L’identità italiana in cucina – Locavorism – dieta mediterranea – Il Cibo come Cultura – Come apparecchiare la tavola per il gusto dell’appartenenza

Esiste un limite tra comprensione e adattamento, ricostruzione e rielaborazione, studio della teoria e lavoro pratico, così come esiste differenza di consistenza in quanto si ottiene col pestello nel mortaio o con il mixer elettrico. Spetterà al cuoco essere dotto nelle sue variazioni per assecondare le diversità dei gusti.

Il cibo suggerisce un’identità territoriale ed esprime così una gastronomia etnica, nella quale però occorre distinguere prodotti originari, pietanze elaborate con essi e modalità di unirli in un insieme che acquisti nuovo significato, dietro la regolamentazione di dettami culinari che non si limitino a dare come risultato una semplice somma cristallizzata di ricette. La cultura del territorio si contiene in una geografia del gusto, in cui l’approccio cognitivo ai saperi locali passa attraverso determinati sapori.

La magnificenza della tavola cosmica, che retoricamente pretende la presenza di rappresentanze d’ogni dove, difficilmente nasconde sia un’ansia di “mangiare universale”, che rasenta l’horror vacui, sia l’avidità di aver tutto a disposizione, una bulimia maniacale da delirio d’onnipotenza. Questa utopia sincretista tende ad abbattere l’offerta geografica per approdare a un “non luogo”, dove ogni cosa è accessibile ma non contestualizzabile.

La mescolanza ingenera confusione e anche il baratto necessita di segni riconoscibili di identificazione: se ci si scambia qualcosa si deve avere conoscenza di questa cosa e trarne un’utilità che sia reciproca nella sua analogia e analoga nella reciprocità. Allorquando non fosse plausibile una formula di definizione, si rischierebbe di non uscire più dalle strettoie dell’equivoco e dagli incroci delle occasioni, costringendo l’attribuzione a non oltrepassare la banale casualità.

Il modello napoletano

Emilio Sereni (1907-1977), in un saggio del 1958, rimasto esemplare (“Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni”, in Cronache meridionali: IV, V, VI), attribuisce l’accelerazione dell’importanza della pasta, nella prima metà del XVII secolo, alle difficoltà produttive di risorse precedentemente determinanti, in particolare i cavoli. La diffusione della gramola e l’invenzione del torchio meccanico resero più basso il costo di produzione della pasta, che divenne così alimento popolare fondamentale. L’epiteto di “mangiamaccheroni” era stato inizialmente prerogativa dei siciliani che già nel medioevo avevano cominciato ad apprezzare il campione arabo della pasta essiccata. Accoppiata con il formaggio, condita con l’olio e successivamente con il sugo di pomodoro, promosse definitivamente lo sbilanciamento dell’equilibrio dietetico in favore dei carboidrati, garantendo apporto calorico e soprattutto incrementando il volume del piatto base di un regime alimentare altrimenti quantitativamente modesto.

Il “modello napoletano” cominciò a diffondersi nel resto del meridione, interessando dapprima le aree costiere e le urbane, molto meno quelle rurali dell’interno dove la pasta continuò a lungo a essere considerata un cibo per famiglie facoltose. Il dramma dell’emigrazione che colpì soprattutto persone provenienti dalle regioni del sud, contribuì a elaborare un’immagine abbastanza distintiva dell’identità italiana.

Paradossalmente fu l’America il luogo di conio dello stereotipo dell’italiano mangiamaccheroni, rafforzando in una comunità, costituita da individui provenienti da differenti zone del paese, uno stile alimentare tipico e promuovendo la circolazione e lo scambio di altri prodotti d’origine nazionale, quali l’olio, il vino, il parmigiano. Tanto che potrebbe forse asserirsi che il sincretismo alimentare ha contraddistinto “l’esperienza dell’emigrazione, nel suo complesso” (Paola Corti). La distanza aiuta a delineare un panorama in cui i dettagli si stemperano nello sfondo e tendono a prevalere i tratti maggiormente marcati e caratteristici di un disegno più generale e comune.

Il ruolo occupato dal cibo nell’identità nazionale italiana

Se è vero che l’alimentazione è una forma di linguaggio, allora il Manzoni della gastronomia italiana non può essere individuato se non in Pellegrino Artusi (1829.1911), il quale, a partire dalla prima edizione de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (1891) fino alla tredicesima (1909), ha sintetizzato saperi locali codificandoli in un modello nazionale, pur nel rispetto delle differenze: “ogni popolo usa friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro e nell’Emilia al lardo che vi si prepara eccellente”.

Il sistema gastronomico costruito dallo scrittore di Forlimpopoli è incentrato sulla “minestra”, nella quale fa rientrare la pastasciutta, in particolare a base di spaghetti, quale piatto principale che può completarsi con un “secondo”, per chi può permetterselo, più sostanzioso. Il prototipo del pasto nazionale si declina così in termini differenti da quello d’oltralpe, organizzato intorno al “plat”, preceduto da un’entrée più modesta. Il filologo Piero Camporesi (1926-1997), nell’Introduzione alla ristampa del 1970 del libro di Artusi, ammette che “La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi; che i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice d’identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani”.

Un altro contesto drammatico che ha contribuito alla condivisione del patrimonio culinario collettivo è quello della guerra. Nei campi di prigionia, per alleggerire lo sconforto si raccolgono le nostalgie dei sapori domestici. Dallo scambio reciproco di rimpianti scaturirà lo “strano fenomeno psicologico” della compilazione collettiva di manoscritti di ricette basate sulla memoria e sul desiderio. John Dickie, nell’occuparsi più che di cibi e pietanze, di chi li produce, li cucina, li mangia, e ne parla, viene colpito, da autore anglosassone qual è, da questa diffusa modalità italiana di alleviare la fame vera con lo scambio reciproco di ricordi, in ciò rinvenendo una “prova schiacciante del ruolo occupato dal cibo nell’identità nazionale italiana”.

L’autarchia degli anni successivi (1941-43) arriva a inventarsi i surrogati per sostituire la materia prima introvabile e nobilitare le disponibilità più povere da non sprecare.

L’avvento della televisione ha ridato una spinta propulsiva alla cultura nazionale, rispettando però, e a lungo, la natura dialettale dei costumi culinari, per molto tempo dominata dal consumo locale e dalla stagionalità, nonché da una ristorazione che ha privilegiato il modello della trattoria a conduzione familiare piuttosto che quello del ristorante professionale.

L’invenzione della “regionalità”

Il consumismo prodotto dall’industrializzazione ha indotto delocalizzazione, destagionalizzazione e appiattimento alimentare. E solo la postmodernità ha portato in auge la moda della genuinità, autenticità e tipicità, altalenante tra mistificazione vera e falsa consapevolezza.

Nella cucina regionale confluiscono “elementi disparati, frammentari, disomogenei, provenienti da diverse località”. Estrapolati dal loro contesto socio-economico d’origine, i piatti cosiddetti tradizionali, per lo più appartenenti a una cucina povera, provenienti cioè dalla quotidiana necessità di lenire i morsi della fame, e legati a un certo stile di vita e a una determinata disponibilità di risorse, vanno ad assumere, sostiene Vito Teti “un diverso valore dietetico, simbolico, rituale” e “l’affermazione della tradizione in contesti diversi cos’altro è se non invenzione di nuove tradizioni?”.

La precedente cucina delle élites si prefiggeva come scopo il superamento del localismo per mescolare i prodotti e confonderli in una tavola che inneggiasse alla globalizzazione, rimarcando in tal modo una differenziazione per pochi, basata sul privilegio di attingere dai molti. L’ideologia culturalmente significativa si rifaceva all’appartenenza sociale e non a quella territoriale. Perché il territorio come valore in sé è emerso con l’eguaglianza tra le persone, che ha accompagnato lo sviluppo economico. Se le risorse sono accessibili a ricchi e poveri, contadini e cittadini, assume valore distintivo la specializzazione localistica, a volte limitata strettamente a una sola cittadina.

La definizione “regionale” è portatrice di un’ambiguità di partenza, in quanto difficilmente le regioni corrispondono a unità omogenee culturali, storico-geografiche, e più spesso sono intese quali ripartizioni amministrative convenzionali, contrassegnate da una dimensione interna decentralizzata.

L’indole dialettale ha conferito prestigio alla tradizione, ma contemporaneamente richiede maggiore attenzione analitica. Abitudini, pratiche quotidiane, atteggiamenti mentali, stili di vita, gusti, sensibilità possono essere in grado di accomunare in una grande unità generalizzatrice, come pure di distinguere dettagliati particolarismi. Il campanilismo e il dileggio delle altrui abitudini sono una prova dell’ambiguità di una conoscenza condivisa fatta di confronti e contrapposizioni. “…Trippecotte, mangiasorci… cipollari, scolabrodo, cucuzzari, pizzulafichi… castagnari…”. Le ingiurie impostate sulle tipicità alimentari danno la misura dell’omologazione forzata, nell’attribuzione di una varietà in seno a una presunta omogeneità.

Parmigiana

Il termine parmigiana viene genericamente riferito a preparazioni a base di vegetali a strati, alla maniera dei Parmigiani; per lo più ortaggi (zucchine, melanzane), affettati e disposti come le stecche di una finestra a persiana, in modo da formare strati alternati con altri ingredienti. Difatti, parmiciana, sono chiamate, in Sicilia, le liste di legno che compongono la griglia a scaletta dell’anta di quelle che nel mondo anglofono vengono definite jalousie, o louvered windows.

Per precisare etimologia e periodi di affermazione della pietanza sono importanti due indizi relativi alla presenza tra gli ingredienti del pomodoro, che ne confermerebbe l’origine tardo settecentesca della vera e propria parmigiana di melanzane, e quella del tipico formaggio, come nelle 28 ricette de Il cuoco galante di Vincenzo Corrado (1736-1836). Per cui “alla parmigiana” sarebbe da intendere, più letteralmente, “al parmigiano”.

Una prima citazione risale alle Rime di Simone de’ Prodenzani (1351-1438), anche se collocata nella sequenza delle portate tra frutta e dolci: “con vin vermegli et aranci con esso, / poi parmigiane, tartare e pastieri”. In questo caso non poteva trattarsi del frutto acerbo delle zucchine (Cucurbita pepo), originarie dell’America centro-meridionale, importate quindi in seguito alla scoperta del nuovo mondo. La melanzana invece, originaria del continente asiatico, era giunta in Europa già nel basso medioevo, grazie ai mercanti arabi, anche se, come tutte le solanacee, tardò molto a farsi apprezzare.

Il nome turco della melanzana, “patlican“, che in italiano suonerebbe come “padmegian” non sappiamo fino a che punto potrebbe aver avuto rilievo, visto che la prima ricetta di vera e propria parmigiana di melanzane la ritroviamo solo nella Cusina casarinola co la lengua napoletana, in appendice alla seconda edizione della “Cucina teorico pratica” (1839) di Ippolito Cavalcanti: “…le farai friggere; e poi le disporrai in una teglia a strato a strato con il formaggio, basilico e brodo di stufato o con salsa di pomodoro; e coperte le farai stufare”.

La cucina turca annovera, tra le sue prelibatezze a base di melanzane, Karn?yar?k (ventre lacerato) e ?mambay?ld? (sacerdote svenuto), quest’ultima in gran parte simile però alla melanzana ripiena, e poi tradizionalmente frigge nell’olio sia le melanzane (patlican kizartmasi) che le zucchine, condite con yogurt e aceto (kabak kizartmasi), secondo il procedimento della marinatura (scabéggio, in arabo sikbâg, iskebech, in spagnolo escabeche, da cui il napoletano scapece).

L’autore de Il cuoco galante (1773), di origine pugliese, che prestò servizio nelle più prestigiose casate napoletane, ci fornisce la descrizione “Delle zucche lunghe alla parmigiana”, da servire “in un piatto tramezzate di parmigiano, e butirro, coverte con salsa di gialli di uova, e butirro, rassodate nel forno”. Eppure Vincenzo Corrado conosce le melanzane, anche se le chiama petronciani, ma suggerisce di prepararle alla maniera di zucche, pastinache e pomodori.

Le “melanzane alla parmigiana” sono una versione più semplificata, mentre la variante calabrese risulta la più ricca, ma sempre con ingredienti differenti rispetto alla mousakàs greca e balcanica, prossima al Karn?yar?k.

Ciambotta

Un altro piatto tipico della cucina meridionale, la ciambotta, essenzialmente è uno stufato, da consumare quando come contorno, quando come primo, e persino piatto unico, a seconda degli ingredienti che lo compongono e di come viene cucinato. Sostanzialmente si tratta di cuocere lentamente delle verdure, di solito patate, melanzane, pomodori, peperoni, peperoncino, cipolla, erbe aromatiche (come origano).

A base di verdura stufata è pure il piatto tradizionale provenzale Ratatouille, da “touiller” (“rimestare”). Originariamente piatto povero, per contadini, veniva preparato in estate con verdure fresche. L’originale ratatouille niçoise non conteneva però le melanzane, bensì pomodori, zucchine, peperoni verdi e rossi, cipolla e aglio. Anche la ratatouille francese può essere servita come piatto a sé stante (in compagnia di riso, patate, o del semplice pane), o come contorno.

Abbastanza simili la versione spagnola (Pisto) e l’ungherese (Lecsó); quella greca (briami) include le patate; la balcanica (Sataras) inserisce le uova.

Caponata

Anche della caponata esiste una ricetta di base e molte varianti. Probabilmente, all’inizio si trattava di una pietanza a base di pesce “capone” e molluschi, quali il polpo; nel divenire piatto povero, subentrarono le verdure. L’etimologia latina “cuponae”, cioè taverne, fa pensare ad un piatto “sempre pronto”, abbastanza diverso dall’attuale, data la tarda introduzione della melanzana e del sedano, impiegato dapprima a scopo decorativo. Si tratta di un piatto tipico siciliano, composto di verdure fritte e condite con una salsa agrodolce. La versione che ne riprende il nome, ma non il sapore agrodolce, “caponatina”, prevede gli stessi ingredienti, preparati in una maniera differente, più simile a una specie di parmigiana.

Se nella caponata, oltre a pomodori e melanzane, si possono inserire sedano, cipolle, capperi, pinoli, olive, con aggiunta di zucchero e aceto, la peperonata è un trionfo del colore fornito dai pomodori maturi e dai peperoni rossi, carnosi, sodi e poco acquosi, in mezzo a cipolla, aglio ed olio. Con il rientro delle melanzane e l’aggiunta di patate, ma c’è chi mette pure le zucchine, otterremo una versione più ricca della semplice frittura di pipi e patati, lo zimbatò, probabilmente da “syn ballein”, mettere insieme, mescolare.

Struffoli e pignolata

Dal greco “Stroggulos” (tondeggiante) deriverebbe il nome degli “struffoli”, già citati ne la “Lucerna de Corteggiani” (1634) di Giovan Battista Crisci, anche se non ancora collegati con il Natale. i Greci li preparano in modo quasi identico, denominandoli “Lukumates”. Il binomio pasta fritta-miele andrebbe ricondotto ad una cucina piuttosto “primitiva”, verosimilmente importata dai colonizzatori ellenici. La ritroviamo, infatti, con denominazioni distinte, in quasi tutte le regioni del centro e del sud d’Italia, come ad esempio in Abruzzo, dove prendono il nome di “cicerchiata” o in Calabria, “cicirata”(per la similitudine con i ceci) o “turdiddi” (un po’ più grandi, tipo gnocchi).

Molto simile si presenta la pignolata, tradizionalmente abbinata al Carnevale, e quindi da farsi risalire a festività primaverili (Antesterie). Il terzo giorno delle “antiche dionisie” (giorno delle pentole) si cuocevano insieme miele e cereali da offrire agli antenati quale panspermìa. E la pigna ricorderebbe la decorazione che si innestava sul Thyrsos. La pignolata glassata nasce più tardi, nel periodo della dominazione spagnola, quando, su commissione di famiglie nobili, si rielaborò la precedente ricetta “povera” sostituendo la precedente copertura con una dolcissima glassa aromatizzata al limone e al cacao.

Se invece di essere pallottole, la pasta da friggere è tagliata a nastri si chiamano “chiacchiere”, analoghe alle frappe, la cui tradizione risale a quella delle frictilia dell’antica Roma. Se il composto vien fatto lievitare, avremo le “nacatole” natalizie della locride, mentre, sul versante tirrenico, l’amalgama non viene montato e mantengono la forma di culla (naca), dalla quale prendono il nome.

Giuggiulena e mastazzuolu

A un’analoga gastronomia primitiva e rituale andrebbero ricondotte giuggiulena, impastata con semi di sesamo, quale tipica antica offerta a Dioniso, ‘nzuddha e mastazzuolu, menzionato da Teocrito, nei suoi Idilli come “mustacea”. In questi casi l’impasto assume significati votivi molto marcati, per via delle forme animali (pesce, capra, gallo, cavallo …), arboree (palma), floreali, o di figure umane (cavaliere, dama, bambola), mitiche (sirena), di santi, parti anatomiche (quali ex voto per grazia ricevuta) o altre fortemente simboliche (cuore, spada, esse barocca, paniere, fenditura) di tipo arcaico o sessuale.

Strangolapreviti

Al medesimo etimo greco “stroggulos”, e “preptos”, o straggalào e prepto, si tenderebbe a ricondurre la definizione di “strangolapreviti”, cioè “dall’aspetto rotondo”, senza tenere in considerazione il suo alternarsi al termine “strangulamuonace”, come viene ricordato nel “Vocabolario napoletano-italiano” (1887) di Raffaele Andreoli (1823-1891): “Purtajene nu piatto de chilli maccaruni/ che li prievete chiamano strangulamuonace/ e li muonace strangulaprievete”. Gli “strangulapreveti” descritti in “Apparecchi diversi da mangiare et rimedii” (1524) di Antonio Camuria, cuoco originario di Lagonegro al servizio dei Carafa, erano più che altro un impasto di caciocavallo, ricotta, uova e mandorle. Più che di gnocchi, si trattava di una sorta di “ravioli nudi”, che anticipavano i “ravioli senza spoglia” dello Scappi, anch’essi preparati con provatura fresca o cacio fresco, con formaggio grattugiato e uova, divisi in pezzi della grandezza di una noce.

L’etimologia di raviolo potrebbe essere latino medievale, da rabiola, piccola rapa, ma più verosimilmente, considerando che in passato poteva venire preparato con o senza la spoglia, come testimonia anche Salimbene de Adam (1221-1288), il quale li assaggia “sine crusta de pasta”, fa riferimento alla farcitura e dunque provenire da rovigliolo o groviglio, oppure da raviggiuolo, un tipo di caciotta, quindi quasi come le polpette di ricotta.

Tali composti sarebbero nati “nudi” nel meridione, appunto a mo’ di pallottole della grandezza di un uovo, per come suggerirebbe una ricetta dell’Anonimo trecentesco della corte angioina (Liber de coquina). La caratteristica sarebbe stata pertanto quella di essere voluminosi e di dover essere messi in bocca in un sol boccone, con conseguente difficoltà a essere deglutiti, e allora particolarmente a rischio per gli ingordi. Nelle commedie di Giovan Battista Della Porta (1535-1615) vengono considerati cibi “strangolatori” sia ravioli che maccheroni, come recita una battuta di una delle sue ultime opere teatrali, “La tabernaria”; ne “L’Olimpia” (1589) si parla di maccheroni che ingozzano, mentre un personaggio de “La sorella” (1604) li descrive “straordinariamente grossi, che appena ti capiranno nella bocca…”.

Prodotti import export: peperoncino pomodoro e patata

Per recuperare le ragioni della frammentarietà di circostanze tanto disparate e vicissitudini altrettanto distanti nel tempo e nello spazio, occorre confrontare procedure di adattamento, incroci accidentali, scambi osmotici, contingenze che abbiano contribuito a far attecchire nella propria identità quella di altri.

“Il peperoncino – scrive Massimo Montanari, in “L’identità italiana in cucina” (Laterza, Bari 2010) -fu adottato in certe zone, come la Calabria, fino a diventare elemento imprescindibile di una nuova identità gastronomica: i calabresi stessi lo riportarono con sé oltre Oceano al tempo dell’emigrazione otto-novecentesca, diffondendolo negli Stati Uniti dove lo slang italo-americano lo denominò ‘calabresella’ ritenendolo un prodotto di origine italiana. L’apparente paradosso di questa vicenda insegna che le identità – alimentari, e di qualsiasi altra natura – non sono inscritte nei geni di un popolo o nella storia arcaica delle sue origini, ma si costruiscono storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio tra uomini, esperienze, culture diverse”.

Il pomodoro è un altro prodotto del nuovo mondo, dapprima trascurato per essere poi riscoperto sotto forma di salsa per accompagnare pietanze più tradizionali, fin quando non trova il suo abbinamento definitivo come sugo nella pasta.

La patata, originaria del Perù, prenderà il posto di farina, mollica o pangrattato per fare gli gnocchi, secondo un procedimento di assimilazione culturale che tendenzialmente riduce l’ignoto al noto, il nuovo all’antico. Lo stesso è successo con la poligonacea proveniente dalla Cina, e conosciuta come grano saraceno, e con il mais mesoamericano, i quali hanno soppiantato, quali nuovi grani minuti, i consueti cereali da polenta, dal sorgo, anch’esso privo di glutine, al più antico tipo di frumento, il farro, dal panicum italicum, il panìco, al panicum miliaceum, il miglio.

Mais e fagioli

Per distinguerlo e contemporaneamente accostarlo a prodotti già conosciuti, i sinonimi del mais si sono moltiplicati in base a terminologie minoritarie o dialettali, come frumentone, formentone, formentazzo, granone, grano siciliano, grano d’India, granoturco, pollanca, melica, o melega, con cui si designava il sorgo in area veneta. La morfologia nuova in un sistema “grammaticale” più antico ha comportato però una lettura distorta di aspettative non interpretate dall’esperienza e l’aver favorito una coltivazione che rendeva molto di più in termini di quantità si è tradotto nella trascuratezza nei confronti dei cereali tradizionali e in uno scadimento qualitativo della dieta esclusivamente a base di polenta di mais, che, se esclusiva e non integrata, ha comportato, per carenza vitaminica, epidemie di pellagra, scongiurata dall’abbinamento con i broccoli, come avviene nei “friscatuli”.

I fagioli americani (“phaseolus vulgaris”) vennero accolti abbastanza rapidamente grazie al fatto che la gente era già abituata ai legumi, tipo fave, lupini, e al “fagiolo dorico”, il così detto “fagiolo all’occhio“, o dolico (Dolichos), originario delle regioni tropicali dell’Africa e dell’Asia (da cui il nome dialettale suriaca, da faba siriaca, o paisana), molto in uso in Egitto (da cui fagiolo d’Egitto), dove costituiva sia l’alimento base dei sacerdoti durante i riti, che un’offerta votiva da fare alle divinità. Invece, Greci e Romani, pur consumandolo abitualmente, non lo ritenevano un cibo prelibato. Virgilio, ad esempio, lo definiva “vilem phaseulum“, probabilmente perché non “nobile”, come altri legumi che avevano ricevuto l’onore di dare il proprio nome a illustri famiglie (Pisoni-pisa-piselli, Lentulo-lens-lenticchie, Fabia-faba-fave). Nonostante la scarsa produttività, la facilità della sua coltivazione e le notevoli proprietà nutritive ne fecero un alimento molto popolare nel medioevo, sia quale contorno che come ingrediente di zuppe. I fagioli americani (borlotti, cannellini, fagioli di Spagna), più grossi di quelli già noti, resistenti e molto fruttuosi, un secolo dopo il loro arrivo, persero l’alone di esclusività, e vennero impiegati, secondo gli usi locali, in molte minestre.

La nobilitazione delle verdure

Le specialità alimentari a vocazione commerciale non possono essere se non quelle che si conservano a lungo, promuovendo al rango di specialità un sapere strategico di accumulo, come succede per i formaggi. Da questo punto di vista l’apporto culturale degli espedienti popolari, e in particolare rurali, sembrano determinanti.

Legumi e ortaggi, inadatti alla mensa signorile a base carnea, individuando l’umile cucina contadina, assumono una forte valenza di differenziatori sociali, così come aglio, cipolla, verdure in genere o cereali minori, tipo orzo e avena per le minestre, o quali segale e spelta impiegati per sfornare pani scuri. Per nobilitare questi ingredienti sarà comunque sufficiente accompagnarli con spezie esotiche, oppure servirli di contorno a qualcos’altro.

Agli inizi del seicento, l’esule Giacomo Castelvetro (1546-1616), perseguitato dall’inquisizione pontificia, sente la necessità di spiegare agli inglesi, in un “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano”, che non sono affatto da trascurare quei prodotti vegetali di cui avverte tanta nostalgia quanto della sua patria, precedendo, In quest’esortazione a una dieta più varia e a consumare più verdure, il giardiniere e diarista John Evelyn (1620-1706).

Ma l’attenzione verso i prodotti degli orti, risultato di un’integrazione tra cultura popolare e cultura d’élite, caratterizzava la tradizione gastronomica italiana già dal quattrocento, come dimostra l’interesse francese e tedesco verso il trattato del Platina (Bartolomeo Sacchi, 1421-1481), De honesta voluptate et valetudine”, dove vengono trascritte in latino le ricette originali, in volgare, che segnano il passaggio dalla cucina medievale a quella rinascimentale, tratte dai 65 fogli del “Libro de Arte Coquinaria di Mastro Martino (de Rubeis) da Como, cuoco personale del cardinal camerlengo Ludovico (Trevisan) Scarampi Mezzarota, noto per l’opulenza dei suoi banchetti.

La tipologia del ricettario trasmette una cultura gastronomica diffusa in cui la comunità si riconosce avendo contribuito attivamente a costruirla con incroci tra realtà quotidiane di mercato contadino e servizi domestici cittadini.

Itriya e tria, fidei e filejia, torte e pasticci

Un primo Liber de coquina sarebbe stato redatto alla corte di Federico II. Il tratto più originale, già nel medioevo, riguarda il ruolo della pasta, significativo soprattutto per la varietà dei generi e dei formati, da quella larga, tipo lasagne, nota ai romani (lagane) e agli etruschi, a quella di derivazione araba (itriya), allungata a mo’ di fettuccine o vermicelli. E ancora caratteristico pure l’uso di farla seccare per conservarla a lungo e trasportarla altrove. La fabbrica di Trabìa viene menzionata da Edrisi (1099-1164), all’epoca di Ruggero II, per l’esportazione “in tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani”. La pasta corta e forata, modello maccherone, compare nell’inventario di beni lasciati a Genova da Ponzio Bastone, nel 1279, quando ancora Marco Polo doveva rientrare dai suoi viaggi. Successiva sarebbe l’affermazione di ravioli e tortelli, ripieni, dolci o salati, fritti o bolliti. Torte, e pasticci, con verdura o formaggi, in età rinascimentale, utilizzano pasta imburrata per rendere friabile l’involucro di contenimento.

I formati di pasta e le varietà delle torte rendono riconoscibile e accomunano, nella loro complessità e nel confronto tra le diversità, elementi identitari, senza per questo far loro assumere tipologia decisamente unitaria.

La pasta si distingue in numerosi tipi soprattutto in base alla forma (lunga, corta, minuta, a tubo, a matassa, a lente…), alla sezione (le linguine sono un tipo di spaghetti piatti a sezione rettangolare, le trenette sono delle linguine rigate sul lato, le tripoline hanno una riga sul lato, ma con più spessore…), alla presenza delle uova nell’impasto (fettuccine, capelli d’angelo…), ma anche per quella del ripieno (ad es. ravioli, culurgiones, tortelli di zucca…) e per il tipo di farina usato (p. es., i pizzoccheri sono di grano saraceno, tagliatelle paglia e fieno…). Ciascuno va associato a un certo tipo di preparazioni, adeguate alla sua consistenza e capacità di trattenere i condimenti, nonché per la facilità con cui mangiarli insieme. Il sugo all’amatriciana, p. es., è perfettamente adatto ai bucatini, dal formato a tubo, a mo’ di spaghetti cavi. Alcune varietà sono conosciute con nomi diversi (p. es., tonnarelli, spaghetti alla chitarra, chitarrine, che sono come gli spaghetti, ma con la sezione quadrata e non rotonda). Altre volte lo stesso nome può indicare preparazioni molto diverse tra loro (p. es., strangolapreti). Poi ci sono quelle paste popolari nella sola zona di origine: bigoli in Veneto, pici in Toscana, passatelli Romagna-Marche, fregnacce in Abbruzzo, ziti in Sicilia, tortelli di zucca a Mantova, cataneselle a Catania, culurgiones e malloreddus sardi, pizzoccheri valtellinesi, lagane in Lucania, orecchiette, cavatelli e tripoline pugliesi, trenette, trofie e fidei in Liguria, in Calabria calandrieddi (dal nome delle antiche calzature), rasatelli, segne, scilatelli, ferrazzoli, filatielli, filejia ….

La definizione ligure dei “fidei“, uno tra i più antichi formati regionali di pasta, antenati dei fidelini, presenta chiare assonanze con gli spagnoli fideos, il cui nome probabilmente ha origini mozarabiche nella parola fidáwš, come pure con la deformazione del latino phylum (filo, dal greco phylai), da cui verosimilmente il vibonese filejia.

Per quanto riguarda le torte, le differenze stanno negli ingredienti, nei condimenti, nell’aggiunta delle uova, e nella forma, chiusa e più alta a Milano, più bassa a Bologna e, a Napoli, invece aperta, come supporto, e detta pizza. Non si tratta di scelte quanto di conoscenze che costituiscono saperi di sapori.

Incontri a tavola

L’esistenza al sud di un regno accentrato, agisce da freno all’autonomia delle città, ma nonostante ciò sono numerosi i contributi che fornisce alla gastronomia della penisola: pasta secca, riso, agrumi, spinaci, melanzane, canna da zucchero e conseguente arte dolciaria, tutto di derivazione araba. D’altro canto le città medievali, all’azione centripeta di protezione delle risorse per assicurare il mercato, affiancano una spinta centrifuga di scambio dei prodotti più apprezzati. E’ il caso dei formaggi a denominazione cittadina, quali parmigiano, piacentino, lodigiano. Bologna, per la sua vocazione a luogo di mediazione e di apertura alla diversità vien detta “grassa”, sia per l’abbondanza che per la ricchezza culturale.

Quest’incontro felice era stato però preceduto da una fase di contrasto tra usi e costumi continentali, e barbari, da un lato, e stile di vita mediterraneo dall’altro: la cultura silvo-pastorale della carne, latte, lardo, e burro e la civiltà agricola romana del pane, vino e olio, destinati a divenire emblemi della fede nella celebrazione eucaristica e nella somministrazione dei sacramenti. L’integrazione si concretizzò in un calendario liturgico che alternava giorni di magro, con esclusione di cibi carnei, alle festività senza limitazione di sorta. Popolazioni diverse (goti, longobardi) si miscelarono alla molteplicità di stirpi precedentemente tenute insieme dalla condivisione di una comune struttura latina, dando avvio a quel processo storico di etnogenesi culturale che dagli incroci linguistici è approdato a successive nuove identità.

L’ideologia dell’unificazione difficilmente raggiunge il suo scopo dichiarato con effetti d’eccellenza, mentre il rispetto della diversità e della provenienza accorciano le distanze, la conoscenza e la valorizzazione delle peculiarità accomunano, le curiosità rompono il ghiaccio dell’indifferenza. “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi (1891) avrebbe assicurato un suo contributo all’unificazione della neonata nazione italica proprio esaltandone la tradizionale tipicità. E si, perché siamo un po’ uguali, un po’ diversi; persino ogni città è difficile da associare a un solo campanile; che dire, poi, se dalla pentola del vicino viene emanato un profumino più accattivante per il languore familiare. E’ sempre un valore di riferimento mnemonico all’origine dello scambio ospitale dell’eventuale invito a cena. “Ma, lei, signora mia, come prepara questo sughetto? Mia madre lo faceva così…”.

Un’inevitabile contrapposizione vede schierate, da una parte, l’omologazione industriale, dall’altra, la caratterizzazione territoriale; l’artificiosità del gusto di preparazioni invasive versus la naturalità dei sapori originari, sia pur domesticati. L’impiego strumentale dell’alimentazione per costruire barriere sociali si trasforma in un nuovo modo di distinzione, appunto territoriale: il “mangiare geografico”, secondo l’appellativo di Jean-Robert Pitte. La localizzazione è democratica in misura dell’annullamento delle differenze di ceto tra quelli che mangiano le stesse cose, diciamo due volte “cum panis”, accompagnandosi con lo stesso companatico .

Paradossalmente, allora, è stata proprio la globalizzazione a contribuire a fornire un rilancio alla nuova “scoperta” di già esistenti valori di specificità e di diversità.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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