittore si ripiega sulla raffigurazione di sé, in procinto di dipingersi nel medesimo quadro, con cui allusivamente richiede l’onorificenza ricevuta poi solo due anni dopo.
Sull’ultima pagina dei Diálogos de la Pintura (1633), Carducho aveva inciso la frase “Potentia ad actum tamquam tabula rasa”, esplicata dai successivi versi: “Sulla tabula rasa che è così eccellente/ da vedere in potenza ogni cosa/ solo il pennello con sovrana scienza/ può ridurre in atto la potenza”. Velázquez certo l’aveva letta. L’operazione dinastica divenne allora un gioco teatrale di finzione cortigiana e, per Daniel Arasse, l’obsolescenza assurse ad aneddoto d’un capriccio. Il pittore stava dipingendo la coppia dei sovrani, quando viene interrotto dall’irruzione dell’infanta, che irrequieta vuol riverire i genitori, con al seguito la sua piccola corte di cani e nani deformi.
Nel 1961, Bacon riprende questa visione, dipingendo un “Bambino paralitico che cammina a quattro zampe (da Maybridge)”. Il nudo fanciullo che incede, “con un movimento non del tutto umano né del tutto animale” verso un telaio vuoto, richiama sia la “tabula rasa” di Carducho, sia l’autoritratto dell’artista di Velázquez, e, come nel Macbeth di Shakespeare, “striscia a piccoli passi da un giorno all’altro/ fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno illuminato a degli stolti/ la via che conduce a una morte polverosa./ Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina…”.
Lo stesso telaio rivoltato viene ripreso nel pannello centrale del “Trittico – In memoria di George Dyer” (1971), divenendo l’ultima cosa che il soggetto, con la testa immersa nell’ombra, vede sulle scale, prima d’avviarsi a morire. Quella tela montata che possiamo osservare solo dal retro nasconde forse il suo assassino. Grazie al richiamo alle Meninas, infatti possiamo sapere che la superficie dipinta, per altro invisibile ai nostri occhi, raffigura l’amante pittore, autoritratto in qualità di Narciso.
In “Trittico – Studi sul corpo umano” dell’anno precedente, la figura di sinistra, inginocchiata su una trave, si avvita su se stessa come le dita e il legno della Crocefissione di Grünewald, mentre quella di destra David Sylvester la ricollega al Narciso di Caravaggio, “spogliato e cambiato di genere”, come dice Martin Harrison, per via della spalla alterata in modo da trasformarsi in un altro seno. In questa autorappresentazione, Narciso non si riflette, ma pittoricamente è come se andasse scemando. Seguendo la lezione di Leon Battista Alberti, da ermafrodito incantato e bramoso, in quel color lavanda, non affonda solo lo sguardo ma tutta la sua figura, ribadendo, se ce ne fosse ancora bisogno, dove sia realmente il riflesso.
Non si uccidono così anche gli artisti?
La psicanalisi definisce l’immaginario del concepimento quale “scena capitale”, alla stessa stregua d’un’esecuzione, in cui l’atto principale è la scomparsa dal mondo. L’etimologia ci soccorre, nell’indicarci di qualità assolutamente vitale tutto ciò che discende, deriva, dipende dal “caput”, la testa, la parte più nobile del corpo. Capitale potrebbe allora senz’altro essere l’accoppiamento come appunto la pena di morte.
In questo senso, e non solo per questo, lo spettacolo della morte si presenta analogo alla pornografia con i suoi annessi scopofilici. Ed è dalla rapida evoluzione verso l’ultra-hard, di messe in scena ambigue ed estreme, che procede “La Morte come spettacolo. Indagine sull’Horror reality” (Mondadori, Milano 2013) di Michela Marzano.
La caratteristica del porno è il suo “sapere” abilmente, e contestualmente “poter essere”, un misto di realtà e finzione. Ma, dove finisca l’artificio e cominci la partecipazione attiva, fino a che punto si esegua una rappresentazione, e si segua una sceneggiatura, viene difficile desumerlo da un agire che in certi momenti non può che essere completo, totalizzante. Nella loro immediatezza, emozioni forti come l’orgasmo sessuale, o l’atroce sofferenza dell’agonia, risultano refrattari a norme regolatrici, né sono suscettibili d’una qualche forma di dialettizzazione.
Un voyeur, anche qualora sia tanatofilo, con risvolti prossimi alla necrofilia, va alla ricerca di vero pathos, tende a prediligere la cruda realtà dell’esibizione, piuttosto che uno spettacolo montato a bella posta a fini palesemente commerciali. Per cui, ben presto i documentari e i film amatoriali sono divenuti più apprezzabili di quelli confezionati ad hoc. E, di pari passo, è nata la patologica ricerca dei cosiddetti “snuff movies”, relativi a stupri e vittime reali o l’invidia per quei pochi privilegiati che per esempio hanno assistito in diretta all’accerchiamento ed esecuzione di Osama bin Laden.
Pur restando per tutti fondamentale la certezza d’una realtà il cui impatto ci lascia definitivamente soccombenti, a seconda della sensibilità emotiva, degli interessi culturali e del livello di informazione, il senso del tragico si prospetta in maniera differente in ciascuno di noi. Gli esiti, pertanto, saranno diversi in caso di sofferenza e di lutto, dall’evidenziazione della conflittualità alla rassegnazione della problematica deterministica.
Nel concorrere a svelare aspetti nascosti o creare atteggiamenti nuovi di fronte all’ultima verità, il discorso, da soggettivistico, si può fare letterario. Da questo punto di vista, la tragedia greca continua a proporsi negli insegnamenti in cui la narrazione si articola e in quelle qualità di cui è ancora portatrice nella psicodrammatica rivelazione della tensione, come nel rigetto di un’univocità convenzionale. Si prende coscienza del lutto, della perdita, ci si rende conto della sofferenza, e questo sapere diviene preludio della formulazione d’un qualche riscatto nella consapevolezza.
Anche se questa conoscenza non offre motivo alcuno di compiacimento, si giunge comunque alla verità. La verità che si consegue è priva di qualsiasi beatitudine, anzi si rivela persino algogena. Nel modulo d’acquisizione della consapevolezza viene a iscriversi soltanto il prendere nozione delle proprie angosce.
La tensione si stabilisce pure tra i vari livelli culturali che, in ultima analisi, si riducono al bipolare confronto tra la polis e il pensiero pre-sociale e pre-giuridico. Infatti, laddove Eschilo ha un’evidente intenzionalità etico-didattica, in Sofocle ed Euripide, l’impatto del primitivo con la razionalità diventa dirompente e la cultura magico-arcaica costituisce lo sfondo inquietante d’ogni tragedia, anche nelle stratificazioni d’uno stesso personaggio (la Medea e l’Agave delle Baccanti euripidee, l’Epido Re e la Deianira delle Trachinie di Sofocle). In particolare nell’Orestea, Eschilo propone un modulo in cui, senza eliminare il procedimento di confronto, il primitivo possa venire inglobato, sia pur nel pieno coinvolgimento emotivo, in una griglia finalizzata alla concettualizzazione d’un enunciato didascalico.
È questa una possibile e fattiva risposta all’interrogativo sulla virulenza dello sguardo?
La tragedia greca non aveva necessità di chiederselo perché le veniva in soccorso il mito della Medusa, i cui occhi pietrificano chiunque la veda. Sigmund Freud (“Das Medusenhaupt”, 1922) vi individuava il trofeo della vittoria di Perseo, che lo brandisce sollevandolo in alto, come quei talebani che hanno appena sgozzato e decapitato il loro ostaggio nei filmati islamisti diffusi sul web.
Ma la testa mozzata e orripilante della Medusa rimanda all’ovvia interpretazione dell’equivalenza decapitare-evirare, altrettanto pregnante della “scena capitale”. La rappresentazione artistica del Perseo domina il disgusto e sublima l’orrore. La semplice visione può solo abituare a sopportarli, seguendo l’ambigua procedura della dipendenza-assuefazione.
Il terrore che incute la testa della Medusa corrisponde all’angoscia di castrazione suscitata dalla vista delle nudità femminili, di quei genitali, circondati di peli attorcigliati come colubri, nella donna adulta, e nella madre per antonomasia. Ma se i capelli-serpenti della Medusa sottolineano il complesso di castrazione, non lo fanno perché suscitano spavento, anzi servono a mitigare l’orrore della mancanza del pene, che infatti sostituiscono in tutti i sensi, addirittura moltiplicandolo.
Tale visione incute timore reverenziale, generatore di colpofobia (dal greco kólpos, “vagina”), oppure muta in pietra l’incauto spettatore, lo irrigidisce. E qui irrigidimento significa erezione, una naturale reazione consolatoria alla constatazione che la temuta castrazione non è stata perpetrata, alla presenza della condizione originaria di uno stato “capitale”, di base, in cui la vitalità può ancora esprimersi. Mostrare i genitali ha funzione apotropaica, isolando l’effetto di orripilazione da quello eccitante. Quest’ultimo fa scattare il naturale meccanismo dell’erezione, il primo, se non si è eurotofobici, rammenta che siamo ancora vivi e, per il momento, a debita distanza dall’inavvicinabile.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
Blanchot M. L’espace littéraire, Collection Folio/Essais (n° 89), Gallimard, Paris 1955
Ierace G. M. S. Guardare senza vedere-vedere senza guardare, https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/guardare-senza-vedere%E2%80%A6-vedere-senza-guardare-%E2%80%93-%E2%80%9Ccostruzione%E2%80%9D-della-realta-%E2%80%93-aggressivita-%E2%80%9Coculare%E2%80%9D-fissita-iconica-interazioni-diffuse-r/669/
Littell J. Trittico tre studi da Francis Bacon, Einaudi, Torino 2014
Marzano M. La Morte come spettacolo. Indagine sull’Horror reality, Mondadori, Milano 2013
Salvini R. Il Cinquecento europeo, con saggio di Rosalia Bonito Fanelli (Storia della pittura, dal IV al XX secolo), vol. VI, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1985