“Qui si manifesta l’istanza positiva rappresentata dal relativismo culturale e dalla etnopsichiatria proprio come raccomandazione di giudicare integrazione e disintegrazione nell’interno di una cultura e non in base ad un modello astratto della ‘natura umana’ ricavato dalla civiltà occidentale contemporanea e fatto valere dogmaticamente per tutte le possibili culture” – Ernesto de Martino (1908-1965): “La Fine del Mondo”.
Oggetto di studio antropologico-culturale è “il sano nella sua concretezza, cioè nel suo farsi sano oltre il rischio dell’ammalarsi”, per cui succede che in quanto si considera “ammalarsi psichico ciò che nel sano sta come rischio di continuo oltrepassato si tramuta in un accadere psichico caratterizzato dal non poter oltrepassare tale rischio, e da infruttuosi conati di difesa e di reintegrazione”.
L’interpretazione del tarantismo nei termini di autosuggestione, o isteria collettiva, per esempio, ebbe a scontrarsi con la raffinatezza e la solidità dello storicismo demartiniano che non lasciò appiattire la casistica della ricerca sul campo a quell’unico schema del disagio mentale.
Questo dinamismo non accetta che passivamente quei comportamenti considerati manifestazioni psicopatologiche possano essere interpretati altrove variamente normali, e neppure si lascia sedurre dall’ipotesi di trovare spiegazioni delle condotte “sane” in quelle designate invece “malate”. La semplificazione della causa culturale della malattia mentale non contribuisce infatti a fornire spiegazioni esaustive di quella che è stata denominata “crisi della presenza”.
“Il dissenso comincia quando si afferma la teoria della causalità somatica di tutti i disordini mentali, sia perché i condizionamenti possono essere oltre che somatici anche interpersonali e sociali, sia perché condizione non significa causazione, nel senso meccanico di un fenomeno provocato necessariamente da un altro, e che senza quest’altro non si può assolutamente verificare”.
Muovendosi nell’ambito della vita culturale, insomma, si ricorre al morboso per capire il funzionamento del processo che caratterizza il “farsi sano”, la cui debolezza consiste nel rischio di “una anastrofe sempre di nuovo minacciata dalla catastrofe e sempre di nuovo chiamata allo sforzo anastrofico della progettazione comunitaria dell’operabile secondo valori esprimibili e comunicabili”.
Lo spaesamento e l’angoscia territoriale di fronte all’unheimlich, il ciclo del tempo e quello della vita, con le sue stagioni e i suoi momenti individuali, la paura delle malattie, i lutti e le perdite, la negazione dell’eros, la fatica e l’incertezza dei risultati che ne possono derivare sono tutte eventualità che, quale “negativo dell’esistenza”, potrebbero porsi all’origine della crisi.
Per l’autrice di “Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca” (L’Asino d’Oro, Roma 2015), il concetto più caratteristicamente demartiniano, è quello che l’antropologo napoletano riadattò dalla filosofia esistenzialista, equivalente all’espressione heideggeriana “Dasein”.
Ne “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo” (1948), in cui avrebbe elaborato le idee centrali dell’intera sua opera, insieme con il tentativo di padroneggiare le incertezze esistenziali nella dinamica alternanza tra crisi e riscatto, il concetto di “presenza” arriva infatti a costituire il medesimo cardine interpretativo. Nel saggio abbozzato sulle apocalissi culturali, apparso postumo con il titolo “La fine del mondo” (1977), si sarebbe proposto di portare a compimento questa sua profonda riflessione destinata a rimanere incompleta.
L’esserci nel mondo di Martin Heidegger (1889-1976) combina la “presenza” a una consapevolezza della stessa. “La comprensione dell’essere è propria del modo di essere di quell’ente che noi chiamiamo esserci”, asseriva il filosofo tedesco in “Sein und Zeit” (1927). E l’allusione alla differenza tra lo “stare al mondo” semplicemente ed essere “portatori” attivi della propria esistenza, quasi come a distinguere tra animalità e umanità, sembra riposta in quella particella pronominale (“ci”) dell’esserci.
Nella cognizione della “presenza”, per il nostro antropologo, sono invece insiti aspetti intellettuali ed empatici, ma soprattutto esistenziali e storicistici, poiché il senso della modalità di “stare al mondo” si acquisisce nella sua temporalità e nella dimensione tutta umana di questa presa di coscienza.
“Il mondo concreto dell’uomo, è sempre un mondo storico, sta in una tradizione, sussiste in ogni tempo mediante la società e la comunità”, scriveva in quel suo “Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, riprendendo il pensiero del filosofo e psichiatra tedesco Karl Theodor Jaspers (1883-1969), a proposito della condizione di a/normalità della presenza.
L’interpretazione dell’In-der-Welt-sein heideggheriano, per de Martino, contiene una doppia fondamentale costituzione, come primordiale “sein sollen” della presentificazione, come cioè dovrebbe essere, e quindi dell’esserci in un mondo culturale, nonché pure come psicopatologia esistenzialistica.
Altrove la presenza la definisce “presentificazione emergente”, “energia oltrepassante la situazione”, “intenzionalità in atto”, “operatività secondo forme di coerenza culturale”, “apertura all’intersoggettivo e al relazionale”, “partecipazione progettante alla società in sviluppo e alla storia in cammino di un’epoca” (Scritti filosofici, 2005).
Nel parlare di “movimento per entro un orizzonte di origine e destino” le attribuisce il primato, storicamente culturale, ontologicamente umano, e logicamente integrale, di momento significativo di matura presa di coscienza degli eventi e della loro storicizzazione, che consente d’andare oltre la datità con l’attribuzione di valori; insomma “ethos del trascendimento”, riferendosi a quell’ethos di cui parlava Benedetto Croce (1866-1952), in Storia come pensiero e come azione (1938), accettando qualsiasi Welt culturale “a cominciare da quello economico-sociale”.
In “La fine del mondo” riprende delle osservazioni dell’influente pioniere degli studi psicologici Pierre Marie Félix Janet (1859-1947), commentate dallo psichiatra e psicoanalista Henry Ey (1900-1977): “… questa tensione, questo psichismo che oltrepassa l’organico… non è la vita, l’élan vital… ma l’ethos del trascendimento, il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita… l’energia oltrepassante che fonda l’umanità è quindi in un élan moral primordiale, senza del quale la stessa base vitale, i singoli in quanto corpi, non potrebbero sussistere indenni come singoli corpi umani”.
Parte integrante della presenza, l’ethos del trascendimento possiede un carattere di primordialità anteriore a ogni scelta e azione con cui concretamente si costituisce l’andar oltre. Avanzando in un percorso la cui prevedibilità dipende da determinati valori, quindi, il fondamento della presenza è il modo d’essere in cui si realizza la “potenza sintetica secondo le categorie del fare”, di cui scrisse in “Morte e pianto rituale nel mondo antico”(1958).
La definizione di Giovanni Pizza, nel suo contributo ai “Quaderni di Teoria Sociale” (2013), sembra oltremodo chiarificatrice, in senso descrittivo, del concetto di presenza: “fondamentalmente la capacità di riunire nell’attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante l’iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione”.
Sia pur autoprogrammato verso la realizzazione, un tal tragitto contiene impliciti rischi che si prospettano già in corso di progettazione. È in ciò che si profila la dimensione etica e, nel suo venir meno, la crisi del “non dato” e della sua possibile assenza.
La perdita che ne consegue riguarda la “capacità di azione che rischia di smarrirsi in un ‘momento critico dell’esistenza’, quando la storicità sporge con particolare evidenza, e la presenza è chiamata ad esserci con l’impiego pronto ed adattato della sua capacità di scelta e di decisione” (Pizza 2013).
Se per Heidegger l’esserci corrisponde alla “mondità”, de Martino preferisce parlare di “mondanizzazione”, dunque non “pura possibilità”, bensì dovere morale d’essere.
“La mondità come mera possibilità di mondanizzazione, come semplice poter essere, non assicura, non fonda il passaggio ai mondi culturali concreti, che non si appellano ad un potere dovere” (Scritti filosofici).
Si tratta d’entrare in un “mondo culturale concreto” e di partecipare a una storicità già offerta come “data”, della quale prendere consapevolezza onde non incorrere nella crisi paventata.
La condizione heideggeriana possiede maggiori connotati di passività, la cui accettazione è già inclusa nell’auto-progettazione più autentica. Il passaggio demartiniano alla concretezza impone invece un dovere senza il quale neanche sussisterebbe l’esserci; trascende insomma la datità in cui viene proiettato, grazie ai valori di riferimento, o meglio mediante quella “valorizzazione intersoggettiva”, a cui accenna negli “Scritti filosofici”. La crisi diviene allora l’assenza di questa intersoggettività, della stessa progettazione, della medesima capacità d’andar oltre.
Il dominio della natura si concretizza nella “forma economica della vita culturale”, in cui la presenza dimostra la sua “particolare coerenza che è propria dell’utile e del calcolo utilitario”.
Persino la più pura azione naturale non potrebbe essere programmata al di fuori della storia. L’economico rientra in un ambito di compiuta e prioritaria emergenza della vita culturale, quale dimostrazione di morale dovere e pratico sapere esserci, corrispondendo alla valorizzazione della securitas costitutiva della società. Mondanizzazione diventa perciò quell’idea “della fedeltà alle sicurezze passate convertite in agevoli abitudini”, che viene realizzata nella “sistemazione del mondo in un sistema di cose e in un sistema di nomi”.
Per l’ineludibilità di dover essere, è tutta la vicenda umana a rappresentare un continuo rischio, eppure un’agevole assuefazione alla fiducia verso una sorta di “andar oltre inaugurale”.
Il trascendimento, comunque, così come può comportare un guadagno potrebbe altresì risolversi in quella “cupa invidia del nulla”, paventata in “Furore Simbolo Valore” (1962), “una sinistra tentazione da crepuscolo degli dei”. Qualcosa di simile alla furia cannibalica degli iniziati kwakiutl, studiati da Franz Boas (1858-1942), la cui “casa delle cerimonie” non sia però predisposta alla responsabilizzazione dei nuovi adulti.
Appartenenti al gruppo linguistico Wakashan della Columbia Britannica, i Kwakiutl sono famosi per le loro maschere e gli elaborati pali totemici; erano soliti vivere in grandi case dipinte e decorate con sculture e usare canoe, anch’esse di sovente dipinte, sulle cui prore erano scolpite figure leggendarie. I membri della società segreta del Cannibale si riunivano per eseguire una spettacolare danza, rigorosamente cerimoniale (hamatsa), e, nel corso di solenni festività, dette potlatches, veniva sacrificato uno schiavo a dimostrazione del disprezzo nei confronti del prestigio di averlo catturato.
La “minaccia radicale di non poterci essere in nessun modo culturale possibile” rende vulnerabile qualsiasi esistenza, la mette in crisi fino a spingerla a decadere nei “modi della depresentificazione e della demondanizzazione” (Scritti filosofici).
In “Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro” (1995), de Martino si sofferma sulle “modalità della presenza che si perde”. Ad angoscia, fobia, melanconia, mania, stupore, delirio paranoico, persecuzione, affianca l’attentato, l’assedio, l’invasione, il furto, l’universo in tensione, il proporzionamento dell’Ego, la omniallusività del mondo, il sentimento di crollo del mondo (Weltuntergangserlebnis), la scarica irrelata dell’energia del trascendimento, la colpa cifrata.
I segnali della sua casistica riguardano: la sensazione di “essere agito da”, nella bassa magia cerimoniale, di “Storia e Metastoria”; astenia, catatonia, fotofobia e diverse altre ossessioni terrifiche del tarantismo, ne “La Terra del Rimorso” (1961); l’ebetudine stuporosa alternata a grida e manifestazioni d’autolesionismo nell’esprimere il dolore del lutto, in “Morte e pianto rituale” (1958); comportamenti di imitazione passiva, automatismo mimetico anche reciproco, ecocinesia, ecolalia nelle forme collettive del latah malese e dell’olon dei Tungusi (“Il mondo magico”, 1948), sindromi definite “culture bound”, alla stregua dello stato amok, tipico dei Malesi.
La crisi infatti può investire interi gruppi, come pure nel caso del palo territoriale del mito achilpa, in cui l’angoscia dei nomadi australiani Aranda viene prodotta dalla perdita del principale referente spaziale che funge da orientamento per tutta la collettività, la quale, privata del centro direzionale, non se la sente più di proseguire senza la guida riconosciuta. Un disordine simbolico e interiore che li spinge all’inedia.
Negli altri casi i segnali sono più pertinenti a comportamenti individuali e se interessano il gruppo, lo impegnano nella somma di ciascuno degli individui che vive una propria crisi e non nella sua integrale coesione.
Quando, anche se a vario titolo, numerosi partecipanti vengono coinvolti da una medesima causa scatenante e da un analogo lavoro di reintegrazione, tende ad aumentare la complessità contingente, come nel caso del lutto, in cui alla morte d’un membro del gruppo, onde lenire il dolore dei familiari, occorre il coinvolgimento degli altri sodali. Le prefiche costituiscono un intervento tecnico di lamentazione programmata e stereotipata che però non esclude l’emozione e una condivisione totalizzante che travalica la mimesi del rito.
La riproposizione di certi motivi nelle forme dell’esorcismo può raggiungere poi quel grado di ambiguità che si coglie nella formulazione ossimorica d’un intellettualistico “Non è vero, ma ci credo”!
L’inautenticità viene procurata dalla destorificazione istituzionale.
“…Una presenza che invece di ‘oltrepassare’ e di emergere nel trascendimento e per il trascendimento, si fa essa stessa ‘passato’, lo ripete, vi si isola e quindi non lo ‘ricorda’ come passato, ma lo patisce come presente cifrato…, è presenza passata che torna, ma in modo cifrato, servile, non significativo, cioè nella maschera del ‘sintomo’: il quale è ‘cattivo passato che torna’, ma senza soluzione possibile”.
Sintomi nevrotici e psicotici, in ogni caso, sotto tutti gli aspetti, questi delle “modalità della presenza che si perde”.
Eppure, se, come osserva Amalia Signorelli, “crisi culturale e crisi psicopatologica non coincidono, non sono la stessa cosa”, “l’osservazione delle vicende umane” ci impone di non tenerle mai completamente disgiunte, poiché durante un’intera esistenza molto facilmente si verificano delle frequenti oscillazioni tra i differenti livelli di crisi, che invitano ad affrontare ogni aspetto del genere umano in maniera non riduzionistica né settoriale.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
Croce B. Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938
de Martino E. Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948
de Martino E. Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi Torino 1958
de Martino E. La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961
de Martino E. Furore, simbolo, valore, Il Saggiatore, Milano 1962
de Martino E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 1977
de Martino E. Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995
de Martino E. Scritti filosofici, a cura di Roberto Pastina, il Mulino, Bologna 2005
Ierace G.M.S. Il morso della Tarantola sacra, Essere secondo Natura (Speciale Suono), 16, 26-35, agosto 1987
Ierace G.M.S. Il kordax, Calabria Sconosciuta, 85, 37-40, gennaio-marzo 2000
Ierace G.M.S. Il resto è rumore di fondo: viaggio in Calabria di Alan Lomax, Lettere Meridiane, VIII, 27-28, 8-9, Gennaio-giugno 2012
Pizza G. Gramsci e de Martino. Appunti per una riflessione, Quaderni di Teoria Sociale, 13, 75-120, 2013
Signorelli A. Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’Oro, Roma 2015