Quella che sembra una costante dei nostri travagliati tempi sarebbe un troppo frequente e ormai sistematico ricorso al paradigma dell’emergenza, sostenuto dalla necessità di tamponare una diffusa e generalizzata incapacità di risolvere il conflitto di fondo tra scienza, conoscenza e coscienza, da un lato, e dall’altro, potere, legittimazione, legalità e giustizia, che non sono affatto sinonimi. La complessità della situazione attuale non appare un filtro sufficiente a favorire i migliori e quelli indicati come tecnici, in certi frangenti, si rivelano per altro più incompetenti degli altri. È storia recente!
La tecnica sarebbe stata deputata a individuare i mezzi più razionali, senza minimamente occuparsi dei fini corrispondenti a determinati ideali, fin quando il parametro economico del benessere non ha spodestato “il buon governo” dalla politica. Con un deteriore aggiotaggio, l’organizzazione produttiva ha corrotto il mercato, riconfigurando accorciamento e accelerazione dei tempi in un ossimorico stato d’eccezione cronico.
L’urgenza che si respira non si rivela semplicemente come artefatto elusivo, ma affonderebbe le proprie radici nell’accelerazione che il progresso tecnologico avrebbe intrinsecamente imposto al meccanismo evolutivo. Lo sviluppo seguirebbe infatti un andamento esponenziale, imprimendo all’accelerazione una velocità proporzionale al proprio grado, per cui, a saturazione avvenuta, il ritmo potrebbe risultare, per noi poveri mortali, assolutamente insostenibile.
Conseguenza dell’accorciamento prodotto dall’accelerazione è l’impressionante e diffusa iperattività, quasi a sottile conferma del lacaniano, profetico “discorso del capitalista”.
In “Les passions tristes – Souffrance psychique et crise sociale” (2003), Miguel Benasayag e Gérard Schmit dimostrano come “il sentimento (quasi) permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi” non si possa più far rientrare semplicisticamente nella dimensione psicopatologica, ma rispecchi fedelmente un (nuovo) disagio sociale. Troppo repentinamente vengono imposte, con malcelata minacciosa aggressività, decisioni, spesso vincolanti, le quali rendono le, sia pur comprensibili, esitazioni inaccettabili nel “qui e ora” che tende a nascondere una fatale immediatezza. Niente a che vedere, quindi, con l’ansia soggettiva dettata dall’incertezza o l’angoscia per il timore di un futuro ignoto.
Dall’epoca freudiana del “disagio nella civiltà” all’odierna precarietà si è interposto il degrado dell’esasperazione individualista in quella “monade di godimento” che ha dribblato la creatività soggettiva del desiderio, costringendo l’inconscio a una permanente “compulsione incestuosa”. Il luogo “fuori dal tempo” dell’Altro, per Lacan, “non intaccato dalla dialettica sociale”, è adesso marxianamente “infettato dalla storia”, privo del carisma alienante, anonimo e dunque incapace di procurare identificazioni. Dal miraggio totalitario della fusione nell’Uno si è giunti alla liquidità dell’atomizzazione. La crisi d’identità, che intacca l’appartenenza e sfalda la comunità, paradossalmente, inibisce ogni incontro.
La dialettica del riconoscimento, coincidente con l’esperienza sociale del lavoro, in età ipermoderna si è annichilita. E l’evaporazione del padre, di lacaniana memoria, è culminata in una “affermazione schizofrenica del postfordismo”, definita da Federico Chicchi (“Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo”, 2012), in una rilettura della dialettica hegeliana servo-padrone, come “evaporazione del Lavoro”.
Oltre che rendere “liberi”, secondo il titolo “Arbeit macht frei” di Lorenz Diefenbach (1806-1883), il lavoro avrebbe dovuto innanzitutto rendere “umani”. Ma, se il fordismo apparteneva alla categoria psicopatologica della paranoia, la nuova economia capitalista rientra in quella schizofrenica della frantumazione dei legami e di una “anomia generalizzata”. La dissociazione disgregativa ha sostituito l’identificazione rigida dell’io e, di conseguenza, anche la centralità del processo produttivo. Il lavoro è fuoriuscito dall’espressività gramsciana fisico-macchinale e dallo “sguardo benthamiano dei dispositivi disciplinari che annienta la dimensione della singolarità”, per acquistare valore significante di desiderio, opportunità, in un presente claustrofobico, schiacciato dall’assenza di prospettive in un futuro pertanto foriero d’angoscia.
Divenuto meta della pulsione, invece che punto di costrizione, a cui veniva schiavizzato il corpo sessuato, questo lavoro idealizzato ha fortemente minato il lungo e “non storicistico” procedere psicoanalitico, movimento spiraliforme, fatto di tornanti, discontinuità, contrattempi, e soprattutto poco conformabile alla, sia pur controversa, linearità, in crescita evolutiva, del momento.
“Nulla allarma di più lo psicoanalista alle prese con il suo paziente di un improvviso mutamento di scena, si tratti pure di uno strabiliante e inaspettato miglioramento. – Si confida Francesco Napolitano, assieme a Francesca Borrelli F., Massimo De Carolis e Massimo Recalcati, autore di “Nuovi disagi nella civiltà” (Einaudi, Torino 2013) – Perché, come vuole lo stesso linguaggio comune, la patologia coincide con l’instabilità psichica”.
Allorquando la pressione sociale e politica non fanno che sollecitare ritmi di mutamento incompatibili con un naturale turnover psichico, la tempistica necessaria all’elaborazione interiore delle novità, cui non ci si può comunque sottrarre, inevitabilmente subisce quel “cortocircuito esistenziale” di cui ha già cominciato a parlare Ulrich Beck.
La dissoluzione sociale ha diluito i legami fino a renderli “liquidi”, secondo un’attuale felice espressione di Zygmunt Bauman che però non è del tutto nuova. In passato (1905), Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) descrisse l’agonia della sua epoca, vissuta alla stregua d’una “gaia apocalisse”, con il termine “das Gleitende”: “ciò che scivola” e scorre appunto come pioggia sull’impermeabile.
“La sostanza del nostro tempo è fatta di molteplicità e di indefinito. Poggia soltanto su das Gleitende, e ben sa come ciò che le altre generazioni credevano fermo e immutabile, in realtà non è altro che das Gleitende”.
Il sarcasmo di A. Paul T. J. Valéry (1871 – 1945), rende più amara l’accettazione di questa disillusione: “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta”!
Un meccanismo di difesa scotomizza la disperazione estrema, in accordo all’adagio latino “in tristitia ilaritas”, oppure con la metafora di Hermann Broch (1886-1951), in “Hofmannsthal und seine Zeit” (1947/48), una mano di vernice ricopre la miseria.
Il pensiero della fine è talmente intollerabile che anche la persona più razionale fantastica di sopravviverle. Il destino biologico è predeterminato per tutti gli esseri viventi, tranne che per l’uomo il quale si ritiene capace di tutto e quindi non predestinato a niente, cosicché, nella formula di Martin Heidegger (1889-1976): “il proprio poter-essere” mantiene aperta una domanda che non necessariamente richiede alcuna valida risposta.
Le medesime fondamenta, del resto, sulle quali poggiava la cosiddetta modernità, dalla cieca fiducia nel progresso alla promessa della felicità, inscritte nell’ideologia dell’eterno sviluppo, sono entrate in crisi alla pari delle “grandi narrazioni” di Jean-François Lyotard (1924-1998) su come va, o dovrebbe andare, il mondo. In ciò Benasayag e Schmit riconoscono la “rottura dello storicismo teleologico”, della basilare credenza nel miglioramento, in un ottimismo suffragato dalla speranza, se non viceversa.
L’angoscia di castrazione, in relazione alla legge edipica, animatrice del desiderio, attraverso l’esperienza di separazione e perdita del godimento, rientra nel processo di soggettivazione. L’angoscia ipermoderna nasce invece dall’impossibilità della separazione, dalla “mancanza della mancanza” (Lacan Seminario X), un’assenza al quadrato. L’esperienza in questo caso è quella del perturbante, ripresa dal romanzo gotico e dai racconti di Edgar Allan Poe, e vissuta nell’incubo di trovarsi sepolti vivi.
Emmanuel Lévinas (1906-1995) avrebbe parlato di impossibilità d’evadere (De l’Évasion, 1935), Herbert Marcuse (1898-1979), della riduzione del nostro universo a una sola dimensione (One-Dimensional Man, 1964), Pier Paolo Pasolini (1922-1975) dell’incapacità di svincolarsi dalla presa dell’altro che tende ad assimilarci.
“È un paradosso ipermoderno: – ammette Massimo Recalcati, in “Nuovi disagi nella civiltà” (Einaudi, Torino 2013) – il nostro tempo vorrebbe essere il tempo dell’homo felix, della liberazione dall’angoscia, del tramonto dell’uomo tragico (Edipo), del suo superamento ludico, e invece ci accorgiamo – per esempio attraverso la diffusione epidemica degli attacchi di panico – che siamo tutti sepolti vivi, privi d’aria (l’attacco di panico è stato definito come ‘una fame d’aria’), nell’impossibilità di sconnetterci, presi in un blob appiccicoso che si estende ovunque”.
Nel caso tragico d’Edipo, il “dislivello prometeico” di Günther Anders (pseudonimo di Günther Siegmund Stern, 1902-1992), tra ciò che si sa e ciò che si capisce del mondo e di se stessi era dichiaratamente paradigmatico, mentre la società d’oggi tende a nascondere una palese vulnerabilità con la parvenza illusoria d’una totalitaria onnipotenza. Esempi ne sono i cosiddetti “derivati” della Borsa, immancabilmente destinati a sgonfiarsi, come le difese egoiche ipertrofizzate a lasciar spazio all’angoscia e ai suoi sintomi.
Da fragile creatura qual è, “l’Io fa soltanto di necessità virtù e … sostiene la parte ridicola del clown Augusto – scriveva Freud nel 1914 (“Zur Geschichte der psychoanalytischen Bewegung”) – che vuol convincere con i suoi gesti gli spettatori che tutti i cambiamenti avvengono nel circo grazie ai suoi comandi”.
Anders s’esprime nei termini di “analfabetismo” per definire questa condizione di bypass pulsionale. E, in nome della pulsione, si alimenta l’ignoranza della realtà. La strategia difensiva classicamente riconosciuta è quella del diniego (Verleugnung), in sostituzione alla rimozione applicata invece alla rappresentazione interna. L’angoscia viene alla fine “agita” e non “verbalizzata”.
Il brillante paragone con la moneta non convertibile, refrattaria a ogni tipo di scambio e permutazione, per quel picco caotico e irreversibile dell’entropia psichica, è giustificata dalla disorganizzante destrutturazione di ciò che, come l’angoscia, non possiede alcuna direzione.
Il caso dello snobismo (da sine nobilitate), che nasce con l’avvento del nichilismo nietzschiano, appare un’eccezione intellettuale alla collettiva strategia del diniego, per far confluire la vanità dell’esistenza in una maggiore ricchezza di senso, ma siamo già sulle impraticabili strade delle “apocalissi culturali” di Ernesto de Martino (1908-1965) e della “antistruttura” di Victor W. Turner (1920-1983), in cui l’antropologia evoca l’insensatezza contingente alla necessaria affermazione d’un qualsiasi codice simbolico.
Senza distinzioni, suddivisione in parti (diaîrein) e analisi, non si possono mettere a confronto le idee; su questo era impostata l’arte diairetica di Platone. Aristotele la formalizza nella “legge del terzo escluso”, forse raggiungendo il traguardo finale in quello che potrebbe essere un ordinamento del mondo grazie all’esercizio del linguaggio. Ma la grande scoperta di Freud è stata invece che non sempre il linguaggio lo si può collocare all’interno d’una struttura diairetica. Il suo “Über den Gegensinn der Urworte” (1910) riprende il saggio dallo stesso titolo del filologo Carl Abel (1837-1906). Alla pari delle parole arcaiche, pure le immagini oniriche condensano concetti contrapposti. Ebbene, il sogno costituisce una regressione in cui l’esame di realtà è abolito e le contraddizioni possono coesistere insieme senza escludersi vicendevolmente.
Anche il binomio natura/cultura si è rivelato un intreccio in cui ciascun polo è indispensabile all’espressione dell’altro, perché non giace nella dimensione dell’opposto inconciliabile. Su quest’intreccio, con il giusto metro dell’adattamento alla realtà, andrebbe allora misurata l’evoluzione sociale.
Un’identificazione della sessualità con “il sessuale” freudiano ha portato Marcuse a ritenere la società esclusivo ostacolo a delle occorrenze quanto meno fuorvianti, in un’attribuzione del conseguimento della felicità alla liberazione sessuale. Mentre, molto più verosimilmente, il sistema politico sociale modula semmai il contrario della gaiezza, l’infelicità, nel senso d’un sovradosaggio addizionale di afflizioni a quel “q. b.” (quanto basta) di dispiaceri che già a ciascuno spetta per sua stessa natura. Se si pensa poi che tutela, diritti e garanzie sono definitivamente sopraffatti dalla recrudescenza nell’esazione di doveri e dall’opportunismo finanziario, ormai imperante, ne risulta una sommatoria di precarietà sovrastrutturali su altre precarietà di base.
Il primo titolo del freudiano Das Unbehagen, il disagio, era Das Unglück, l’infelicità, per la ricognizione circa le possibilità di sconfessare questo destino, con la realizzazione d’un desiderio infantile, il sogno a occhi aperti e (monopolio femminile) la condizione della puerpera che, generando un figlio maschio e, potendosi appropriare di quanto agognato in termini di fallo mancante, conseguiva le altre due occorrenze. Si tratta in ogni caso di frangenti assai volatili che inducono il padre della psicanalisi a riprendere la frase di Goethe: “niente è più difficile da sopportare di una serie di belle giornate”, che ci riporta al problema della velocità, della lunghezza, della subitaneità, della sorpresa. La caducità della vita rende spensieratezza e festosità evanescenti proprio perché costruite su di un contrasto affettivo limitato a un isolato momento prezioso.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
Abel C. Über den Gegensinn der Urworte, Wilhelm Friedrich, Leipzig 1884
Anders G. Die Antiquiertheit des Menschen. I: über die Seele in Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1980
Beck U. Schöne neue Arbeitswelt. Vision: Weltbürgergesellschaft, Campus, Frankfurt am Main 1999
Benasayag M. et Schmit G., Les passions tristes – Souffrance psychique et crise sociale, La Découverte, Paris 2003
Borrelli F., De Carolis M., Napolitano F., Recalcati M. Nuovi disagi nella civiltà, Einaudi, Torino 2013
Chicchi F. Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012
de Martino E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 1977
Freud S. Über den Gegensinn der Urworte, Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschungen, Bd. 2 (1), Wien 1910, S. 179-84. — Gesammelte Werke, Bd. 8, S. 214-21.
Freud S. Zur Geschichte der psychoanalytischen Bewegung, Jahrbuch der Psychoanalyse, 1914 – Gesammelte Werke, Bd. 10, S. 43 ff
Freud S. Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytische Verlag, Wien 1930
Freud S. Il disagio nella civiltà (trad. it. Di Enrico Ganni; introduzione di Stefano Mistura), Einaudi, Torino 2010
Ierace G. M. S. Il disagio nella civiltà, https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/il-disagio-nella-civilta-%E2%80%93-quale-malessere-quale-cultura-quale-futuro-%E2%80%93-l%E2%80%99io-arlecchino-%E2%80%93-xenofobia-psicopatologia-delle-relazioni-e-della-solitudine-%E2%80%93-ma/825/
Lyotard J.-F. La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir, éditions de Minuit, Paris 1979
Lévinas E. De l’Évasion, LGF (Le Livre de poche), Paris 1998
Marcuse H. One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston 1964
Pasolini P. P. Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976
Turner V. W. The Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Aldine Publishing Co. , Chicago 1969