“Io sono verme e non uomo” (Salmo 22, 7).
Seppur narrate attraverso un “canone” letterario, le vicende relative ai patronati dei santi possiedono solide fondamenta nell’immaginario popolare, focalizzato su problematiche terrene. Tuttavia, per capire quale possa essere il nesso tra certe malattie e i rispettivi santi taumaturghi occorre raccogliere maggiori informazioni circa la percezione storica e culturale del contesto morboso.
Per esempio, l’epilessia ha una storia molto più antica della stessa religione cristiana, per cui, già prima che a determinati santi, veniva collegata a divinità adorate da Egizi, Indù, Aztechi e Incas dell’America Centrale. Mancando spiegazioni naturali che giustificassero cause e sintomi convulsivi, nei tempi antichi, una tale condizione morbosa è stata quindi interpretata come un evento soprannaturale, mediante il quale gli dei avevano sia il potere d’infliggere punizione alla persona che ne era affetta, sia farle espiare delle colpe, oppure avvertire o sfidare tutti quanti gli altri. L’unico presunto sollievo poteva giungere allora da una corretta invocazione d’aiuto agli dei, pure quando, sempre molto più spesso, veniva considerata un effetto della possessione demoniaca da parte d’un cattivo spirito, che sarebbe stato allontanato dall’esorcista di turno in sembianze animali.
Malattia di San Paolo
Il cristianesimo mantenne la tradizione che collega le convulsioni direttamente a Dio e questa possibilità d’intervento superiore, se non era curativo, almeno apportava conforto e speranza. Nel Nuovo Testamento, ci sono alcuni riferimenti molto specifici alle manifestazioni epilettiche, come in Matteo (4: 24; 17: 14-18), Marco (9: 17-27), Luca (9: 37-43).
Negli Atti (9: 3-9), è lo stesso Saulo, poi divenuto San Paolo, a sperimentare sulla via di Damasco una sorta di attacco epilettico, con classica caduta a terra, accompagnata da allucinazioni uditive e, forse meno caratteristica, perdita della vista per tre giorni (anche se l’impedimento visivo – tra cui la cecità temporanea che dura da alcune ore a diversi giorni – più che come sintomo, è stato effettivamente osservato quale risultato d’un attacco epilettico). É lo stesso San Paolo a fornire prova d’una sua “malattia fisica” nelle lettere ai Corinzi (2, 12: 7) e ai Galati (4: 13-14), tanto che, nella vecchia Irlanda, l’epilessia era nota anche come “malattia di San Paolo”.
Santità e salute
Nel corso dei secoli, hanno sviluppato un certo grado di specializzazione su tale fenomenologia circa una quarantina di santi, aiutanti di Dio, un numero che sarebbe stato superato solo dalla peste, che di patroni, protettori e taumaturghi ne ebbe più di sessanta.
Alcuni di questi santi, come S. Antonio Abate, erano già in vita noti come guaritori. Altri, come S. Apollinare e S. Giles, venivano considerati taumaturghi. Per cui una loro reputazione nella terapia anticomiziale risultava quasi scontata. La pianta, cresciuta nel giardino della chiesa costruita sulla tomba di Santa Bibiana, curava sia l’epilessia sia il mal di testa. Analogamente, il luogo di sepoltura dell’irlandese Santa Dymphna divenne noto per miracolose guarigioni nell’ambito della terapia anticonvulsiva. Altri santi patroni hanno tombe con poteri curativi particolarmente efficaci a questo scopo: l’altro irlandese San Cataldo, il francese San Gerardo di Lunel, il belga San Guido di Anderlecht. Santi poi, come san Severino del Norico, S. Ubaldo di Gubbio e San Ciriaco, sono tutti “utili” e benefici, ma non in modo sufficientemente significativo da essere considerati patroni della condizione morbosa in questione.
Il “ballo” di San Vito
L’agiografia di San Vito ci parla della liberazione del figlio dell’imperatore Diocleziano da uno spirito maligno, ma la sua “cura” venne attribuita a opera stregonesca e pertanto fu martirizzato senza alcuna pietà. Probabilmente, grazie a questo episodio, San Vito veniva spesso supplicato d’intercedere in morbi epilettiformi e i suoi interventi giudicati efficaci, di modo ché tale reputazione s’è diffusa in molte parti d’Europa per una condizione patologica che assunse la denominazione di “ballo” di San Vito, poi identificato in maniera più specifica come non generico disturbo del movimento, bensì corea.
Quale Valentino?
Di questi quaranta santi, il più noto in assoluto resta “un” San Valentino, ma quale?
Un Valentino era medico e sacerdote nella capitale del mondo, decapitato per ordine dell’imperatore Claudio II, il 14 febbraio del 270. All’incirca nello stesso periodo, sarebbe vissuto un vescovo di Interamna (oggi Terni), con lo stesso nome, anch’egli flagellato, incarcerato, e poi decapitato, per non aver abiurato la propria fede. La sua reputazione, direttamente collegata all’etimologia etrusca del nome, poi divenuta formula augurale latina, era quella di dare soccorso ai malati per i quali pregava affinché ricevessero benefici alle sofferenze e, poco prima dell’esecuzione, si dice abbia ridato la vista alla figlia del suo carceriere.
Che fossero due persone diverse, una umbra, una romana, o lo stesso individuo, vescovo di Interamna, portato a Roma per essere decapitato, la tradizione ne attesta l’esistenza e l’archeologia ci fornisce prove di dediche sia d’una catacomba sia d’un’antica basilica.
Il quadro si complica, successivamente, con l’aggiunta d’altri santi omonimi, a cominciare da Valentinus, Episcopus Passauiensis in Germania (San Valentino da Rätien, o Passau), vescovo missionario in quella che oggi è Bassa Baviera. Dopo vari tentativi di cristianizzare quella zona, alla fine, fu scacciato e continuò a operare come episcopo itinerante, senza cioè una sede vera e propria, sempre però nella zona tra il fiume Danubio e le Alpi. Morì nella città che oggi si chiama Merano, verso il 475.
Nel IX secolo, le leggende di entrambi questi santi (da Interamna e da Passau) vennero fuse insieme e, dopo tale data, non è sempre possibile distinguere chiaramente tra i due. Nel Medioevo, nella regione del Reno, ci furono due importanti luoghi di pellegrinaggio, Rufach, in Ober-Alsazia e Kiedrich im Rheingau meta per numerosi pazienti epilettici. Le reliquie, consistenti in frammenti ossei del cranio e della colonna vertebrale, venerate ogni anno dai pellegrini nella città dell’Assia, provenivano dall’abbazia cistercense di Eberbach, vicina a Kiedrich.
Valentine = ‘fallen’
Rimane ancora da chiarire perché San Valentino resta così strettamente associato all’epilessia. E qui verrebbe a commento un aspetto linguistico non trascurabile, consistente nella somiglianza fonetica, in lingua tedesca, tra le parole ‘caduta’ (fal-l-en) e ‘V-alen-tine‘, che avrebbe avvalorato e rafforzato il collegamento di San Valentino con l’epilessia, almeno nelle zone d’influenza culturale germanica, proponendo per l’epilessia nomi comuni nei quali il termine tedesco di “malattia di San Valentino” o ” Afflizione di San Valentino” avesse un nesso di sottile corrispondenza con la sintomatologia comiziale.
Infatti, in aree non di lingua tedesca, di maggior aiuto nella lotta contro l’epilessia sono stati san Giovanni, in Francia, da cui “mal de Saint Jean”, e san Paolo, nei paesi anglosassoni, soprattutto in Irlanda.
Inoltre, le rappresentazioni iconiche di San Valentino, nell’atto di guarire le persone affette da convulsioni, sono più frequenti nel sud della Germania, nella Svizzera orientale, Italia settentrionale e Austria. In un’immagine del pellegrinaggio a Rufach, il santo è bardato da vescovo, e, insieme con le rappresentazioni di un maiale e di un gatto (in base alla credenza che, mediante l’espulsione degli animali, siano stati scacciati dagli umani i demoni della malattia), sono presenti sia una coppia di anziani recanti offerte, sia una coppia di giovani, distesi in terra, esausti per un’attività defaticante appena compiuta, che non necessariamente dev’essere inquadrata come spossatezza successiva a crisi comiziali, ma, in base all’altro patronato del santo, potrebbe essere imputata pure a una fase successiva all’orgasmo.
Il demone di Eros
San Valentino è infatti propriamente erede di Eros, ma forse ancor più di Fauno Luperco.
Un rito osco, proveniente dalle Valli del Sangro e del Volturno confluisce nelle acque tiberine per venire integrato nella leggenda del fico “ruminale”, perché sacro a Rumina, una delle Grandi Madri latine, assieme a Ruma, Fauna, Rea Silva, Acca Laurentia, incarnate dalla Lupa che occupava l’antro presso il colle Palatino (il leggendario lupercale). Lupe, ninfe o “fidanzate di primavera”, venivano sorteggiate, al fine d’essere fecondate da giovani “fauni” in ierogamie cerimoniali, che convalidavano la coppia così consacrata fino al compimento del rito in atto e l’inizio del successivo.
Con il sopravvento del Cristianesimo, i Lupercali furono sostituiti di un tal martire da Interamna (inter-amnis, “tra i [due] fiumi”, il Nera e il Serra: Nahars), il quale, grazie al nome beneaugurante d’etimo etrusco, Valentino (“che sta in buona salute”), ispirava l’amore nei ragazzi timidi o indecisi, con l’ausilio di due colombi sacri ad Afrodite, come il mirto, le mele e i colori rosso e azzurro.
L’Angelo corrispondente al pianeta Venere venne identificato in Aniel o Hanael (Piacere, Gioia o Grazia di Dio), uno dei sette arcangeli, quello della settima Sephirah, Netzach (vittoria), criptato dal dottor John Dee nel Sigillum Dei Aemeth.
“…la Valentina tua diventerò”
In “The Parliament of Fowls” di Geoffrey Chaucer (ca 1343-1400), l’inizio delle celebrazioni viene accreditato al fidanzamento tra Riccardo II e Anna di Boemia. Nel XV secolo venne istituito l’Alto Tribunale d’Amore ispirato ai princìpi dell’Amor Cortese, poco dopo la nascita dell’usanza di scambiare le Valentine. “Je suis desja d’amour tanné,/ Ma tres doulce Valentinée,/ Car pour moi fustes trop tart née,/ Et moy pour vous fus trop tost né./ Dieu lui pardoint qui estrené/ M’a de vous, pour toute l’année”, scriveva, rinchiuso nella Torre di Londra, alla consorte Bonne d’Armagnac, Carlo di Valois-Orléans (1394-1465), figlio di Valentina Visconti, il cui motto da vedova fu “Rien ne m’est plus, plus ne m’est rien”. E Shakespeare, nel Quarto Atto, Scena Quinta, dell’Amleto (1602), fa dire a Ofelia: “Sarà domani San Valentino,/ ci leveremo di buon mattino,/ alla finestra tua busserò,/ la Valentina tua diventerò./ Allora egli si alzò,/ delle sue robe tutto si vestì,/ la porta della camera le aprì,/ ed ella non più vergine ne uscì.”.
Le “fidanzate di Primavera”
Una fiaba come quella di Cenerentola ci parla del rito osco delle “fidanzate di Primavera”, riadattate alla ricorrenza delle Ceneri. Cappuccetto rosso è una signora del bosco che veste un abito rituale e il lupo dei lupercali, o il Fenrir della demonologia scandinava, divorando la rappresentante generazionale dell’anno vecchio, la nonna, altri non è se non un’intelligenza in lotta per il risveglio della natura.
Il rito di Flora si compie nell’isolamento del bosco, e la nuova Regina di Maggio, a cui tutte le pulzelle recano offerte, dev’essere protetta dalle orde scalmanate dei cerimonieri del Caos.
Valore totemico
Ad aprire “Les Contes” di Pierre Saintyves (Émile Nourry) era un classico racconto popolare francese, “Les Fées ou le service du nouvel an”, che ben serviva a guidare la lettura dell’immaginario fiabesco sulla ciclicità calendariale. I poteri totemici tributati alle Fate, e successivamente ai santi, le imparentavano alle creature fantastiche più esotiche.
Nella venerazione degli angeli custodi, dei santi patroni di comunità e dei santi protettori di categorie sociali, è presente un’arcaica pratica religiosa tribale, basata su un’entità naturale, o soprannaturale, al cui significato simbolico si è poi legati per tutta la vita, e derivata dalla parola ototeman, usata dai nativi americani Ojibway, i Chippewa del gruppo algonchino.
I santi militari
In alcune località, il grande falò propiziatorio per la nuova stagione viene acceso il 23 aprile. San Giorgio, che è facile confondere con san Demetrio o san Teodoro, in quanto uno dei cosiddetti santi militari (Athleta Christi), non è, tuttavia, l’unico personaggio che uccide un drago. A contribuire alla formazione dell’immagine del cristiano battagliero, soldato di Cristo, potrebbe essere stato un passo della lettera di San Paolo agli Efesini (cap. 6), ove si parla metaforicamente di “armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo”, “corazza della giustizia”, “elmo della salvezza”, “spada dello Spirito”, “scudo della fede” e “come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace”.
Tra i guerrieri di Dio sarebbero da contemplare: San Longino, San Sebastiano, Sant’ Eustachio Placido, Sant’Adriano di Nicomedia, San Floriano di Lorch, San Crescentino di Città di Castello, San Martino di Tours, San Acacio, o Agazio di Bisanzio, patrono di Guardavalle, San Maurizio, capo della leggendaria Legione Tebea e poi Mercurio di Cesarea, Mena d’Egitto, Sergio e Bacco, ecc.. Ma il capo indiscusso delle milizie cristiane, come viene specificato nell’Apocalisse (12: 7-8), resta l’Arcangelo Michele, guida sia degli angeli sia degli uomini nella battaglia contro il male.
Il combattimento contro il drago
Andando a incarnare gli ideali della Cavalleria, simbolo di questa lotta del bene contro il male è pure il combattimento contro il drago. Ma l’immagine dell’eroe radioso “O ????????????”, vittorioso, trionfatore, “incarnata” (contraddittoriamente) nell’impalpabile figura dell’arcangelo San Michele, e (in maniera più consona) da un martire, storicamente supposto, come San Giorgio, viene da lontano, essendo parte integrante della fase solare del mito della creazione il cui archetipo fu il dio babilonese Marduk, giusto per trascurare il richiamo al mito di Perseo e Andromeda.
La tradizione catalana, molto popolare, della “diada de Sant Jordi” risale probabilmente allo stesso periodo delle “Valentine” e ne costituisce un equivalente nel festeggiare la giornata degli innamorati, in cui le coppie di amanti, ma anche di parenti e amici, si regalano delle rose e dei libri.
“Il tema del drago che si oppone al santo o da cui il santo difende le popolazioni inermi è diffuso in tutta la cristianità. – scrive Guidalberto Bormolini, in “I Santi e gli Animali” (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2014) – Il drago, nemico da vincere o eliminare, è la terribile personificazione del male nella natura, probabile retaggio dell’immagine biblica del serpente”.
Genii locorum
L’evangelista Matteo dovette difendersi da draghi che fortunatamente gli caddero addormentati ai piedi. La sorella di Lazzaro, Marta, sconfigge un mostro acquatico dai denti da squalo. Lo stesso si narra di Margherita o Marina (d’Antiochia di Pisidia), inserita nell’elenco dei “quattordici Ausiliatori” (Acacio, Egidio, Barbara, Biagio, Cristoforo, Ciriaco, Dionigi, Erasmo, Eustachio, Giorgio, Caterina, Pantaleone e Vito), alla cui intercessione far ricorso nei momenti difficili.
Eppure questa battaglia può essere letta nel senso metaforico d’un travaglio interiore con le forze oscure delle passioni insistentemente annidate in inconsci retaggi. Oppure, un’altra interpretazione si formula soprattutto in funzione dello scontro tra la civiltà pagana e il mondo cristiano, oppresso dalla malvagità di quella decadenza. Perché ci sono anche santi che non sopprimo questo loro nemico. San Marcello di Parigi gli impone la scelta di abbandonare l’umanità, ritirandosi in fondo al mare o in lande deserte. Il normanno Vigore lo affida al discepolo Theudimir che lo restituisce alle acque profonde, cosicché l’ipotesi che a venire sottomesso sia il genius loci diverrebbe sicuramente più accreditata. Ogni luogo affidato in custodia a uno spirito non avrebbe concesso la conquista del territorio senza che parallelamente non se ne acquisisse prima il protettore, demoniaco o angelico che fosse.
Antiche saghe celtiche
Caratteri angelici ha infatti il drago del santo irlandese Canizio, che da quello venne racchiuso in un cerchio di fuoco allo scopo di farlo tornare in patria. Un cervo inseguito dai cani ne chiese la protezione sull’isola dove il santo viveva in solitudine. Canizio fece anche in modo che un lupo, il quale aveva divorato due vitelli, venisse accudito al loro posto dalle mucche che altrimenti avrebbero smesso di produrre latte.
Colombano domina un mostro di un fiume denominato Ness e conferisce genesi alla leggenda migrata nel lago scozzese. San Finniano Cam, badando ai vitelli, segnava loro il confine da rispettare semplicemente tracciando delle linee per terra.
Secondo Margarete Reimschneider, nella vita di San Goderico si ritrovano rappresentate in versione cristiana le antiche saghe celtiche raffigurate sul calderone di Gundestrup, il più importante reperto archeologico sull’immaginario religioso degli antichi celti. La sua vacca non doveva condurla al pascolo in quanto guidata dalla cintura che le aveva appeso al collo. I suoi più affezionati beniamini divennero dei serpenti che gli s’avvoltolavano attorno o s’avvolgevano sul tavolo.
Il diritto d’asilo per umani e animali vigeva in tutte le terre celtiche, comprese Scozia e Northumbria. Come Canizio, Egidio, Guenaele, Brioc protessero cervi da cani e cacciatori; Cepius una capra, e Albeo di Emly una lupa che allattava i cuccioli. Lindisfarne era un’oasi paradisiaca per gli animali selvatici grazie all’insegnamento non violento di Cutberto e Bartolomeo, i quali s’appellavano al privilegio della piena pace su quell’isola. In particolare le grosse anatre marine, o meglio i comuni ededroni (Somateria mollissima), dal piumaggio bianco e nero e la testa verde, si accoccolavano in grembo ai monaci.
In “Umozrenie v Kraskach” (Contemplazione nel colore), Evgenij Nikolaevic Trubeckoj (1863-1920) sostenne che, con modalità “sinestesiche”, fiere e animali selvatici s’accostano alla santità perché in essa fiutano “quel profumo” che emanava da Adamo prima della caduta.
Parte della retorica che convalida l’allegoria è proprio la meraviglia. Dietro l’influenza dell’immaginario popolare c’è da intravvedere sia versatilità di preoccupazioni occasionali di tipo sociale, come pure delle espressioni universali di sensibilità spirituale.
Giuseppe M. S. Ierace
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