In una celebre canzone di De André (“Testamento”), si rende testimonianza del fatto che si può morire in tanti modi, ma quasi sempre in solitudine. Sant’Agostino decide di rimanere “solo cum sola”; al contrario, Socrate passa i suoi ultimi istanti in conversazione, come Petronio a banchetto. Kant accetta la fine con un’esclamazione lucida: “Es ist gut”, mentre il sordo Beethoven serra il pugno in segno di rifiuto e ribellione. Per chi vi vede la permissione divina, nella prospettiva d’un incomprensibile bene maggiore, sarebbe come la rassegnata obbedienza a una simbiosi purificatrice.
Si tratta d’un transito, come delucida Rabindranath Tagore: “La morte non è lo spegnersi della luce. È soffiare sulla lampada perché è giunta l’alba”. Al massimo, d’uno scomparire, come nella concezione di Fernando Pessoa: “La morte è la curva della strada. Morire è solo non essere visto”.
“Né il sole, né la morte si possono guardare fissamente”, asseriva François de la Rochefoucauld. E dunque, probabilmente, non riusciremo a cogliere né la cessazione della funzione biologica, tanto meno la decomposizione corporea, semmai l’annullamento, una sottrazione dell’immagine, un mutamento di luogo, la ciceroniana “commutatio loci”.
“La morte non è nulla per noi giacché quando noi siamo la morte non è venuta e quando è venuta non siamo più”, sentenziava a ben ragione Epicuro. Ciò però avrà consentito di rivelare le nostre opere (Siracide 11, 27), in quanto è proprio la fine d’una storia a farcene comprendere il significato. Tutto ciò che ha un inizio ha pure un termine e questo avrà fornito o un senso di sazietà o un conato di nausea.
Forse, a differenza di altre creature, l’uomo è consapevole d’essere mortale. In questa conoscenza, per Martin Heidegger, consiste la sostanza stessa della vita: “Solo l’angoscia della morte rende l’uomo se stesso perché lo strappa dalla banalità dell’esistenza non autentica”. Dolore e morte sono le esperienze che più ci rendono umani, relativizzando tutti i nostri limiti.
Si vive dunque in attesa della fine, morendo progressivamente un po’ alla volta: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (Salmi 90, 12). Il “Cotidie morior” di Seneca rammenta che la morte ci sta sempre dinanzi, non come un imprevisto, ma quale unica assoluta certezza. Anche se, poi, magari in cuor suo, nessuno è pienamente convinto d’estinguersi definitivamente e nutre speranze in qualche fideistica forma di sopravvivenza: “Chi non ha speranza nella vita futura, non vive nemmeno in questa” (Lorenza il Magnifico).
“L’angoscia della morte è il verme al centro d’ogni nostro pensiero” diceva William James, ma ci sono vari modi di reagire all’idea, scrive Luciano Verdone, in “Il pensiero come terapia” (Paoline, Milano 2014): non pensandoci, per esempio, o facendone al contrario l’oggetto centrale della propria riflessione; razionalizzandola per la sua ovvia naturalezza, ovvero in un rinnovamento alchemico (Igne Natura Renovatur Integra) che trasforma l’esistenza in tutto o in parte, come nella reincarnazione; persuadendosi di poter rappresentare un’eccezione, oppure di sopravvivere, almeno nel ricordo dei propri cari; negandola in un controinvestimento illusorio o spettacolarizzandola platealmente.
L’effetto dell’esibizione del macabro crea insensibilità e indifferenza nei confronti della sofferenza. Soltanto una netta tendenza sadica potrebbe giustificare la ricerca di piacere nel cortocircuito emotivo dell’altrui umiliazione.
Le pubbliche immolazioni soddisfacevano questa sorta di fascinazione, con annesse dipendenza e assuefazione. E il paragone che sovviene più immediatamente riguarda il voyeurismo pornografico, per via della vicinanza d’una certa concezione del sesso con la violenza.
L’esibizione di esecuzioni sommarie sono concepite o per esacerbare l’odio e stimolare l’aggressività, oppure per incutere terrore, servendosi della teatralizzazione dell’assassinio in modo da esercitare pressioni politiche.
Abdelwahab Meddeb spiega, in “Contre-prêches” (2006) che il rito del sacrifico di ??d al-na?r (“festa dello sgozzamento”) celebra la sostituzione della bestia all’uomo, mentre la recente spettacolarizzazione, invertendo i termini, riporta alla barbarie che precedeva il gesto di Abramo. Del resto, come affermava Diderot, è molto più facile per un popolo civilizzato ritornare alla barbarie che per uno barbaro avanzare verso la civiltà.
In “La violence et le sacré” (1972), René Girard c’insegna come il rito sacrificale sia fondato su due sostituzioni. Non solo quella della vittima espiatoria con la sacrificale, animale, ma anche di una sola al posto di tutti i membri della comunità. Un rito catartico purifica dalla violenza, prevenendone il contagio. Perisce il capro espiatorio affinché si salvino tutti gli altri.
Lo spettacolo della violenza è invece invasivo e contagioso e mira inesorabilmente alla moltiplicazione delle vittime, all’incrudelimento della tortura, all’estremizzazione del gesto nella perpetuazione d’un’abitudine che sopraggiunge inevitabilmente.
Il problema attuale poggia sul fatto che la società in cui viviamo svolge prevalentemente i suoi riflessi su altre immagini in cui l’interruzione tra finzione e realtà non risulta chiaramente definita, lasciando sufficiente spazio all’ambiguità, all’indifferenza, all’assuefazione. E una perdita di coscienza del reale teatralizza ogni avvenimento, anche il più crudo.
“Che si tratti di un dipinto, di una scultura, di una fotografia o di un video, – scrive Michela Marzano in “La Morte come spettacolo. Indagine sull’Horror reality” (Mondadori, Milano 2013) – una rappresentazione è innanzi tutto frutto di una scelta. Rappresentare un oggetto significa non soltanto copiarlo o metterlo in immagine, ma dargli un valore, animarlo; significa designarlo come un ‘oggetto particolare’, attribuendogli un senso nuovo; significa evocarlo, farlo apparire, renderlo presente”.
In una rappresentazione artistica, ciò che potrebbe suscitare orrore e disgusto viene sublimato. La spettacolarizzazione attraverso l’arte svolge quindi questa funzione di sublimazione, permettendo agli uomini di dominare le loro paure.
L’arte traduce l’intenzione che si concretizza nello scarto tra la realtà e la creatività, o più semplicemente in un punto di vista. Ogni “testimonianza” e ogni “testamento” filtrano la verità e si soffermano su dei dettagli. Qualsiasi comunicazione delimita i propri contorni nella particolare cornice d’un’angolazione.
La sensibilità dell’autore definisce il contesto, quella dell’osservatore mantiene le distanze. Il rapporto delle due visuali scelte non necessariamente ripropone quello tra l’immagine e la realtà rappresentata. E il contatto tra le emozioni soggettive e i dettagli trattenuti deragliano verso un’ulteriore costruzione secondo gusti, desideri, interessi, e ossessioni del tutto personali.
Questa differente sensibilità, per molti versi, ci viene evidenziata da Katia Perdig?n, in “Una relaci?n simbi?tica entre la Santa Muerte y el Niño de las Suertes” (2008).
Un innocente infante giace addormentato su di un cranio, in una rappresentazione di co-presenza dell’alfa e dell’omega. Chi trionfa su chi? La sconfitta della condizione mortale è segnata sin dall’inizio, il neonato Gesù è destinato a confrontarsi con il supplizio della croce e, nella greppia del presepe, si trova già disteso un cadaverino!
“Memento mori”, forse, del secondo avvento del Cristo, per assicurare l’ascensione di tutta l’umanità al regno dei cieli?
La scultura in legno policromo del tempio di Tacubaya raffigura la premonizione di Gesù bambino circa la sua successiva Passione, a chiusura d’un ciclo, secondo una simbologia coerente e funzionale a una potenza iconica magnetica ed esplosiva.
La versione ibrida di San Giuda Taddeo ha il viso emaciato e il suo bastone ricurvo ha già assunto la forma della falce mietitrice. Mentre, nella provincia argentina di Corrientes, è venerato San La Muerte, di genere maschile, ma con l’analoga scansione sillabica che lo rende simile alla Santa Muerte messicana.
Santito, San Justo, Santo Esqueleto, San Severo de la Muerte, Señor de la Paciencia, Ayucaba. Le antiche religioni autoctone dei guaranì della sponda orientale del Rio Paranà erano impostate sulla venerazione delle ossa degli antenati a cui richiedere protezione e conforto. Con l’arrivo dei Gesuiti, sarebbe avvenuta una mescolanza tra le tradizioni locali e il cattolicesimo, a diffusione limitata, ma non clandestina come in Messico.
Il santo argentino, secondo la leggenda, sarebbe stato un monaco francescano perseguitato con l’accusa di stregoneria e, in carcere, divenuto letteralmente uno scheletro minaccioso. Più verosimilmente, l’iconografia sarebbe una reinterpretazione delle raffigurazioni dei trionfi del Cristo sulla morte rappresentata da immagini scheletriche.
Come il messicano Jesùs Malverde, detto “il Bandito Generoso” o “l’Angelo dei Poveri”, il Gauchito Antonio Gil è stato un combattente clandestino, difensore dei deboli, condannato al supplizio e all’esposizione pubblica dei miseri resti per evitare le eventuali emulazioni. Da qui la santificazione e la riproduzione iconografica come cadavere decomposto.
Carlo Severi (2008) ha studiato le figure di “Dame Sébastienne et le Christ Fléché” del Nuovo Mexico, ma diffusi anche in Arizona. Il passaggio di genere, in questo caso, ha determinato una reinterpretazione della sensualità agonica del Santo “venerabile” (letteralmente in greco) in Donna Sebastiana, mentre l’Ecce Homo viene rappresentato con nel costato delle frecce, probabilmente per rammentare il pericolo e le insidie di Apache e Comanche.
Localmente, al posto della falce, il trionfo della morte s’inscena scoccando dardi per ribadire la terrena vittoria sul Cristo seviziato. I defunti (Hermanos del Otro Mundo) approfitterebbero della Settimana Santa per celebrare la Pasqua con i vivi. Mentre i Penitentes della Cofradía de los Hermanos de la Santa Sangre organizzano cruente riproduzioni della Passione con flagellazioni e crocifissioni reali.
A quaranta chilometri da Oaxaca, si trova il sito archeologico zapoteco di Mitla, nome castigliano per Mictlán, luogo dei morti. Abbracciando una delle colonne della sala d’accesso al palazzo principale, si può controllare lo spazio che manca per congiungere la punta delle dita delle mani e calcolare quanto resta da vivere.
La regione centrosettentrionale di Zacatecas, abitata dai wixarika, o huichol, si caratterizza per i colori sgargianti dei prodotti artigianali dalle forme psichedeliche, che riproducono le linee sinuose del peyote, o hikuri.
Il sito archeologico di Tula è un altro luogo mistico tolteco, famoso per i suoi “Atlanti” dai tratti indigeni, alti cinque metri. Nel vicino villaggio di Tepatepec si venera una rustica scultura scheletrica, in legno, dotata di scettro, tunica e corona, inspiegabilmente chiamata San Bernardo e pertanto festeggiata il 20 agosto, ma anche a Pasqua.
In base alla considerazione di William Rowe e Vivian Shelling (1993), “il cattolicesimo popolare è tanto strumentale quanto mitico. Come fedele riproduzione d’un sistema di patronato, la relazione tra i santi e i fedeli consiste in uno scambio di promesse d’intervento divino in circostanze difficili della vita. Ma tutto ciò viene interpretato entro un quadro di riferimento conoscitivo mistico che piega la realtà attraverso accadimenti straordinari e misteriosi, irriducibili a una realtà empirica”.
“A partire dalla religione ufficiale come appartenente ai gruppi popolari, subalterni o marginali, in una relazione di classe, potere e dominazione”, aggiunge Noemì Quezada (2004), si spiega la devozione degli strati più vulnerabili continuamente creata e ricreata per i cosiddetti “santi della crisi”, come li definisce Fabrizio Lorusso, in “Santa Muerte, patrona dell’umanità” (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo 2013).
I motivi principali della rappresentazione di questa alterità rispetto alle confessioni egemoniche, per Jean-Pierre Bastian (2003), sarebbe da ricercare soprattutto nella “transnazionalizzazione delle reti di comunicazione, l’impoverimento e anomia delle masse, l’assenza di movimenti sociali autonomi e un gioco politico chiuso, il fallimento del cattolicesimo radicale e la perpetuazione delle strutture cattoliche articolate con lo Stato”.
Il medesimo patronato, che attribuisce a un Sant’Antonio la facoltà di restituire a mogli fedeli mariti fedifraghi, lo si estende alle “anime solitarie”, tra le quali va annoverata quella Juan Minero, prototipo di chi condusse una vita violenta, infelice e tragica, fino alla sua morte, divenendo poi uno spirito inquieto, sia per i peccati sia per la morte improvvisa e cruenta. Condannato a lavorare instancabilmente nel dolore e nelle miniere di carbone del Purgatorio, per alimentare la fiamma soprannaturale del sito infernale. “Con los santos nombres de Dios, invoco a los espíritus de Dominación, las ánimas errantes, los espíritus de desesperación. El espíritu del Juan el Conquistador, el espíritu de la Encrucijada, el espíritu de Juan Minero, el espíritu de Juan de Dolores y el de Juan del camino peligroso. Invoco a los espíritus de los cuatro vientos. Invoco al alma del Anima Sola…” (Con i santi nomi di Dio, invoco gli spiriti di Dominazione, le anime erranti, gli spiriti della disperazione. Lo spirito di Giovanni il Conquistatore, lo spirito della Crociata, lo spirito di Juan Minero, lo spirito di Juan de Dolores e di John del sentiero pericoloso. Invoco gli spiriti dei quattro venti. Esorto lo spirito dell’Anima Sola …).
Lorusso è però del parere che: “sebbene si cerchi di far credere il contrario, la festa del Día de Muertos è molto probabilmente un’invenzione meticcia relativamente recente e non una tradizione precolombiana fusa con quella cattolica”. E questo varrebbe per tutte le decorazioni e le offerte sugli altari, prodotti d’una compravendita autunnale: teschi di zucchero, pan de muertos, caballitos (bicchierini) di tequila, scheletri di carta velina, petali di cempasúchil (Tagetes erecta, o calendula Azteca), candele, incenso. Il tutto sarebbe frutto d’un controinvestimento dell’angoscia, ritrasmesso come elemento tipico d’una cultura, nella spettacolarizzazione della morte.
Giuseppe M. S. Ierace
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