Sul “mio” scrivere dell’Africa “interiore”

I caldei solevano eseguire delle immagini che avevano un effetto antipatico sulle correnti di Heimarmene (il destino), vale a dire i demoni soggetti a Ecate, ritenuti agenti patologici. A questo scopo, i caldei si servivano di una terra tricolore…” – Yohanan Hans Lewy (1901-1945).

Nel rivendicare, sulla scia dell’alchimia junghiana, quell’archetipica successione cromatica che assegna supremazia al bianco, James Hillman (1926-2011) ammette di seguire le considerazioni dell’antropologo scozzese Victor Witter Turner (1920-1983). L’ipotesi formulata dall’autore di “The forest of symbols” (1967) riguarda una triade di base approvata, da un punto di vista linguistico, anche da Brent Berlin e Paul Kay e, per quanto concerne il continente nero, dall’etnologo rumeno Dominique (Dimitri) Zahan (1915-1991).

Il primo “ternario” cromatico

Bianco rosso e nero costituirebbero il primo ternario cromatico prodotto dal pensiero simbolico, in rapporto a un’ancestrale, ma diffusa, classificazione della realtà esperienziale comune a tutta quanta l’umanità (Albedo, rubedo, nigredo). Non si tratta esclusivamente di differenziazioni percettive di una parzialità semplificatrice dello spettro visivo, bensì di sintetiche condensazioni a compendio dell’intera vicenda psicobiologica. La riproposizione metaforica delle forze esprimenti la vita avrebbe favorito il controllo in ambito socio-rituale di precedenti frazionamenti anticipatori di quanto ne sarebbe stata poi logica conseguenza.

L’afflizione bianca

La trasmutazione alchemica dei colori è uno di questi rituali, un rituale che continua all’interno della psicanalisi quando questa viene concepita in modo alchemico. – esordisce James Hillman  in “Sul mio scrivere” (Ma. Gi., Roma 2015) – Dato che l’addomesticamento (raffinamento) dei colori è una trasmutazione degli stessi fili della vita, delle dominanti psicologiche della vita, la psicologia alchemica offre un modo per affinare quell’afflizione bianca che, come la concepisco io, è archetipicamente endemica nella nostra civiltà. Queste note rimangono semplicemente diagnostiche e non curative dell’afflizione stessa, a meno che noi non riconosciamo che il bianco, il nero e il rosso in quanto forze archetipiche che regolano la mente, possano purtuttavia essere riesaminate da essa. Una mente bianca può trovarsi all’interno di una pelle nera, di una pelle rossa, di qualsiasi pelle biologica. E anche se non possiamo cambiare pelle, possiamo uscire di senno, l’alchimia descrive questo crollo della mente bianca come nigredo, antecedente a un altro bianco e inerente a questo…”.

Ancor prima d’intraprendere qualsiasi rituale terapeutico-trasmutatorio, la psicologia alchemica hillmaniana familiarizza nosograficamente con quell’endemia che affligge la cultura occidentale e che è responsabile del relativismo del suo stesso approccio all’eventuale riesame analitico di queste forze archetipiche trinitarie.

La contaminazione dell’albedo

La contaminazione dell’albedo avviene sia mediante la proiezione d’un cono d’ombra su di uno schermo completamente immacolato, sia nell’individuazione di sparute macchie, appena accennate in disordinati schizzi.

Un albero dinastico comprende sempre, in seno alla sua originaria purezza, la memoria disonorevole d’una genealogica “pecora nera” che ne insudici il candore, e comunque non esclude mai, a contrasto con l’epidermica tonalità abbagliante,  un’interiore tinteggiatura “intermedia” determinata dallo scorrere nelle vene di superficie d’un conforme “sangue blu”.

Il termine albus indica un bianco “smorto”, la cui vivacità appare spenta da una luminosità indecisa, ma che tuttavia accoglie una complessità cromatica polivalente.

La sua bianchezza è la presenza completa e non l’assenza di tutte le tinte, ivi comprese quelle ancora da nascere. – continua James Hillman –  Si tratta di una complessità di valori e di tinte che dipendono da componenti quali il piombo, lo zinco, lo stagno, l’antimonio e l’argento, da relazioni e collocamenti e temperature, che richiedono il più sottile discernimento di qualunque occhio che desideri vedere attraverso la fiammata del primo sguardo…”.

La polioftalmia della Cauda pavonis

L’accenno alla polioftalmia della Cauda pavonis spiegherebbe per molti versi la mancata percezione di primo acchito del “secondo” bianco che trascende ogni psicopatologico predominio sullo spezzettamento d’una prospettiva rigidamente univoca. La luce che consente la visione non è oggetto, semmai mezzo, della percezione; un gioco di specchi intuitivo, in cui la negazione di qualcos’altro evidenzi il vuoto, e il riecheggiare dia corpo alla propria “riflessione”.

La “relazione” assume maggior valore delle singole parti scisse tra loro. La luna acquista valore per il fatto di essere un satellite e il pallore fantomatico consente l’apparizione dell’incorporeo. L’egemonia assoluta di questa dipendenza rende immateriale testimonianza d’una sudditanza della coscienza.

La “materialità” della psiche

In un processo d’individuazione, la salvezza dell’anima non contempla una messianica escatologia ma si mantiene entro i confini d’un “affaire” e un culto “privato”, sia perché intimo, personale, riservato, sia perché del tutto carente ed espropriato d’ogn’irragionevole, procrastinabile aspettativa. Anche se impartita con terminologia cristiana, la principale lezione dell’alchimia concerne la materialità della psiche e l’impossibilità di conseguire l’Opus di purificazione interiore senza inevitabilmente “sporcarsi le mani”. Raffinare ciò che è grezzo equivale ad accoppiarsi con un’adultera, e addomesticare il selvaggio a non discernere la propria soggettività.

Legami akashici?

L’interiorità non è più contenuta da un involucro, ma proiettata sulla superficie speculare delle cose che la attorniano. Il mio individuale Heimarmene impatta accidentalmente la contingenza degli accadimenti e la mia personale “casualità” viene direttamente riflessa dall’Anima mundi che mi “perseguita”.

Cosa succederà oggi lo stabilisce un elemento, forse banale, quello dell’augurio (kalimera) che equipara, nella concezione etico-estetica del “kalos kai agatos”, l’auspicio circa le condizioni climatiche (leuke) alla lucentezza del buon inizio. Vas dell’Opus non può che essere il mondo, lo spirito dell’universo che ci contiene, nel senso di trattenere, ma anche ci accoglie e insieme ci delimita; psicologicamente persino ci comprende e, in ogni caso, nostro malgrado, ci possiede tra i suoi immensi e sconfinati domini.

L’agguato notturno

Una mostruosa psiche recipiente, che ci prende (Rècipe!) e  invisibilmente ci scruta, e dalla quale ci sentiamo spesso sorvegliati, col favore delle tenebre.

“… La notte e l’oscurità hanno ipertoni emotivi molto forti… – ha scritto Jean Carlile Buxton (1921-1971) – l’oscurità turba non soltanto perché nel buio può essere nascosto qualcosa in agguato, ma perché è l’oscurità in se stessa ad essere avvertita come agguato: essa ci ‘osserva’”.

Il sonno favorisce la resa verso le intenzioni altrui, che non dormono mai.

“… Provo vergogna di fronte all’alba… queste cose mi guardano sempre. Io mai posso sottrarmi ai loro sguardi…”. La coscienza potrebbe corrispondere a questa resa incondizionata della preda alla materialità del mondo?

La nostra religione sono le tradizioni dei nostri antenati – i sogni dei nostri vecchi, donati loro dal Grande Spirito in solenni ore della notte; e le visioni dei nostri capi,  ed è scritta nei cuori del nostro popolo…” disse Capo Seattle, dei nativi americani Suquamish.

Sguardi reciproci

Una predica quindi ai già convertiti, l’offuscamento d’un orizzonte limpido, l’appannamento d’ogni trasparenza?

La “materia” psichica è sostanza oscura che acceca l’incauto sperimentatore il quale con essa voglia svolgere quell’ingrato compito da apprendista stregone. Probabilmente perché non risponde alle regole della creatività continua ma a quelle d’un’originaria e ormai irripetibile creazione. Creato e creatura restano inermi l’uno di fronte all’altro, anche quando faticosamente riescono a non distogliere i loro sguardi reciprocamente…

 

Rècipe!

James Hillman definisce “post-moderna” la “sua” modalità riflessiva.

L’equazione junghiana: “riflessione uguale coscienza” perderebbe di validità nel momento in cui il “volgersi” (dall’altra parte, di lato, all’indietro) significa allontanarsi dall’oggetto per inseguire l’imperativo categorico (Rècipe!) di fantasmi interiori che tutt’al più a quello si possono “riferire”.

La disposizione interpretativa nel decretare (de-cernere) separa, nel de-liberare, si libera dal medesimo motivo della sua primitiva riflessione.

La precedente mentalità “moderna” era convinta che effettivamente le sue osservazioni potessero riflettere l’opacità del “referente”, recipiente del recipiendario, quasi volesse leggere alla lettera l’intera allegoria. Invece, coscienza equivale sempre a distacco, incorruttibilità, poiché l’anima non va alla rincorsa di soddisfazioni estranee alle proprie coerenti illusioni, né “il Dio di Aristotele ha bisogno di amici”.

L’Etica Nicomachea, in proposito è esplicativa: “Quando si è amici, la giustizia è inutile, mentre, quando si è giusti, c’è ancora bisogno di amicizia, anzi il più alto livello della giustizia si ritiene che consista proprio in un atteggiamento di amicizia. E non solo è una cosa necessaria, ma è anche una cosa bella: infatti, noi lodiamo coloro che amano gli amici, anzi si ritiene che l’avere molti amici sia qualcosa di bello; inoltre, si pensa che sono gli stessi uomini amici a essere buoni…” (VIII), in una perfetta sintesi di etico-estetica (ed epica!) kalokagathìa, a cui s’affianca un’imparziale giudizio d’opportuna onestà.

L’autoreferenzialità del bianco

Del tutto estranea l’estroversione, una proiezione che dimostri l’angoscia d’un’ossessiva coercizione.

Il solipsismo del bianco non va in cerca d’un qualsiasi, oscuro, oggetto di desiderio. Ma si relaziona, in riproducibili collegamenti autoreferenziali di formule moralistiche date per scontate nella loro specularità in senso astensionista (il “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah…” del rabbino Hillel), oppure in un ulteriore (etico ed epico) afflato positivista, nicomacheo/neo (post-vetero)-testamentario, e tipicamente cristiano: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando…” (Giovanni 15, 12-14) .

L’invenzione dell’inconscio nasce pertanto da questa “scoperta” di duplice illusione, di autocompiacimento della coscienza che non ha bisogno dell’altro a cui far riferimento, piuttosto che da quella descrittaci da Henri F. Ellenberger (1905-1993). Questo deliberato s’è dimostrato divisivo d’una memoria cromatica nella constatazione che non sarebbe mai riuscita a diventare talmente bianca che… più bianco non si può!

La subdola ambiguità di quanto non può che essere considerata se non un’auto-scoperta autoreferenziale mina alle basi l’illusione della coscienza riflessiva e, nel decretarne il crollo mentale, pone il fondamento del suo medesimo futuro in  un anacronistico “post” qualcosa, che nega sia ogni riferimento a qualsiasi “denotatum”, sia che qualsivoglia legame con esso si diparta dalla coscienza.

La “colpa” non appartiene alla tomba, in cui è stato sepolto il cadavere.

Il significato interiore è silenzioso e inudibile, pure qualora l’inconscio non dovesse, “an sich”, dire nulla, perché la negazione stessa potrebbe venire tradotta in affermazione.

La “referenza” a una supremazia forse si sottrae a delle proiezioni per ribadire  una libertà mercuriale che si va rincorrendo da se stessa.

Topos mito-gestaltico

La Gestalt porrebbe la figura su cui  riflettere su di uno sfondo (topos mitico) adeguato al contesto (simbolico), di modo ché potesse fornire sistematicità al proprio schema operativo.

Hillman sostanzialmente delocalizza, “disloca”, sforna incertezze…

E difatti l’abaissement du niveau mental rende ormai “emergente” la coscienza, in un ascensore discendente arricchito dal doppio senso di marcia, in cui Lucifero sembra che cada dalle nuvole, ma attraverso lo specchio di immagini riflettenti la sua epistrophé, incarna la doppiezza dei mitraici dadofori Cautes e Cautopates.

Grazie alle semplici affermazioni del conoscere, finalmente conoscitore e conosciuto s’identificano!

Pluri-oftalmia della riflessione Pan-optica

Allorquando la riflessione si riferisca a modalità pluri-oftalmiche, in cui ciascun atto cosciente si dimostri multiplo e pertanto autolimitante, la proiezione ne avrà di conseguenza mortificato l’originaria indistruttibilità.

Un’epistemologia esibizionista che si pavoneggia di fronte agli insonni occhi di Argo Pan-optes che si concentrano sulla costanza del loro riflettere, nell’ascoltare la storia di Pan narrata da Ermes. L’ottica post-moderna corrisponde allo studio dello scotoma non visto dall’occhio se non in situazioni patologiche, dato che l’anatomia oculare non può rientrare nel proprio campo visivo.

“A nigger in the woodpile”

Hillman ricorre a un gioco di parole non riproducibile in italiano.

Woodpile” significa catasta di legna, “in the woodpile” sta per combinare guai, “a nigger in the woodpile” vale per c’è qualcosa di losco.

A chi è da imputare la sbadataggine del malestro? Alla catasta di legna, al canestro che ne contiene una parte, a chi è tenuto a sorvegliarla, a chi combina guai di nascosto, o a quanto c’è di losco in tutto ciò? E se questo qualcosa di losco è “a nigger”, al controllo sarebbe deputato “il bianco”?

La proiezione trasforma in referente lo stesso lettore del testo di riferimento; una mente che si è posta nella soggezione di se stessa, dalla quale è poi fuoriuscita senza neppure trovare una “catasta di legna”, o un canestro, in cui nascondersi, in piena libertà di girovagare senza meta, è destinata a compiere un malestro, la cui responsabilità può attribuire a un bieco e sporco figuro.

“Inaccertabilità” della realizzazione

Il progetto della coscienza si scopre definitivamente inconscio. La realizzazione si fa impossibile perché inaccertabile. Soltanto un labirinto costringerebbe a trovare un’uscita, ma l’assenza di pareti rende certamente più difficoltosa persino una prosecuzione lineare.

Del resto, si sente sentenziare, meglio camminare che maledire il tragitto, sempre che si sappia dove andare!

In a dark time

Or winding path? The edge is what I have”, declamava Theodore Huebner Roethke (1908-1963). “In a dark time, the eye begins to see,/ I meet my shadow in the deepening shade…”. L’occhio si apre nel buio, per incontrare la sua ombra in cui sprofondare.

 

Mai gli dei appaiono da soli!

L’interesse junghiano per l’alchimia risponde all’esigenza di ripresa della dicotomia che avrebbe attribuito supremazia antropologica e geografica al bianco, e di rigurgito nella tinteggiatura, nel senso dello spettro cromatico albersiano di “flusso ininterrotto” di colori, “continuamente in relazione”, che riecheggia la considerazione del pantheon “policromo” di Johann Christoph Friedrich von Schiller (1759-1805): “Mai gli dei appaiono da soli”!

Gli antichi dipingevano in maniera vistosa le sculture marmoree, mentre noi “moderni” ci lasciamo abbagliare dalla spoglia purezza del loro candore residuale, senza considerare che il bianco sia materia dell’anima in cerca di colore. La qualificazione estetica risente comunque del contesto immagistico, controbilanciando un’interpretazione simbolica che, lontana dalla Gestalt, non sia d’insieme.

Noi sappiamo udire un’unica tonalità, ma quasi mai (vale a dire senza congegni speciali) vediamo un unico colore non connesso né collegato ad altri colori. – precisa Josef Albers (1888-1976) – I colori si presentano in flusso ininterrotto, continuamente in relazione a vicini che cambiano, e mutevoli condizioni”.

La valutazione alchemica aggiunge un’ulteriore sofisticazione e distingue tonalità umbratili in ogni tinta, cosicché nella semplice rubedo riconosce il mercuriale dal sulfureo, il superficiale dal precipitoso, il crudo dall’incauto, l’intermedio raffinamento dal traguardo aureo.

Opus contra naturam

Si dice poi che l’alchimia operi contro natura, e quindi avverso alla conciliazione degli opposti, anche quando apparentemente sembra che la persegua.

La modalità di risolvere le contraddizioni consiste nella loro de-substantiatio, in cui si concretizzi una procedura inversa all’epistrophé. Se si è parte del problema non si può contribuire a risolverlo, semmai si evita di porlo.

Non equilibrio, non mediazione, neppure trascendenza e paradossalmente neanche una pleonastica divergenza, che non è il contrario d’un’enfatica conversione (epistrophé).

La fantasia ontologica della compresenza degli opposti è molto probabilmente una manifestazione psicologica diffusa, anche se va assunto come verosimile che l’affinità di tale fantasma sia una sorta di posizione difensiva da ferite narcisistiche di cui non si è ancora del tutto consapevoli.

L’alchimia opera contro natura in quanto procede per metafore complicate, non segue la lettera.

Solo l’approccio cristiano ed escatologico va valutato come letterale, e “bianco”. Una psiche così “candida”, perché “letteralizzata”, esegue coazioni a ripetere, in un’immobilità che la lascia traumaticamente al di fuori di sé. Ricollocata al suo interno, trasforma ogni evento di cui è consapevole, impedendogli di subire l’eterno ritorno nietzschiano.

Una storia “aperta”

La storia resterebbe sempre “aperta”, per così dire, e non cristallizzata nella memoria; anzi suscettibile d’essere reindirizzata da una revisione psicologica dei “fatti” trascorsi. Ricostruzione e integrazione biografica sono fattori naturali; come diceva Henry Corbin (1903-1978), è la storia a stare “in noi” e non viceversa, in parallelo alla concezione junghiana di noi all’interno della psiche. Cosicché, la musa dell’epica, Clio (da ?????, celebrare), glorifica solo la successione degli eventi che si svolgono nella psiche. La re-immersione a ogni anfora e a ogni epifora ne ri-dirige il corso della retorica.

Una geografia psichica

La convenzione che ha ispirato le scoperte geografiche e l’espansione della coscienza bianca in Africa continua a ispirare la geografia psichica. – sostiene Hillman – Il linguaggio topologico adoperato da Freud per ‘l’inconscio’ come luogo al di sotto, diverso, atemporale, primordiale, libidinoso e separato dalla coscienza riassume quello che, secoli prima, i relatori bianchi avevano detto dell’Africa Occidentale. Dal Heart of Darkness di Conrad al Venture to the interior di Post, l’Africa e l’inconscio diventano allegorie per indicare l’altro luogo. (Molto opportunamente, la psicologia immagina che gli uomini bianchi abbiano proiettato il proprio inconscio sull’Africa, ma le proiezioni vanno in due direzioni: l’Africa geografica sembra rappresentare l’inconscio della psicologia.)…”.

Nell’effettuare il suo viaggio nel continente nero, Carl Gustav Jung (1875-1961) descrisse popolazioni “scure” con il linguaggio “immemorabile” dell’inconscio, mediante immagini oniriche di massicci e precipizi a strapiombo, giungle e foreste inesplorate, caverne e sotterranei bui, acquitrini e paludi, inesistenti sulle mappe prive di sentieri battuti e di qualsiasi “metodo” (da metà hòdos, dietro il cammino), ricerca e dunque modalità investigativa che possa rispondere alla classica domanda di E. T. A. Hoffmann (1776-1822): “Gibt es denn Spuren des spurlos Verschwundenen?” (Esistono dunque tracce di ciò che è sparito senza lasciare impronte?).

Una visita al museo

Nella prefazione (“Una visita al museo”) all’antologia curata da Ludger L?tkehaus, dal titolo “L’Africa interiore” (L’Asino d’oro, Roma 2015), Annelore Homberg risponde fornendo una conclusione a dir poco deprimente. Tutti gli esseri umani hanno in comune più unheimlich e inadeguatezza che socialità, identità, amicizia, e assolutamente nulla di compiacentemente e fascinosamente coinvolgente.

La storia ci insegna che un approfondimento linguistico metterebbe in evidenza sinonimie tra inconscius latino e l’attuale ignaro, piuttosto che ignoto. Gli ignorantes, nescientes, inscii… della postfazione di David Armando contestano ex abrupto l’impostazione finalistica implicita nella formulazione ellenbergeriana di “scoperta”, che presupporrebbe una realtà oggettiva, laddove si tratterebbe invece d’una costruzione culturalmente determinata. L’impostazione filosofica di Matt Ffytche, per esempio, sembra salvaguardare il principio di autonomia individuale istillato da un pensiero romanticamente liberale.

In tedesco all’unbewusst non si prospetta alcun futuro (post), riconoscendolo inconoscibile!

Quando l’aggettivo si sostantivizza, divenendo un’entità a sé stante, Es, Mr. Hyde, cuore di tenebre, ‘Isola nel Cielo’ (Monte Mulanje), continente nero, abisso … assume ancor più nette caratteristiche sotterranee, ctonie e demoniache.

Grenzbegriff

Il mito dell’inconscio poggia su tale inaspettata “trovata”, in sintonia (ritrovamento) o in divergenza (ideazione) da Ellenberger, oltre che su un’appropriata tecnica della sua investigazione. Eppure, l’idea originaria d’inconscio proviene dal concetto della rimozione, quale principale sua primordiale motivazione. Un’elaborazione, in pieno accordo stavolta con la dottrina sull’amicizia aristotelica, di tipo etico-estetico (ed epico), ma soprattutto giustificatrice, la quale, nella sua Grenzbegriff, limita la consapevolezza, deresponsabilizzandone in parte il pragmatismo.

Una profondità capiente, da recipiente che ne accoglie i referenziali ragguagli, sia per la fantasia d’onnipotenza freudiana che per l’insistente ombra di Jung.

L’intera psicologia non sarebbe che una manifestazione di candore, ingenuo nel tentativo di allargare il suo campo di studio. Il rimedio perpetua però l’errore, nel non tener conto del contingente orientamento nelle adeguate direzioni spazio-temporali, impostate sulla storia “moderna” (non contemporanea) e un nord-occidente geografico positivista, cristiano, bianco.

Quest’esclusione annovera l’inconscio e ciò che l’accompagna nella sommersione. Il suo passato e la sua cronaca riguardano anche i relativi meccanismi di difesa. La proiezione alchemica corrispondeva infatti all’effusione dell’agente trasmutante. Nozione successivamente “internalizzata” da un velame emotivo. In era post-moderna (e forse contemporanea), la questione si sposta decisamente sul problema della compatibilità delle fantasie.

L’eruzione del wurf

Il wurf erutta in alto e dinanzi, con una spinta pari alla sua portata, una gittata inerente la produzione, il programma, la prognosi, la diagnostica, ma mai la risoluzione e la terapia. Sulla linea dell’orizzonte, l’estinzione è indistinguibile dal sorgere, quasi come l’azione è destinata a decadere nell’acting out.

“Quel livido dono…”

Sul sentiero tortuoso, non mi resta che il bordo” (!); il verso di Theodore Huebner Roethke (1908-1963): “Or winding path? The edge is what I have” ricalcherebbe il “‘Twere all I had,’ she stricken gasped -/ Oh, what a livid boon!” di Emily Elizabeth Dickinson (1830-1886): “Quel livido dono ‘Era tutto ciò che avevo’“!

“Occhi di pesce”

L’elaborazione post-eriore di Jung d’un inconscio disceso in linea diretta dall’alchimia aderisce meglio alla propria essenza intima, ma non alla psicologia che vorrebbe assumersi il compito di studiarlo. Nella sua costante oscurità manifesta infatti lo scintillio del lumen naturae, “isole nel Cielo” di compiacente consapevolezza, quegli “occhi di pesce” descritti da Eirenaeus Philalethes, nell’Introitus Apertus ad Occlusum Regis Palatium.

Un imbrattamento chiaro

La sostanza del vaso mostrerà una gran varietà di forme, diventerà liquida e si coagulerà di nuovo un centinaio di volte al giorno; talvolta avrà l’apparenza di occhi di pesce e poi ancora di sottili alberi d’argento, con ramoscelli e foglie. Ogni qualvolta guarderai, sarà per te causa di stupore, particolarmente quando la vedrai tutta divisa in grani bellissimi, ma molto minuti, argentei, come i raggi del sole. Questa è la tintura bianca…”.

Spontanee ibridazioni

Nel radicale mutamento di metafora, all’interno della luce, ma soprattutto a causa di essa, v’è l’ombra, e la più minuscola scintilla splende nella tetra oscurità. Coscienza e inconscio nascono da un tale meticciamento mentale, come dal guizzo di tanti pesci elusivi.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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