Medioevo simbolico: contrassegno e identità nella nascita delle arme, psicosociologia dei colori e del riconoscimento di gruppo, funzione magica della maschera

Sulla formazione del sistema araldico, per alcuni autori di lingua tedesca, avrebbero agito le insegne militari barbariche e l’emblematica germano-scandinava del primo millennio (“Wappentheorien” di E. Kittel); una specifica influenza avrebbe avuto persino la simbologia delle rune (B. Koerner). Altri propugnano invece un’origine orientale, per cui durante la prima crociata si sarebbe diffusa in Europa una consuetudine musulmana o forse bizantina. Poi ci sono quegli studiosi che rimandano ai vessilli dell’antichità classica greco-romana. Michel Pastoureau, sia in “Traité d’héraldique” (1993) sia in “Une histoire symbolique du Moyen Age occidental” (trad. it.: “Medioevo simbolico”, Laterza, Bari 2009), ricollega la questione delle origini alle trasformazioni della società occidentale ed all’evoluzione dell’equipaggiamento militare, intervenute nel corso dei primi due secoli del secondo millennio, e soprattutto nella prima metà del XII. La necessità di dipingere sulla superficie piana dello scudo “qualcosa” (siano esse figure animali, floreali, geometriche), che serva per farsi riconoscere, nascerebbe dall’invalso uso dell’elmo, il cui nasale scende a coprire buona parte del viso, e dell’usbergo, il cui esubero scherma la gola sino al mento. In una scena della battaglia di Hastings, rappresentata sul celebre Arazzo di Bayeux, risalente all’incirca al 1080, si distingue chiaramente il duca Guglielmo mentre si toglie l’elmo proprio per provare agli alleati la propria identità. Le figure stilizzate riportate sugli scudi di allora vanno considerate ancora del tutto pre-araldiche, ed è quindi tra quella data (circa 1080) e gli otto lustri successivi che sarebbe avvenuta la loro trasformazione in vere e proprie arme, con il costante utilizzo cioè di un sempre identico contrassegno da parte di uno stesso individuo.
Le silhouette che, sull’arazzo commissionato da Odone, fratellastro di Guglielmo e vescovo di Bayeux, si vedono ornare gli scudi, non possono infatti essere considerate vere e proprie arme, perché si ritrovano sia in un campo che in quello avverso, oppure differiscono nell’accompagnare uno stesso personaggio. L’arazzo venne realizzato nell’Inghilterra meridionale, oppure nell’abbazia di Saint-Florent de Saumur, sulle rive della Loira, intorno al 1080. A partire da quella data bisogna aspettare la commissione, da parte della vedova Matilde, della lapide funeraria di Goffredo Plantageneto (dal 1151, anno in cui muore, al 1160, anno della verosimile realizzazione), per riconoscere su quella lastra smaltata il blasone“d’azzurro seminato di leoncini d’oro”, da sei ad otto,  concessogli dal suocero Enrico I, in occasione della vestizione a cavaliere, avvenuta nel 1127, mediante “clipeus leunculos aureos ymaginarios habens collo ejus suspenditur”. Da quel momento e sino al 1230 ci si accorge della compresenza, sia in ambito militare che civile, feudale e familiare, individuale o di gruppo, di stemmi già consolidati ed altri tuttavia in gestazione. Vi sono sigilli anteriori al 1160 che presentano già i caratteri nettamente araldici dello scudo con arme, mentre altri, nel loro campo, (come nel tappeto di sella, cotta d’armi, gonfalone, insegna), si accompagnano a segni che solo a poco a poco sono destinati a diventare autentiche raffigurazioni araldiche. Le cifre proto-araldiche, per la stragrande maggioranza, almeno sino al 1140, formate di figure geometriche, rispetto a quelle vegetali o animali, sembrano comparire dapprima, in un arco di tempo che va dal 1120 al 1160, sull’insegna o sul gonfalone.
Con l’espansione degli atti scritti e con la maggiore attenzione rivolta all’identità ed ai simboli che la contraddistinguono, si propaga l’uso dei sigilli, come quello delle arme e dei nomi di famiglia. Alla nascita del nuovo ordine sociale, feudale o signorile che sia stato (secondo R. Fossier, 1982, o D. Barthélemy 1990), scaturito dal crollo dell’impero carolingio, classi e categorie sociali si collocano in un mosaico complesso che necessita di identificazioni evidenti ed immediate. In gran parte dell’Europa occidentale, contemporaneamente alle prime arme, si diffonde il sistema dei patronimici, onde meglio situare l’individuo nella famiglia ristretta e questa in un clan più allargato. In Islanda, il patronimico viene ancora utilizzato al posto del cognome ed al genitivo del nome del padre si aggiunge la desinenza “-son”, per gli uomini, e “-dòttir” per le donne. Anche in Italia molti cognomi derivano dall’uso del patronimico, attraverso il ricorso nelle formule ufficiali del genitivo, come testimoniato dai “placiti cassinesi”, oppure anteponendo la preposizione “di” o “de”.
Ad aver svolto il ruolo più importante, almeno per quanto riguarda le figure, sembra siano state le insegne, mentre per ciò che concerne i colori predomina la terminologia e la sistematizzazione organizzativa dei tessuti. Michel Pastoureau sottolinea come più della metà dei termini francesi in uso nell’araldica, per la descrizione dei blasoni, provengano dal vocabolario delle stoffe. Una qualche “araldizzazione” non risparmiò neppure il contesto monastico, come si deduce dall’accesa disputa tra cluniacensi “neri” e cistercensi “bianchi”, da cui probabilmente il noto proverbio che la contraddice e la nega, con riferimento all’abito.
L’arme non nasce se non da un travagliato processo di elaborazioni emblematiche le cui differenze vengono ricondotte ad un’unica formula pratica. Il simbolismo numismatico si fonde dunque con quello di sigilli, insegne e tutte le altre categorie degli antichi “vexilla”. Ad arricchire primitivi distintivi astratti, fatti di pezze, partizioni, o strutture in seminato, le quali più che le famiglie identificavano i feudi, concorrono anche i tessuti, con i colori e le loro associazioni, di cui l’esempio più tipico sarebbe dovuto poi diventare il tartan  dei clan scozzesi. Mentre le divise “parlanti” compongono dei giochi di parole con i nomi di famiglia, dai sigilli e dalle monete per lo più derivano figure di oggetti, piante, e animali. Dalla foggia degli scudi provengono la configurazione a mandorla incurvata o di tipo triangolare tendenzialmente ovalizzata, come pure gli schemi a bordura, banda, capo, fascia, croce… che fanno parte integrante della medesima struttura di questa protezione. Essa infatti si compone di assi (ais) sostenute da un’intelaiatura metallica che richiama giusto queste forme. La più comune è costituita dall’orlo associato a diagonali e segmenti. Nell’angolo in cui lo scudo risulta bombato, la gobba si prolunga in una protuberanza metallica sporgente (bocle). Lo scudo si porta a tracolla, se non si guerreggia, ma, durante il combattimento, per mantenerlo sull’avambraccio, si deve impugnare dalla parte delle cinghie più corte (enarmes) che si legano a forma di croce o di croce di sant’Andrea.
Per strutturarne il funzionamento e codificarne la rappresentazione vennero stabilite quelle regole che hanno caratterizzato il sistema araldico occidentale distinguendolo dagli altri, fino a renderlo d’interesse psicosociale. Le arme si compongono di due elementi fondamentali, figure e colori, che prendono posto all’interno di un perimetro, rappresentato dallo scudo, la cui forma potrebbe essere considerata ininfluente, se si eccettua, ad esempio, la tendenza ad armonizzarla al genere della persona. Per Dame sposate e Damigelle da marito, ad esempio, sono a losanga, rotondi o ovali; questi ultimi erano portati pure dagli ecclesiastici. Ma gli scudi possono essere di disegno diverso anche in base al luogo ed all’epoca di origine: bordo inferiore arrotondato in punta (Portogallo, Spagna, e Fiandre, che per lungo tempo sono state spagnole); tre punte nel capo (scudo svizzero); spigoloso, con la sommità prolungata da corni orizzontali (inglese); con intagli multipli (polacco). Quello tedesco, a forma di una targa da torneo (con l’intaglio che permette di appoggiarvi la lancia), andava di moda nel Rinascimento. In Italia, lo scudo sannitico, introdotto dall’araldica imperiale, consiste in un quadrilatero, che mantiene le proporzioni del classico scudo banderese (bannière), detto anche écu de tournoi, largo sette parti, o moduli, per otto di altezza, i cui angoli inferiori sono però arrotondati da un quarto di cerchio (con raggio di mezzo modulo), e la punta è formata dall’unione di due quarti di cerchio delle stesse dimensioni.
Dentro questa delimitazione, in antichità per lo più triangolare con punta inferiore ogivale, la cui curvatura inizia dal punto centrale dei fianchi (écu français ancien), colori  e figure non si combinano se non secondo delle rigorose prescrizioni di impiego e composizione. Una prima limitazione riguarda il numero (6) dei colori ammessi: bianco, giallo, rosso, azzurro, nero e verde. Si tratta di colori assoluti, concettuali, per cui non v’è differenza alcuna, ad esempio, tra rosa ed arancio, ovvero celeste, blu o indaco. E’ l’idea, di rosso o di azzurro, a valere molto più della sua espressione materiale. La rappresentazione di questi pochi colori è meno importante perciò della loro eventuale associazione. Sembra essere questa la principale caratteristica della tipologia derivante da una combinazione piuttosto che da una rappresentazione isolata. I sei si dividono in “metalli”, oro (giallo) ed argento (bianco), ed in “smalti” (rosso, azzurro, nero, verde), che devono assoggettarsi alla “regola del contrasto”: “mai metallo su metallo, né smalto su smalto”, per quanto riguarda ciò che è «su» (posto sul campo o su un altro carico), ma non per quello che è «a fianco» (in zone adiacenti ma considerate allo stesso livello); per cui questo principio concerne i “carichi” (posizione delle figure in funzione del loro numero), ma non le “ripartizioni” (ripetizioni di divisioni semplici), e come tutte le regole ha le sue eccezioni. A tale norma comunque sfuggono le “pellicce” (o fodere, come l’armellino, il vaio e le loro varianti: contrarmellino, contravaio, ovvero il vaiato, o ancora lo zibellino, falso armellino), essendo composizioni bicolori, qualificate come “anfibie”, perché costituite da un metallo e uno smalto. Vengono ottenute per “disseminazione di moscature” (armellino, zibellino), oppure per “patchwork”, come il vaio. Sembra che in origine anche i colori (smalti) nero e rosso fossero delle fodere monocromatiche impiegate per ottenere certi effetti sullo stemma. Il nero sarebbe stato una pelliccia di zibellino che dal russo “sobol”, avrebbe prodotto il termine araldico “sable”, utilizzato in Francia ed Inghilterra per indicare il nero, mentre lo zibellino, per via delle sue moscature, sarebbe divenuto sinonimo di “falso armellino”. L’etimologia di gueules (termine araldico utilizzato in Francia e in Inghilterra per indicare il rosso), ricondotta al vocabolario dei tintori, per designare la gola dei piccoli mustelidi, farebbe pensare ad una pelliccia primitiva di faina, o di martora.
La regola, che vieta di sovrapporre colori che appartengano allo stesso gruppo (di metalli o smalti) sembra risalire alla metà del XII secolo, e trova le sue ragioni fondamentali in squisite motivazioni di visibilità. A risaltare a distanza maggiormente è la bicromia. E difatti il rosso, ad esempio, si rende meglio distinguibile se associato al bianco (argento) od al giallo (oro), che non su verde, blu o nero. A ciò si aggiunga il problema del simbolismo in seno ai codici psicosociali in fase di trasformazione, per cui ai colori un tempo di base, come rosso, nero e bianco (argento), si vanno affiancando blu, verde e giallo (oro). Il viola, o “pourpre” giungerà molto più tardi.
Pur non dimenticando che le arme riportate dai sigilli ci sono pervenute non determinate da questo punto di vista, perché ovviamente non tinteggiate, Michel Pastoureau, in “Medioevo simbolico” (Laterza, Bari 2009), rileva, però, che “se esistono arme senza figura, non ne esistono senza colore”, il che assume un interessante aspetto, oltre che per la simbologia in genere, anche per lo studio della tipologia delle “pezze”, della psicosociologia della percezione delle apparenze, della qualificazione delle identità e del riconoscimento degli “avvertimenti”. Neppure il repertorio delle figure è illimitato, anche se così dovrebbe essere, almeno in teoria; ma, fin dagli albori, è certamente più ricco, quasi di una ventina di effigi, che raddoppiano dopo appena un secolo. Per un terzo questo catalogo elenca fattezze animali, a partire dalla sagoma leonina che in assoluto risulta la più impiegata; per un terzo disegni geometrici, quali esiti delle ripartizioni fisse dello scudo, in base ai cosiddetti colpi guerrieri  (partito, troncato, trinciato, tagliato) ed alle loro combinazioni (partito troncato = inquartato; trinciato tagliato = croce di S.Andrea; partito troncato trinciato tagliato = gheronato; partito di tre troncato di due, oppure scaccato, interzato, fasciato, ecc.); ed infine da fattezze, che però, in seno allo scudo, assumono qualsivoglia posizione, pure schematiche, come bisanti, stelle, anelli, losanghe… Altri oggetti, quali armi o strumenti, ovvero parti anatomiche, come braccia o mani, o forme vegetali (ad eccezione della rosa e del giglio) compariranno solo successivamente.
Figure secondarie possono venire aggiunte in memoria di alleanze, ascendenze, matrimoni, acquisizione di parentela, o separazioni in rami collaterali, o cadetti. Per gli stessi motivi, lo scudo può essere ulteriormente suddiviso in nuovi elementi della ripartizione (“quartieri”) per associare eventualmente altre arme e menzionare nuovi feudi, titoli, diritti. Il risultato consiste in una stratificazione di più piani, da quello di partenza, che resta sul fondo con gli elementi sostanziali, in quelli intermedi che riportano le successive aggiunte, dalle quali si rende possibile la distinzione tra i diversi rami di una stessa famiglia, o tra gli stessi individui del medesimo ramo.
Soltanto il più anziano della propaggine più antica del Casato principale ha in concessione le arme familiari nella loro integrità (nel qual caso sono “piene”), tutti gli altri sono tenuti ad apporre una qualche modifica che non li designerà quali “capi d’arme”. Tra queste “brisure”, le più impiegate per distinguere figli primogeniti, cadetti o bastardi, consistono nella diminuzione di pezze onorevoli, variazione di colore di un elemento importante (campo o pezza onorevole che sia), aggiunta di una pezza di second’ordine o di una figura. In Italia si parla di “spezzatura”. In Francia si fa ricorso alla bordatura, alla barra o ancora al lambello. In Inghilterra, il primogenito “brisa” obbligatoriamente con un lambello e gli altri si accodano seguendo tutta una gerarchia di brisure idonee ad indicare il rango all’interno della famiglia. Nel caso degli “infanti” del Portogallo, il lambello d’oro di tre pendenti presenta le modifiche di uno scudetto banderese di Francia sul primo pendente per il primo infante, di due scudetti banderesi di Savoia sul primo e terzo pendente per il secondo infante, di tre scudetti banderesi di Castiglia, di Leon e d’Aragona sui tre pendenti per il terzo infante. Caso estremo è il “controbastone”, come pure il filetto di bastardigia, di colore nero.

Le donne non sono soggette ad alcuna modifica e, finché non si maritano, portano le stesse arme paterne, mentre dopo il matrimonio si fregiano, all’interno dello stesso scudo, sia di quelle del padre che di quelle del marito. Ciò significa che, dopo numerose generazioni e successive brisure, le arme dei rami cadetti potrebbero non somigliare più a quelle del ramo principale, come pure, può succedere all’inverso, e cioè che una certa qual somiglianza renda accertabile una lontana discendenza comune. Michel Pastoureau, in  “Medioevo simbolico” (Laterza, Bari 2009) , sostiene che: “L’araldica, ausilio prezioso della genealogia, aiuta in tal modo ad identificare personaggi, a ritrovare i loro nomi, a stabilire filiazioni, a ricostruire parentele, a distinguere gli omonimi”.
Rapporti ancora più diretti tra famiglia e nome intrattengono le arme qualificate come “parlanti” (“armes parlantes”, in francese, “redende Wappen”, in tedesco), facendo di quest’antroponimia un oggetto prediletto d’indagine psicosociale. Gli studiosi di lingua inglese utilizzano l’espressione “punning arms”, sottolineando maggiormente, forse più della tarda terminologia latina “arma cantabunda”, qualsiasi relazione, non solo e semplicemente, sonora o di significante, tra denominazione del casato ed illustrazione del blasone. Il “gioco di parole” che si viene a comporre potrebbe essere molto vago, o addirittura non più percepibile a storica distanza dal contesto originario, soprattutto se privo delle corrette coordinate di riferimento. Spesso il tentativo di colmare lacunose conoscenze in merito alle “cose” reali contribuisce a costruire confabulazioni che le possano mascherare, traendo spunto dall’immaginario suggerito dall’apparenza. Successe così che un araldo francese del XIII secolo, nel compilare un armerista, potesse attribuire, in maniera fittizia, l’immagine di una porta (porte) al Portogallo, di un calice (calice, chalice) alla Galizia, di una torre da scacchiera (rocher, rook) al Marocco. Di contro, alcune famiglie nobili, per cercare di camuffare l’origine “parlante” delle loro arme, si sarebbero inventate leggende eroiche che ne potessero spiegare provenienza e significato. I Visconti, ad esempio, duchi di Milano e conti di Pavia, agli esordi, furono signori di Anguaria, terra il cui nome (anguis, anguilla) evoca direttamente l’immagine del “biscione”, ovvero il “serpente dragonato”, e quindi figura “parlante” legata strettamente al nome di quel primo feudo, mentre resta da chiarire il “movimento” del bambino, ingoiato o vomitato, che, nella struttura narrativa del racconto, sarebbe stato il neonato di Bianca e Bonifacio, il quale ultimo, di ritorno dalla crociata, miracolosamente lo riporta vivo a casa dopo aver abbattuto il mostro.
L’episodio epico che starebbe alle fondamenta del cognome e della “blasonatura” dei  “Pignatelli”, risalirebbe alla Prima Crociata (1094): un ufficiale di Re Ruggero di nome Landolfo, dopo un ennesimo assalto al palazzo imperiale di Costantinopoli, se ne sarebbe ritornato con il bottino  di tre pignatte (o tre grandi vasi d’argento). L’altra versione ci riconduce a Negroponte (isola Eubea), sempre ai tempi del Normanno, allorquando un Gisulfo avrebbe avuto ragione dei nemici, lanciando contro di loro delle pentole infuocate.
Un tal cardinale, legato in Terra Santa, avrebbe riportato in Roma, come presunta reliquia un pezzo della colonna della flagellazione, oggi in S. Prassede, inserendola nel suo stemma “parlante”. La famiglia Della Rovere, di umili origini, avrebbe acquistato fulgore nel XV secolo al momento dell’elevazione di Francesco al seggio pontificio, col nome di Sisto IV e la conseguente assunzione dello stemma dei conti di Vinovo, in cui era rappresentata una pianta d’oro sradicata con i rami incrociati due volte in croce di S. Andrea in campo azzurro.
Sull’elmo viene riprodotta la figura che compare all’interno dello scudo o che viene cucita sull’insegna. Le rappresentazioni delle immagini di partenza subiscono, in rapporto alla realtà, aggiustamenti e prese di distanza, perdono i vincoli d’equilibrio e gravità, per contravvenire, nella costruzione grafica, proporzioni verosimili e regole di geometria.
Gli emblemi assolvono all’importante funzione di dichiarare l’identità dei contendenti nell’infuriare di una tenzone, per cui vengono descritti da uomini d’arme o da araldi che parlano una lingua non erudita, da qui il ricorso al volgare più che al latino, la quale lingua però, col diffondersi delle arme nei territori geografici e nei vari ambiti sociali è costretta ad organizzarsi progressivamente sino alla specializzazione. Lo specifico suo lessico viene preso in prestito dalla commistione del vocabolario delle stoffe con una sintassi, fatta di sovrapposizioni di piani e di suddivisioni in quartieri, che possa permettere una descrizione quanto più precisa e stringata possibile. L’evitamento delle proposizioni relative latine produce il risultato di giustapporre gerarchicamente dei sintagmi in volgare e di eseguirne la lettura secondo un ordine molto rigoroso consono ad una decifrazione (blasonatura) inequivocabile delle sue parzialità.
Quale figura principale, la maggior parte dei cimieri, presenta una parvenza bestiale ovvero la sagoma di parti animali, quali testa, zampa o ali. Ed infatti a venire raffigurati più di frequente sono proprio uccelli o chimere ibride, che non avrebbero trovato posto onorevole nello scudo per le loro caratteristiche dichiaratamente negative. Sul cimiero verrebbero così proiettati gli aspetti più oscuri dell’identità emblematica. Si tratta quindi di animali giudicati ripugnanti, diabolici, mostruosi. Alcune famiglie il cui nome si presterebbe all’impiego di una figura araldica parlante, quando si tratta di qualcosa dal significato peggiorativo, non la pongono sullo scudo ma sul cimiero. Ad esempio, la famiglia sveva Katzenellenbogen, il gatto (katze), che accetta di riprodurre sul cimiero, sullo scudo lo trasforma in un leopardo.
Da maschera di circostanza, strumentale per il nascondimento, la protezione, la carica emotiva, il rituale, la magia, l’emblema araldico del cimiero individuale può riconvertirsi in testimone familiare ed assoggettarsi alle modifiche che contribuiscono a distinguerlo in seno al proprio gruppo. Ciò è avvenuto più in Germania, Austria e Svizzera, mentre nei paesi di araldica più antica, come Francia, Inghilterra e Scozia, il cimiero accomuna tutti i discendenti dello stesso antenato, assurgendo ad emblema di clan il quale, più che le parentele strette, rinsalda le reti genealogiche. Il rafforzamento della coscienza di lignaggio potrebbe coinvolgere casati diversi. E’ quanto succede con la figura del cigno che riconduce al nonno di Goffredo di Buglione, e con il “drago alato posto nella tinozza” che accomuna tutti i discendenti dal mito della fata Melusina.
La maschera è un secondo volto supplementare, sostitutivo o deviante, uno pseudo-muso, per via di questi più stretti rapporti con l’animalità. Il faux visage si struttura convenientemente nell’istituto della simulazione e nell’esercizio dichiarato dell’inganno. Indissociabile la duplice funzione di elmo e cimiero, difensiva per l’uno, mentre per l’altro si rivela terrifica e perciò offensiva, e minacciosa nei confronti degli avversari. Quest’ambiguità riunisce la protezione fisica finalizzata all’incolumità ad una tutela magica sostenuta dal nascondimento e dalla sostituzione. La posizione del vedere senza essere visti costituisce il primo passo per intraprendere il percorso iniziatico in cui si articola tutto il gioco rituale. L’acquisizione dell’invulnerabilità soprannaturale offusca le debolezze umane, usurpandone una dubbia identità denotativa. Il riconoscimento avviene grazie alla seconda natura di cui ci si è appropriati, che resta l’unica a partecipare al rischio ed al pericolo, e persino alla morte, consentendo all’altra natura, debitamente occultata, di risorgere a pieno titolo nell’identificazione col totem, che raccoglie la forza procurata dalla compresenza degli antenati. Se lo scudo si situa simbolicamente in un contesto individuale e familiare, il cimiero colloquia con una parentela più allargata, trasferendo le tendenze totemiche ad una panoplia che resta emblematica nel suo assoluto distacco.
Nei sistemi di comunicazione impostati sulla gestualità, la parte più rappresentativa che va ad ascriversi all’ambiguità del mostrare e del nascondere ogni caratterizzazione dell’identità, quale contrassegno di identificazione, è il volto. I cimieri non nascono come ornamenti dell’elmo, ma come vere e proprie maschere da indossare quando la loro funzione è maggiormente richiesta, come nei tornei. Il sembiante dell’elmo nasconde una parte dell’individuo, attribuendo una nuova personalità all’altra. Mascherarsi è un rito magico di negazione di se stessi e contemporaneamente di rafforzamento mediante l’appropriazione del potere totemico.
Giuseppe M. S. IERACE
——————————————————————————————–

Bibliografia essenziale:
Amarico A. e Alfano R.: “Relazioni vincenti con il nuovo linguaggio del corpo”, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2009
Ierace G. M. S.: “Cauda Pavonis: il simbolismo dei colori”, su “Kemi-Hathor”, XXIII, 116, pp 13-29, sett. 2004
,,              ,,      : “Blu infinito futuro”, su “Kemi-Hathor”, XXIII, 117, pp 67-77, dic. 2004
,,              ,,      : “Nero come il sesso e la morte”, su “Kemi-Hathor”, XXIV, 118, pp 61-71, marzo 2005
,,              ,,      : “…Vedere senza guardare…”, su www.nienteansia.it
Pastoureau M.: “Medioevo simbolico”, Laterza, Bari 2009