Procrastinare: la Perduta arte dell’attesa.
“Il nobile mangia e beve aspettando il diluvio”.
“L’impazienza non porta frutto. Per riuscire a vincere bisogna sapere anche attendere”.
[I-Ching, esagramma n.5: “Hsu – l’attesa”]
Sul tema di come impiegare il proprio tempo per affrontare un compito, esistono due aforismi che tutti conoscono e che mettono a confronto due scuole di pensiero. Il primo è di Benjamin Franklin, scienziato settecentesco, considerato dagli americani uno dei padri della patria, che recita: “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”. Il secondo è di Mark Twain, scrittore americano del tardo ottocento, dotato di uno spirito sorprendentemente moderno, che ribatte: “mai rimandare a domani ciò che puoi fare dopodomani”.
Attualmente, secondo gli esperti siamo di fronte al dilagare del morbo di Mark Twain. Il procrastinare è stato ufficialmente riconosciuto come una patologia, che a quanto pare oggi sta raggiungendo il suo picco storico di diffusione. E, proprio come accade con ogni epidemia che si rispetti, ora proliferano gli studi scientifici per isolare le cause del fenomeno, nonché le metodiche per curarlo. Bisogna fare qualcosa, ma subito.
Iniziamo dalla definizione della malattia del procrastinare. A un primo livello, semplicemente, significa spostare a domani: rimandare un compito da svolgere, posporre la realizzazione di un progetto. Che ciò sia un male tende ad apparire evidente. Ma questo accade perché siamo abituati a pensare al tempo come ad una risorsa limitata, che va spesa e sfruttata al meglio, a nostro vantaggio, e prima che si consumi da sé. In pratica, pensiamo al tempo come pensiamo al petrolio o all’oro. Con una ulteriore prerogativa: pensiamo ad una risorsa che non soltanto diminuisce, ma che si svaluta, che tende a perdere valore. Dunque, il tempo è come il denaro. Questa, che ci sembra una verità assoluta, invece è una metafora. Potremmo pensare, ad esempio, che il tempo è come un serpente che si morde la coda, immaginare il tempo come una freccia o come una ruota o come una spirale. In effetti il tempo è stato immaginato in tutti questi modi, ma per noi è ovvio che sono tutti sbagliati: il tempo moderno è denaro.
Se il tempo è denaro, di conseguenza il procrastinatore è uno che dilapida il suo patrimonio in cose futili, mentre la merce di valore che potrebbe e dovrebbe acquistare aumenta di prezzo, sfuggendo dalla sua portata. Questa è la sua malattia. L’inventore dell’equazione del procrastinatore, da cui prende spunto questa meditazione e sulla quale tornerò tra breve, offre una definizione a suo modo geniale del procrastinare: rimandare un compito nonostante ci si aspetti che le cose peggioreranno col passare del tempo. Geniale, perché non contempla la possibilità di attribuire all’attesa un valore positivo dal punto di vista strategico. Invece, si può anche ipotizzare che saper aspettare sia importante tanto quanto saper agire. Nel celebre libro “l’arte della guerra”, Sun Tzu insiste sull’importanza strategica dell’attesa. Secondo quel modo di pensare, si può dire che tutto l’agire umano dotato di senso e di efficacia sia basato sull’armonia tra l’agire e l’aspettare, che poi sono i due aspetti complementari del Tao: lo Yin (passività) e lo Yang (attività). Ma ormai per definizione l’attesa non ha valore strategico. All’aspettare non è riconosciuta la dignità di un’azione dotata di senso. Ci disabituiamo a pensare che il tempo possa giocare a nostro favore. Che l’attesa possa essere un modo di guadagnare tempo anziché di perderlo. Chi ha tempo a disposizione deve spenderlo subito, e trasformare il tempo in cose fatte, perché dopo sarà peggio: sarà troppo tardi.
Un altro punto cruciale è come valga la pena di spendere il tempo-denaro. La nostra attitudine spontanea è quella che caratterizza il consumatore medio: sentiamo di disponrre di troppo poco credito da spendere rispetto ai desideri da esaudire. Poco tempo per sogni così grandi; sogni evocati da parole come “successo”, “eccellenza”, “ottimizzazione”. Poco tempo per così tante cose da fare, che una vita sola non basta. Ed ecco che il tempo diventa il bene più prezioso perché lo scopo della vita è spenderlo (consumarlo) al meglio, ma anche una risorsa priva di valore, dal momento che non lo si può convertire magicamente in tutto ciò che si desidera. Il presente è l’unico tempo pensabile, il luogo dove nascono le infinite possibilità: “life is now”; tutta la vita è adesso. Il nostro orizzonte temporale è fatto di una successione di attimi presenti dove può iniziare il tempo della nostra eccellenza, del nostro successo, della nostra felicità. Poi, solo un istante dopo, ciascun attimo di tempo è perduto portandosi via ciò che di unico e di speciale poteva essere, e non è stato.
Volgiamo finalmente lo sguardo alla notizia. Uno scienziato ha scoperto <a href=”http://www.dailymail.co.uk/news/article-1092645/Ill-finish-job-tomorrow—How-simple-equation-help-overcome-procrastination.html”>la formula del procrasinatore</a>. La formula si presenta così: P = (AS x VR)/(TP x GC). Niente paura. In pratica vengono individuate 4 variabili sulla base delle quali si può calcolare la propria probabilità di portare a termine un dato compito (P), rispondendo con un punteggio da 1 a 10 alle seguenti domande:
– che aspettativa di successo ho in quel dato compito? (AS)
– che valore attribuisco alla riuscita nel compito? (VR)
– qual è in generale la mia tendenza a procrastinare? (TP)
– quanto sono gravi le conseguenze del non portare a termine il compito? (GC)
Al di là della soggezione che le formule matematiche sono in grado di suscitare con la loro aura di scientificità, l’idea è persino semplicistica: ci sono 4 aspetti che influenzano il fenomeno del procrastinare. Due aspetti giocano a favore del completamento del compito, e sono l’aspettativa di successo (AS) e il valore della riuscita (VR). Due aspetti invece conducono al fallimento del compito, e sono la tendenza generale a procrastinare (TC) e la gravità delle conseguenze (GC).
Per prima cosa, si noti bene che la formula è interamente basata su una stima soggettiva; quello che viene misurato sono autovalutazioni individuali di aspettative, valori, tendenze, attribuzioni. Niente di oggettivo. I punteggi indicano la visione che una data persona ha di sé, di un dato compito e, più in generale, del mondo.
Inoltre, chi ha un po’ di familiarità con la matematica si accorgerà che secondo la formula l’effetto complessivo prodotto dalle variabili dipende da come queste si combinano tra loro. Cioè le variabili possono potenziarsi o neutralizzarsi reciprocamente. Ad esempio, se uno ha un’elevata aspettativa di successo (9) ma dà un valore minino al compito (1), ottiene un punteggio di 9×1 = 9, mentre chi ha una aspettativa media di successo (5) e dà un valore medio al compito (5), ottiene un punteggio di 5×5 = 25. Come si nota, nei due esempi la somma dei due punteggi fa sempre 10, mentre il prodotto dà risultati molto diversi a seconda di come si combinano i due punteggi.
Il risultato di una formula così impostata si chiama “indice”. In generale un indice serve per stabilire delle proporzioni tra un insieme di variabili. Ad esempio, l’indice di massa corporea fornisce una proporzione tra massa (peso) e altezza; tenendo anche conto di sesso, età e costituzione fisica, il calcolo indica se uno rientra in un range di “giusto peso”. Qui invece il risultato ha valore di previsione su un’azione futura. Dal punto di vista teorico, l’unico modo di mettere a punto un indice di questo genere è fare migliaia di calcoli applicando la formula in tanti casi differenti, poi andare a vedere tutti gli esiti finali delle migliaia di casi considerati (se i compiti vengono portati a termine o meno), e infine stabilire una relazione probabilistica consolidata tra un dato punteggio della formula e un dato esito nel compito da completare. Per cui, ad esempio, se si verifica che un punteggio inferiore 3 nella formula corrisponde ad un compito non portato a termine nel 99% dei casi, si potrà affermare che un punteggio inferiore a 3 prevede un caso di procrastinazione (con un margine di errore dell’1%).
Si intuisce che teoricamente, provando e riprovando, si possano produrre anche altre formule con altre variabili in rapporto diverso tra loro, e ottenere risultati predittivi analoghi o migliori. L’articolo non spiega se effettivamente la formula è stata collaudata, né se ne sono state provate anche altre, ma diamo per assodato che tutto ciò sia avvenuto, e cerchiamo di capire cosa ci rivela la formula sulla malattia del procrastinare.
Con un’avvertenza: la cosa più importante di tutte non è scritta nella formula. Viene proposta una equazione invisibile tra procrastinare e fallire. Il cui reciproco è che portare a termine un compito significa riuscire. Tutte e due queste equazioni sono chiaramente false. Per vedere il trucco basta guardare P; la formula si propone di calcolare la probabilità di non portare a termine, non quella di rimandare. E’ un gioco di prestigio. Ma se ancora non riuscite a vedere il trucco, seguitemi.
Per quanto riguarda il primo fattore della formula, è assolutamente sensato che una aspettativa di successo elevata spinga ad intraprendere un’azione, e che viceversa una bassa aspettativa induca a non cimentarsi nel compito. Qualunque essere vivente per superare il test della selezione naturale deve trovare un modo di impostare le proprie condotte su un calcolo delle probabilità di successo/insuccesso.
Eppure, è su questo punto così naturale che tende a venire elaborata una diagnosi: i procrastinatori hanno bassa autostima. Sono gente riunciataria, che nella vita pensa sempre di non farcela, e rinuncia senza nemmeno provarci. Il procrastinatore è quello che gli americani chiamano un “perdente”. Ma attenzione; un compito ha due esiti possibili: riuscita e fallimento. La possibilità di cimentarsi in un compito e fallire esiste. Certamente, una attitudine “negativa” può aumentare le probabilità di fallire. Ma che dire di chi si aspetta un fallimento sulla base di un calcolo corretto? A rigor di logica, se la previsione di fallimento nell’immediato è corretta, procrastinare è la strategia migliore.
Si dirà che rimandare un compito è un vano tentativo di sottrarsi. Si rimanda qualcosa perchè non la si può evitare del tutto. In realtà non si rimanda il compito, ma il momento temuto in cui il proprio fallimento sarà compiuto ed evidente, e se ne dovranno fronteggiare le conseguenze. Giusto. Ma ricorderò sempre un mio compagno di scuola che, totalmente impreparato, non fu in grado di reggere la tensione del momento in cui la Prof. sfogliava il registro per decidere chi interrogare, e si offrì volontario: fu un massacro.
Se pensiamo al caso di chi non tiene conto del rischio di fallimento e dà per scontato l’esito favorevole, lo definiamo un ottimista, una persona sicura di sé, persino un eroe. E perché non un incauto, o uno stolto? Prigionieri del mito che “volere è è potere”, siamo costretti ad agire impulsivamente, colpevoli dei nostri limiti ed umiliati dal fallimento, dal momento che rimandare è un po’ fallire, e chi fallisce non ha creduto abbastanza nelle sue possibilità.
Il secondo fattore della formula è il valore attribuito al risultato. E’ il fattore motivazione: più ci tieni ad una cosa, più ti impegni per ottenerla. Anche questo tende ad essere visto come un pregio. Il commitment americano: ci tengo, mi impegno, ci dò dentro.
Molte delle cose che si rimandano sono incombenze che ci appaiono noiose e futili. Ci manca la motivazione. Prendiamo un esempio tipico: fare le pulizie. Non è che uno possa fallire in un compito come questo: o lo fai o non lo fai. Qui fare è davvero sinonimo di riuscire, e l’unico modo di fallire il compito è non farlo. Il guaio è che la cosa non ti interessa proprio. Dovresti tenerci all’ordine ed alla pulizia. Ma sai che la polvere si deposita senza sosta in ogni interstizio che pulisci, che il calcare tornerà a ghermire il vetro della doccia, che in men che non si dica il secchio dell’immondizia sarà di nuovo pieno, e il lavabo traboccherà di stovigie sporche. La vita è adesso, e tu non vuoi sprecarla a contrastare l’inesorabile tendenza dell’universo a precipitare verso il caos. Sembra uno scherzo, invece stiamo tirando in ballo il senso della vita e il secondo principio della termodinamica. La vita è un principio regolatore che si oppone all’entropia. Chi ha stabilito che il modo giusto di comportarsi da vivi sia svolgere certi compiti anziché altri? Le pulizie, la fila alla posta, i regali di Natale, sono compiti alla nostra portata. Ma non ci sono evidenze che dare valore a queste attività e impegnarsi per portarle a termine ci tornerà utile nella vita. Non è questione di ribellarsi ai genitori o all’ordine sociale, come sostiene qualcuno. E’ che non sai se ne vale la pena, e il mondo attorno a te manda messaggi contraddittori in proposito. Intanto, se rimandi abbastanza certi compiti rognosi, può essere che qualcuno li farà per te. Inoltre, la televisione suggerisce che siano altre le cose che contano davvero: la fama, la ricchezza, la bellezza, il successo. Cose che molti personaggi della TV sembrano possedere grazie ad una combinazione di doti naturali e fortuna. Ci sono molti indizi che spendere il tempo a farsi il culo sia fuori moda. Non è l’atarassia del saggio, che deriva dal non dare valore alle cose futili. No, è l’apatia del tronista: vincere senza impegnarsi, questa è la massima aspirazione.
Tuttavia, in una ipotetica scala della motivazione, all’estremo opposto degli aspiranti vincenti nati, troviamo i superconvinti, i fissatoni, gli intossicati della performance. Il loro obiettivo è essere al top, la loro regola di vita è insistere, insistere, insistere. Crederci sempre, arrendersi mai, come ingiunge la presentatrice di un reality show. Ma questo non è lo stesso meccanismo che, in chiave patologica, sostiene anche il comportamento dei giocatori d’azzardo? Si spinge al massimo, puntando tutto su un valore supremo che, alla fine, si perde di vista. Ripenso ad un mio paziente, top manager di una multinazionale che, a sessant’anni compiuti, dopo aver scalato i vertici aziendali, accumulato ricchezze che non aveva mai avuto il tempo di godersi, dopo due divorzi e tre by-pass, non sapeva come passare la domenica e, da una camera d’albergo che aveva adottato stabilmente come dimora, aspettava l’infarto definitivo importunando i suoi sottoposti con questioni di lavoro. La motivazione sempre a mille, alla fine, diventa un modo per esorcizzare la paura del baratro, del vuoto assoluto di senso che affiora non appena ci si ferma e si prende una pausa per respirare.
Il terzo fattore, che viene fatto rientrare tra gli elementi sfavorevoli, è la tendenza generale a rimandare. La ricerca non spiega bene di cosa si tratti, salvo inquadrare questa tendenza come un difetto. Personalmente faccio fatica a pensare che la tendenza al rimando sia come una specie di tratto di personalità, generale e stabile. La vedo più come una questione caso-specifica; certe cose tendo a rimandarle, altre le faccio subito. Comunque, ammettiamo che esista un aspetto generale. Secondo la ricerca questa tendenza dipende dalle esperienze passate. Senz’altro, sapere di essere uno che in genere porta a termine le cose è un buon incoraggiamento, e viceversa, avere un’immagine di sé come di uno che non riesce a portare a termine le cose diventa un impedimento.
Ma attenzione al sottinteso: ancora una volta, si ragiona come se il rimandare produca sempre un fallimento. Se ciò fosse vero, i comportamenti di attesa dovrebbero estinguersi. Perché non è così? Prendiamo la classica cavia da laboratorio. Se preme una leva, ottiene una pallina di cibo. E la cavia, se opportunamente affamata (vedi sopra alla voce: “motivazione”), preme a tutto spiano. Poi il cibo arriva solo se si preme la leva quando si accende una luce. E la cavia impara a premere solo con la luce accesa. Finché la luce è spenta, la cavia aspetta. Ovvero: impara ad utilizzare il tempo in funzione del risultato. In natura, non esiste l’idea del tempo né tantomeno la metafora che il tempo sia denaro. Pertanto, per un topolino è naturale che rimandare possa servire allo scopo.
Per noi uomini moderni invece no. Prendiamo ad esempio il caso tipico dei regali di Natale. Molta gente tende ad acquistarli all’ultimo momento. E molta gente pensa che questo sia un motivo di biasimo, ivi compresi alcuni di quelli che adottano il sistema last-minute. Aspettare l’ultimo giorno, si dice, è sbagliato: perché gli ultimi giorni c’è più folla per le strade e nei negozi, perché i prezzi aumentano, etc. Ragioni pratiche. Ma soprattutto perché devi convivere con l’ansia fino all’ultimo minuto e poi agire sotto pressione. Ma proprio questo è il punto! Le persone non funzionano tutte allo stesso modo. Quella “pressione” è un meccanismo di Madre Natura che serve proprio a spingerci e a sostenerci. Mentre alcuni di noi non la reggono a lungo, e allora adottano strategie che non ne prevedono l’utilizzo, ad alcuni di noi quella pressione serve per portare a termine il compito. Quelli dell’ultimo minuto si lamentano, giurano che mai più in vita loro. Ma procrastinare è il loro modo di farcela. Non si dà quasi mai il caso di uno che rimanda l’acquisto dei regali di Natale e alla fine arriva a mani vuote sotto l’albero.
Prendiamo un altro esempio tipico, dove invece c’è il rischio di fallire: lo studio. Si dice che chi studia la notte prima degli esami poi ottiene risultati peggiori. Però bisognerebbe fare il confronto a parità di ore di studio, di impegno, di capacità, etc. Ci sono anche quelli che studiano l’ultima notte e ottengono risultati brillanti, alla faccia dei secchioni.
In sostanza, io penso che la tendenza generale a rimandare le cose, se esiste, deve essere un fattore “neutro” di per sé, che viene interpretato sulla base di un pregiudizio negativo nei confronti dell’aspettare. Io la vedo così: la tendenza a rimandare può essere uno stile efficace, non predittivo di per sè di fallimento. Dopo di che, è probabile che una storia di fallimenti porti ad adottare una strategia di evitamento. In pratica, lo studente che, per varie ragioni, ottiene risutati mediocri, avrà anche più probabilità di diventare un procrastinatore. In quel caso saremo effettivamente in presenza di un utilizzo fallimentare del rimandare, che alimenta un circolo vizioso. Ma almeno la professoressa potrà dire ai genitori: “il ragazzo è intelligente, solo che non si applica”. Meglio svogliato che stupido. Non finire un compito è un modo di fallire senza fallire. In questo esempio, si nota come il procrastinatore patologico usi la sua strategia per altri scopi che non tengono più conto del risultato. Non è la strategia che non funziona: è che serve ad altro.
Tornando alla mia idea che la tendenza a procrastinare sia caso-specifica, immagino un meccanismo a spirale positiva per le attività che mi piacciono + mi riescono + non rimando (a meno che non sia funzionale al risultato), ed una spirale negativa per le cose che non mi piacciono + non mi riescono + tendo a rimandare (anche quando è controproducente farlo).
L’ultima variabile della formula riguarda le conseguenze del fallimento: più gravi sono ritenute le conseguenze, più si tende a rimandare. E come mai la paura delle conseguenze non agisce da incentivo all’azione?
I conti tornano se si concepisce il procrastinare dinanzi ad un esito temuto in termini di strategia di sopravvivenza. L’uomo, come qualsiasi altro animale, di fronte ad un pericolo può adottare tre strategie: attacco, fuga, e immobilizzazione. Se l’evoluzione ha selezionato tre strategie, significa che non ce n’è una sola giusta o una migliore in assoluto. Sono buone tutte e tre, e ognuna risponde efficacemente a un caso diverso. La scelta di quale usare è effettuata sulla base di un calcolo di probabilità. Se penso di poter vincere facilmente, attacco (cioé: affronto la situazione temuta). Se prevedo che l’esito dello scontro sia sfavorevole o comunque molto dispendioso, ma vedo una agevole possibilità di fuga, allora fuggo (cioé: evito la situazione temuta). Se penso di non avere probabilità di vincere e non vedo neppure una via di fuga, allora mi immobilizzo (cioè: attendo).
Ora, se vediamo un animaletto che si immobilizza di fronte al pericolo, subito ci viene un pensiero del tipo: “non stare lì impalato, stupido: fai qualcosa!”. Facciamo fatica a comprendere la saggezza del non-fare. Allora può essere utile concepire l’immobilità come un comportamento “attivo”, che serve a disorientare il nemico, a creare l’opportunità che gli eventi mutino in modo favorevole, ad effettuare ulteriori calcoli sulle soluzioni a disposizione. In una situazione di pericolo, anche l’immobilità equivale a “fare qualcosa” per uscirne vivi.
Il problema per noi umani si pone dal momento che attribuiamo un significato ed un valore alle diverse opzioni che la natura ci offre: affrontare la situazione è la cosa giusta da fare, fuggire è da vigliacchi, restare immobili è inutile e dannoso. Esattamente qui iniziano i nostri guai. Qui arriviamo dritti all’essenza del procrastinatore fallimentare. Quello che fa sì che per noi aspettare significhi fallire. Il procrastinatore, di fronte ad un compito che teme di fallire, esclude a ragion veduta la prima opzione: l’attacco. Allora passa alla seconda opzione utile: la fuga. D’altronde, la paura serve apposta per farci fuggire. Quella che generalmente in queste circostanze chiamiamo ansia, invece è paura. L’ansia è una paura senza oggetto. Qui l’oggetto della paura è evidente: il fallimento.
A questo punto abbiamo già capito che non finire un compito è un tipo di fallimento preferibile al fallimento vero e proprio che deriva dal portare a termine un compito mancando il risultato atteso. Accettare serenamente un fallimento non si può, e nemmeno si può fuggire come dei vigliacchi. Così il procrastinatore fallimentare non si adopera nella nobile arte della fuga poiché non la considera onorevole, e non mette a punto un buon piano di fuga. Spreca anche questa seconda possibilità.
Gli rimarrebbe la terza possibilità: l’immobilità. Ma quella non la prende neppure in considerazione, perché è abituato a pensare che attendere e non-fare non siano una soluzione.
A questo stadio il procrastinare diventa parologico. Il procrastinatore fallimentare si risolve a non arrendersi e, seguendo l’imperativo categorico del passare all’azione, come è noto, si dedica ad attività diversive (Internet, TV, videogiochi, etc.). Prende lo slancio, e si getta su un’altra attività! E’ interessante che sia stata ormai accertata l’indole impulsiva dei procrastinatori (non è affatto vero che chi rimanda sia un riflessivo, un perfezionista, un tipo preciso e coscienzioso). Ormai appare chiaro che il rimandare, in quest’ottica, non è una mancata azione, ma un comportamento attivo… di fuga. Mentre il procrastinatore fallimentare inconsapevolmente fugge dal compito temuto, dedicandosi ad attività colaterali, intanto il tempo passa. Ecco come l’attesa, vera e propria Cenerentola delle strategie, entra in azione di nascosto, giocando a favore di chi la disprezza. Ma quasi mai la povera principessa viene riconosciuta. Quando l’azione non va a compimento, su di lei ricadono colpa e vergogna. Ed anche quando il suo intervento salva l’incauto procrastinatore, il merito viene attribuito al caso, alle circostanze, alla fortuna. Così,l’ignaro iniziato all’arte dell’attesa, ringrazia il cielo dello scampato pericolo e giura che ha imparato la lezione: d’ora in poi non si ridurrà mai più ad aspettare l’ultimo momento.
In conclusione, a me pare che il procrastinare possa essere un segno di saggezza, laddove l’attesa implica un uso consapevole e creativo del fluire del tempo. Nella specie umana, l’accrescimento delle strutture neo-corticali ha consentito di poter rimandare l’azione, e potenziare così capacità di ordine superiore come il pensiero strategico, la pianificazione, l’immaginazione. E’ grazie alla pausa che si sviluppa il pensiero. Il procrastinatore patologico non calcola efficacemente quando agire e quando aspettare; né sa fare buon uso dell’immenso potenziale messo a disposizione dalla pausa. Di conseguenza, attiva simultaneamente una tendenza all’azione di tipo impulsivo, non ben pianificata, e una risposta di evitamento tipica della paura (del fallimento). Misconoscendo del tutto il valore dell’attesa come una risorsa. Questo comporta una spirale negativa man mano che passa il tempo e l’azione rimane incompiuta. Da qui, l’esposizione ad un fallimento che, a cose fate, verrà ascritto proprio all’aver atteso. La mia conclusione è che chi sa aspettare sa anche agire. Il procrastinatore patologico è uno che non sa aspettare.
Ottima diagnosi. Mi chiamo Carlo, ho 22 anni e sono uno studente; devo ancora effettivamente farlo,lo studente. Leggendo mi sono riconosciuto nell\’immagine che hai descritto del procrastinatore patologico. Rimando spesso molti impegni apparentemente insignificanti ma che insignificanti nn sono e me ne rendo conto. Lo studio rappresenta l\’espressione più grande e preoccupante di questa mia \"patologia\". Non ho mai avuto una grandissima autostima,per diversi motivi, e nel caso specifico dello studio ne ho persa tanta quando sono stato bocciato in seconda liceo. Mi ero fatto un culo enorme per recuperare la strada persa ma nn è servito e sono stato bocciato lo stesso. Ora sono all\’università con il primo esame in vista, e la mia tendenza al rimandare nn sembra volermi abbandonare. Sono uno che conosce i suoi difetti e nn ha paura di confrontarsi con essi e con le conseguenze che possono portare. Voglio capire come posso evitare questo tipo di atteggiamento che anche nei confronti della vita è ultimamente piuttosto negativo…devo forse aspettare?