“Gli uomini retti sono onore e ornamento della città, del corpo lo è la bellezza, dell’anima la saggezza, dell’azione la virtù, del pensiero la verità” (Gorgia da Leontini: Encomio di Elena)
La storia della simbologia del cuore, quale organo vitale di contenimento delle emozioni, pone una tappa fondamentale in quel mondo classico dal quale, volenti o nolenti, siamo tuttora influenzati.
Nell’Odissea, l’itacese, ed in più di un’occasione, controlla le proprie reazioni impulsive e programma raffinate vendette da procrastinare nel tempo e “servire” in seguito “fredde”. Con Polifemo centellina il suo odio, assieme al vino di Maronea: “Ed io pensai nel mio cuore magnanimo/ d’avvicinarmi e la spada puntuta dalla coscia sguainando,/ piantarla nel petto, dove il fegato s’attacca al diaframma,/ cercando a tastoni; ma mi trattenne un altro pensiero./ Infatti noi pure là perivamo di morte terribile:/ non potevamo certo dall’alta apertura/ a forza di braccia spostare l’enorme roccia, che vi aveva addossata./ Così allora gemendo aspettammo l’Aurora lucente” (Odissea 9, 299-306; traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).
Dinnanzi alle ancelle, che hanno familiarizzato con i Proci in orge comastiche, riflette sull’opportunità di frenare le sue emozioni: “Dunque nell’atrio si fece un giaciglio Odisseo luminoso;/ una pelle non concia di bove stese sotto, e sopra/ molti velli dei becchi, che uccidevano gli Achei;/ quando fu steso, Eurinòme gli gettò sopra un mantello./ Qui Odisseo, meditando la strage dei pretendenti in cuore,/ giaceva desto. E dalle stanze le donne/ uscivano, quelle che sempre coi pretendenti s’univano,/ una all’altra augurando riso e piacere./ Nel petto di lui si gonfiava il furore;/ molto era incerto nell’anima ed in cuore/ se avventarsi ad un tratto e dar morte a tutte,/ o ancora lasciar che facessero coi pretendenti l’amore/ per l’ultima volta; il cuore gli latrava di dentro./ Come una cagna, che i teneri cuccioli bada,/ se non riconosce l’uomo, latra e si tien pronta a combattere,/ così dentro latrava il suo cuore, sdegnato delle azioni malvagie” (Od. 20, 1-16).
Nel primo caso, Odisseo, si designa quale assennato “Polimete” e si distingue da chi “parla troppo”, Polifemo (dalle molte parole), a lui contrapponendosi piuttosto per la facoltà di pensare (metis); nell’altro caso, di fronte all’infedeltà sessuale, dimostra di essere in grado di auto-controllarsi, di dominare sentimenti e passioni, in antitesi all’eroe per antonomasia dell’Iliade, il Pelìde, quell’Achille dal carattere poco riflessivo, la cui “ira funesta” non prende in considerazione gli effetti a distanza di una sfuriata.
Odisseo salva la vita ad un altro “che parla”, “che canta” si, ma forse “misura” di più le parole, Femio l’aedo, il quale si discolpa: “non per mia voglia o per mia domanda venivo/ nella tua sala a cantare fra i pretendenti dopo il banchetto,/ ma loro, così numerosi e potenti, mi costringevano” (Od. 22, 351-353). Perciò Femio è incolpevole (anàitios), perché non dice, non canta, più dello stretto indispensabile, ed in situazione di estrema necessità (anànke).
Nel nono libro dell’Odissea, Omero impianta un vero e proprio scontro tra Polifemo e Polìmete, la vana parola contro il ragionamento, la forza contro l’astuzia. Se Polifemo, anche etimologicamente, si presenta per quello che è, strettamente connesso ad un sentimento di repulsione, intimo, segreto, o almeno da non dimostrare, da non rendere noto, ,il vero nome di Ulisse od ancora meglio non ne ha nessuno. Perché la qualità di cui è molto (poli) dotato, Metis, ha ragion d’essere soltanto se non viene svelata.
Il mito di Metis è singolare, quanto ambigua la portata della sua azione, divisa tra perfidia e prudenza; fatto sta che da moglie di Zeus, incinta, Metis viene divorata per intero dal marito, il quale, comportandosi in questo caso come il padre Crono e l’avo Urano, non vuole che il nascituro lo spodesti. L’embrione si sviluppa lo stesso nel cranio dell’ospite, rodendogli il cervello e, per liberarsi da quella cefalea, il padre degli dei si fa sferrare da Efesto, con l’ascia, una rudimentale craniotomia. Ne sorge, armata di tutto punto la prediletta Atena, dea della saggezza.
Si può, insomma, affermare che l’uomo è stato così concepito, con due emisferi e due intelligenze, la principale, diremmo quella dell’emisfero dominante, maschile, astratta, è il Logos, l’altra, la Metis, più concreta, femminile, subordinata e frutto dell’esperienza e del buon senso. Qualità irreversibili tra loro, se si considera che il buon senso proviene per lo più dall’esperienza, mentre l’esperienza si acquista proprio con la mancanza di buon senso.
Esempi di Metis, che non sfocino nel dolo, vengono categorizzati da Nestore, in occasione dei giochi funebri in onore di Patroclo, nel XXIII libro dell’Iliade, quando suggerisce al figlio Antiloco, svantaggiato rispetto agli altri concorrenti più favoriti, di far ricorso a delle specifiche competenze tecniche, come girare più stretto in curva nella gara dei carri.
L’altro esempio ci viene dal famoso cavallo costruito da Epeo di dimensioni tali da poter contenere al suo interno, a seconda delle fonti, tredici (Piccola Iliade), trenta (Quinto Smirneo), ventitré, o, secondo altri, cinquanta audaci guerrieri.
Altra forma ancora, più perfida se vogliamo, di Metis è il sottile doppio gioco esercitato da Elena (altrimenti non si spiega neppure come sia riuscita a farsi perdonare l’adulterio dal legittimo consorte!). Elena si fa confidare il segretissimo piano strategico degli Achei, nientemeno, da chi non si fida di nessuno (ma di lei si!), lo stesso Ulisse, introdottosi in Ilio per spiare gli assediati e non denunciato dalla fedifraga che pure lo aveva riconosciuto. Anzi Elena, confidenza per confidenza, rivela di essersi pentita della storia con Paride e di considerare il marito “a nessuno inferiore per bellezza e per senno” (Od. 4, 264). Poi, una volta giunto sulla rocca troiana il dono dei Danai, Elena tende un tranello sofisticatissimo, imitando la voce “delle donne di tutti gli Argivi” (Od. 4,279), per invitarli allo scoperto.
La parola, abbiamo detto, è appannaggio dell’uomo, dell’emisfero sinistro, dominante, la voce, come la metis, è connessa al femminile. La parola richiede pertinenza e chiarezza, la voce è più suggestiva, intima ed ambigua; è un dolce suono che può far perdere la testa, analogo all’effetto letale del canto delle Sirene. Ed ecco allora qual è la caratteristica che consente ad Elena di non essere mai perseguita: un’invincibile bellezza, una seduzione aggressiva, una disarmante grazia, charis, quella dote divina con cui Pandora avrebbe punito l’arroganza maschile, un vero pericolo, perfino codificato dalle leggi sull’incapacità d’intendere e volere, che individuano, come testimonia Iperide (Contro Athenogene, 18), un’eccezionale peculiarità di coercizione nella “gynaikì peithòmenos”, la persuasione da parte di una donna. E’ proprio questa virtù tutta femminile a risparmiare ad Elena le eventuali ritorsioni che sembrerebbe meritare.
Per lei è sufficiente la prima sezione, appunto quella femminile, dell’espressione “kalòs kai agathòs”, che invece un eroe maschio deve possedere per intero, onde non venire percosso in assemblea, come il brutto Tersite, rimproverato per la poca chiarezza (“akritòmythe”, lingua confusa, Iliade 2, 246) e per non contar nulla “in guerra e nemmeno in consiglio” (Il. 2, 202).
La parte maschile della locuzione “kalòs kai agathòs” si sposta sul secondo termine, “valoroso”, che può significare anche “il migliore ed il più bravo” (Il. 6, 208; 11, 784), sia quale “operatore di opere” (Il. 9, 443), sia come “buon parlatore” (Il. 15, 284: “quando i giovani in parole gareggiano”; Od. 13, 297-298: “primeggia per consiglio e parola”), mai però di tante, troppe parole, come Polifemo, e soprattutto se tali parole non sono attentamente ponderate.
Tutto ciò contribuisce ad alimentare la reputazione di una persona, il riconoscimento del valore, in assenza del quale a nulla vale l’essere, einai. Alle qualità, sia pur esistenti, va affiancata la definizione appropriata, la “giusta” parola che le definisca e le trasmetta in giro, perché le virtù devono trasformarsi in onore (timè), fama e gloria: se ne deve parlare cioè, “demu phemis”. All’opposto interverrebbe una sanzione interna (aidòs ), ed una sociale (elenchèa), e con esse la vergogna, o riprovazione in senso soggettivo, ed il biasimo sociale, o riprovazione in senso oggettivo.
Il transfert più naturale al quale si potesse andare incontro, per evitare biasimo, vergogna e riprovazione, non poteva che essere rappresentato dal meccanismo della proiezione, dall’attribuire la responsabilità di ciò che era sanzionabile all’intervento di entità superiori, forze esterne, divinità o destino che fossero.
A differenza di quanto avviene negli ambienti in cui predomina il concetto di colpa (guilt culture), che privilegiano pentimento e perdono, quali rimedi liberatori dall’oppressione dell’angoscia e del rimorso, nelle culture in cui il massimo valore viene individuato nell’onore (shame culture) si tende ad agevolare le proposizioni dei modelli positivi di comportamento. Di tale categoria non si può certo dire non sia l’elaborato risultato di una conquista di concezioni psico-etiche, delle quali ancora si discute, quali quelli di responsabilità o di errore.
L’hamàrtema è l’errore di cui ci si sente colpevoli (e di cui chi lo ha commesso risponde nei fatti), ma le cui cause stanno nella fallibilità umana e nell’inadeguatezza del comportamento. Va dunque distinto il “phonos dìkaios”, il delitto legittimo da quello involontario “akùsios”.
Le concezioni della responsabilità e della colpevolezza vengono discettate da Gorgia da Leontini (483-375 a. C.), a proposito dell’adulterio di Elena, e quindi di un’eventuale di lei partenza volontaria, o di un rapimento da parte di Paride. Nell’Encomio di Elena, Gorgia elenca sei possibili cause in cui era possibile ritenerla “innocente”: le circostanze fatali o la volontà del caso (tyches boulèumata), la superiore decisione divina o il volere degli dei (theòn boulèumata), la peculiare congiuntura o un decreto di necessità (anànkes psephìsmata), la costrizione o la violenza (bia), una convincente suggestione o la manipolazione persuasiva (lògois peisthèisa), infine, più semplicemente, l’afflato amoroso (eros).
“… Un dio la travolse a compier l’azione sfrontata;/ l’errore triste non capì prima in cuore…” (Od. 23, 222-223). Così difatti la giustificava pure Odisseo, con sospetta partigianeria, agli occhi di Penelope.
Ate, invece, non è hamàrtema, una colpa qualsiasi, ovvero l’incapacità di raggiungere il risultato prefissato, bensì uno sbaglio speciale, in cui imperizia, ignoranza, distrazione non c’entrano. “Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare,/ funesta; essa ha piedi molli; perciò non sul suolo/ si muove, ma tra le teste degli uomini avanza,/danneggiando gli umani: un dopo l’altro li impania” (Iliade 19, 91-94). Per indurre gli uomini a sbagliare, Ate approfitta di quelle circostanze naturali che indeboliscono le difese umane, come l’ebbrezza.
Elpenore cade dal tetto di Circe perché aveva bevuto (Od. 11, 61). Il vino, elargito alle nozze di Piritoo, favorisce Euritione nel tentativo si stuprare la sposa Ippodamia (Colei che doma i cavalli) e dare avvio alla Centauromachia da parte dei Lapiti. “… Stravolto di mente,/ se n’andò, trascinando la ate nel pazzo suo cuore…” (Od. 21, 299-302).
Errore incolpevole, volontà degli dei, ordine superiore, violenza fisica, costrizione psicologica, stati emotivi e passionali… Aristotele, nell’Etica Nicomachea contempla il concetto di volontarietà dell’atto compiuto per impeto (thymò). Dracone classificava il delitto in colposo (akùsios), premeditato (ek pronòias), o determinato al momento del fatto (me ek pronòias).
Nell’impedire la riflessione, il coinvolgimento emotivo spinge ad agire secondo un impulso non meditato. Patroclo, nel confessare le sue colpe, al momento del trapasso, le dichiara “ouk ethèlon”, involontarie, definendo se stesso “nèpios”, irresponsabile: “uccisi il figlio di Anfidamante,/ ah stolto! Senza volerlo, irato pei dadi…” (Il. 23, 87-88). Ed Achille, non riuscendo ad afferrare l’anima dell’amico, riconosce che dentro l’ombra “non c’è più phrenes, la mente” (Il. 23, 104), ma solo fumo che annebbia.
Eppure, l’insensatezza che blocca ogni azione appare analoga alla sospensione dell’atto di tessere la tela, da Penelope interrotto “ouk ethèlus’hyp’anànkes”, contro voglia e per forza (Od. 2 110). All’interno di un quadro ben determinato possono contemplarsi quindi delle ulteriori varianti particolari che ancor più contribuiscono ad ingarbugliare una struttura di per sé già complicata.
Diomede e Glauco appartengono a famiglie legate da vincoli d’ospitalità, e pur essendo schierati l’un contro l’altro, rifiutano di battersi: “… Ed ecco, che un ospite ora per te, laggiù nell’Argolide/ io sono, e tu nella Licia, quand’io giungessi a quel popolo;/ dunque evitiamo l’asta l’un dell’altro anche in battaglia,/ ché vi son per me molti Teucri, molti alleati gloriosi/ da uccidere, quelli che manda un dio o che raggiungo correndo./ Ed anche per te molti Achei vi sono da uccidere, quelli che puoi./ E scambiamoci l’armi l’un l’altro; anche costoro/ sappiano che ci vantiamo d’essere ospiti antichi” (Il. 6, 224-231).
Per sottolineare il degrado di inciviltà in cui vive sprofondato il ciclope, Omero lo descrive cannibale, come Tantalo, e non “mangiatore di pane” (Od. 9, 191); lo accusa di non coltivare né il suolo fecondo, e nemmeno dei veri rapporti sociali (“… e l’uno dell’altro non cura”, Od.9, 115), ma soprattutto di non rispettare le inviolabili regole dell’ospitalità sacra.
Xènos è l’ospite straniero, tutt’uno, anche qualora fosse stato dapprima estraneo sarebbe stato ospite, pure se sconosciuto ed inaspettato. Quello di accoglierlo ed offrirgli dei doni al momento del commiato, in ogni caso, diventa un dovere, innanzitutto religioso, e poi sociale ed inoltre economico, proprio per via delle antiche e specifiche modalità di produzione ed acquisizione della ricchezza, familiari ed autarchiche. Quella artigianale, fondamentale per il mantenimento dell’òikos, e quella intrinsecamente domestica, di tipo prevalentemente agricola, meno di tipo pastorale, essendo la prima considerata più civile rispetto alla seconda, alla quale si dedicavano pure i selvaggi ciclopi. Il commercio, invece, rappresentava un’attività riprovevole che si lasciava ai barbari, fenici per lo più.
I beni prodotti all’interno dell’òikos venivano distribuiti in seno ad esso per la normale sussistenza; il sovrappiù, se considerato di prestigio, veniva posto in circolazione seguendo un semplice schema di reciprocità, attraverso lo scambio di doni (ospitali) che si era tenuti a contraccambiare, in ossequio a themis, la giustizia (Od. 24, 286).
“… Il dono che il cuore ti spinge a donarmi,/ me lo darai al mio ritorno, che a casa lo porti;/ e bellissimo sceglilo: tu avrai il contraccambio” (Od. 1, 316-318). Una mancata restituzione sarebbe stata interpretata come una violazione a regole divine ed avrebbe potuto comportare una legittima ripercussione. La vendetta di Menelao nei confronti di Paride, infatti, non si sosteneva tanto sull’oltraggio subìto con l’irruenta intromissione nella relazione coniugale, ma piuttosto sulla violazione della xenìa: “… che ciascuno tremi, anche degli uomini che saranno,/ di far del male ad un ospite ch’abbia mostrato amicizia” (Il. 3, 351-354). L’ospite era, insomma, sotto la diretta protezione di Zeus xènios.
La motivazione di un’azione però è sempre doppia: in parte dipendente dagli dei, ma per il resto è determinata dalla volontà, dalla capacità, dalle attitudini umane. Nel primo libro dell’Odissea (1, 28-43), Omero ci mostra i numi riuniti a banchetto: “… prese a parlare fra loro il padre degli dei degli uomini:/ pensava nell’animo al nobile Egisto,/ che Oreste, l’Agamennonide glorioso, uccise;/ a lui pensava e diceva tra gli immortali parole:/ ‘A quante colpe fanno i mortali agli dèi!/ Da noi dicon essi che vengono i mali, ma invece/ pei loro folli delitti contro il dovuto han dolori./ Così ora Egisto contro il dovuto si prese la donna/ legittima dell’Atride e lui massacrò al suo ritorno,/ sapendo l’abisso di morte. Perché noi l’avvertimmo,/ mandando Ermete occhio acuto, argheifonte,/ che non l’uccidesse, non ne agognasse la donna:/ vendetta verrebbe da Oreste Atride/ quando, cresciuto, sentisse la nostalgia della patria./ Così parlò Ermete, ma il cuore d’Egisto/ non persuase col savio consiglio; ora tutto ha pagato’”.
In una quindicina di versi, Omero anticipa l’Orestea di Eschilo (Agamennone, Coefore, Eumenidi), dando forse per scontato tutto ciò che avesse potuto costituire un fatale antecedente: Egisto, figlio dell’unione incestuosa di Tieste e Pelopia, aveva assassinato lo zio Atreo, suo padre adottivo e padre naturale di Agamennone, che, prima di partire per Troia, aveva accettato di sacrificare la figlia Ifigenia; Atreo, a sua volta, per vendicare l’adulterio del fratello Tieste con la moglie Aerope, gli aveva ucciso i tre figli, e glieli aveva imbanditi a tavola. Tieste ed Atreo discendevano da Tantalo, il quale si era macchiato della colpa di offrire i cibi degli dei, nettare ed ambrosia, agli uomini, dando in pasto agli dei le carni del giovane figlio Pelope, che, da resuscitato, avrebbe messo al mondo Tieste ed Atreo; tutta una concatenazione di eventi apparentemente incontrollabili…
Nell’Odissea, però, Egisto incarna l’esempio di chi si rifiuta di seguire i saggi consigli ed agisce hyper moron, in un eccesso di desiderio, contravvenendo alle leggi del destino, Moros, figlio della notte (Nyx), nipote del Caos e fratello della discordia (Eris), della vendetta (Nèmesis), del sarcasmo (Mòmos), del sonno (Hypnos) e della morte (Thànathos).
Cloto (filo) filava lo stame della vita, Lachesi (destino) lo svolgeva sul fuso e Atropo (inevitabile) lo recideva. “…ai mortali/ quando son nati danno da avere il bene e il male,/ che di uomini e dei delitti perseguono;/ né mai le dee cessano dalla terribile ira/ prima d’aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato” (Esiodo: Theogonia, 218-222). Al destino devono necessariamente sottomettersi anche gli dei, eppure gli uomini hanno la possibilità di agire contro il loro volere, in piena autonomia.
Che in assenza di un termine linguistico ne manchi anche il concetto è un argomento molto dibattuto per quei rapporti socioculturali che intrecciano indissolubilmente il pensiero con la realtà. Molte delle parole proponibili in una determinata lingua spesso sono di difficile traduzione proprio per un differente approccio culturale alla cosa in sé.
Nel trattare temi mitologici, il destino si propone sotto più vesti, caotico e vendicativo o ineluttabile. Nell’anatomia dell’uomo, invece, thymòs è sede delle emozioni, ma unito alle membra è vita, non psychè, che la anima; demas indica statura, aspetto, fattezze e somiglianze, e non è soma, cadavere inanimato. In quella che si dimostra comporre una raffinata psicosomatica omerica, possiamo identificare emozioni, sentimenti e pensieri degli individui in precise parti del corpo. Chos è la pelle, sensibilissima; le membra che ricevono forza dai muscoli sono mèlea, quelle mosse dalle articolazioni gyia. Nòos è l’organo al quale fanno riferimento le rappresentazioni mentali. Più “Io” svolgono azioni, a seconda dei sentimenti e dei moti dell’animo, in forme di organizzazione dell’esperienza e della consapevolezza delle relazioni interpersonali, quasi senza che le determinazioni della volontà giungano alla coscienza. In una tale molteplicità di soggetti si rischia di non potersi identificare con Nessuno. Ed è ciò che Ulisse dichiara al Ciclope, senza mentire, dicendo la pura verità: “Non sono nessuno! (di fronte a te)”, una falsa modestia o una presa di coscienza dell’umana limitatezza, ma anche un’astuta precauzione, tra le tante da pianificare nella programmazione di una fuga per l’agognata salvezza.
Giuseppe M. S. IERACE
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