La fine del mondo, Il possibile e il reale. Weltuntergangserlebnis

Una previsione che non si sia puntualmente avverata si può supporre da considerare rimandata. “Profezie sbagliate generano altre profezie”, annuncia Telmo Pievani, in “La fine del mondo” (il Mulino, Bologna 2012).

Sulla scorta dell’errore di Dionysius Exiguus, che fece nascere il Cristo quattro anni prima di se stesso, la nebulosa previsione azzeccata, con “ A Space Odyssey”,  da Arthur C. Clarke, del reale inizio del terzo millennio è stata confermata “a posteriori“ dagli eventi dell’11 settembre 2001. “Emerse così in tutta la sua portata il paradosso del possibile nella storia: ciò che sembrava tanto impossibile da essere impensabile, se non nella fantapolitica, si verificò, mostrando così di essere possibile; più precisamente, mostrando che gli eventi che precedettero quella catastrofe contenevano già la sua possibilità”.

E se la catastrofe è già inscritta nella storia che la precede, si ritroverà tra le pieghe potenziali di un prossimo futuro. Miti religiosi appartenenti a culture diversissime presentano un unico schema archetipico, quale struttura narrativa comune ormai cristallizzata nell’immaginario collettivo. Cosicché, per chi ha costantemente bisogno di un nemico da fronteggiare, la fine del mondo diventa metafora rituale di una lotta per la sopravvivenza. E se il mondo è deterministico, tutto è già implicito in ciò che è accaduto e la storia, per esempio, di Babele incombe quale una parabola destinata a ripetersi, come la Torre colpita dal fulmine della sedicesima lama dei Tarocchi.

L’imminenza della soluzione radicale di una crisi viene rinviata dall’evidente centralità catastrofista. “Le cose cadono a pezzi, e continuano a cadere a pezzi, come in una moviola che non finisce mai, come in un sogno in cui non si smette mai di cadere. Il risultato è che la catastrofe non è un punto asintotico del futuro, ma è già da sempre presente, se non altro come grande narrazione fluente”.

L’etimologia di catastrofe, da katà strèpho, rivolgo giù, capovolgimento, termine, ma anche riuscita, richiama la drammaticità della soluzione di un dilemma tragico, attuata nel teatro greco con quello stravolgimento che però rende poi attuabile la catarsi. Lo scioglimento dell’intreccio, per la Poetica di Aristotele, è ciò che porta alla conclusione.

O la svolta fa emergere ciò ch’è implicito o gli eventi precipitano verso l’irreparabile e (accada quel che accada) si pone in atto l’esorcismo della narrazione e della sua rituale riproposizione, in cui si compie quella perdita di senso, di cui sono capaci le azioni umane, anche se non dobbiamo più temerle ormai nella sterminatezza del tempo che ce le allontana indefinitamente.

Lo scacco delle previsioni è pure insito nella natura dei fenomeni non lineari, imprevedibili per via delle irregolarità del caso e dell’umana incapacità di comprenderlo. E allora, ecco, Cassandra ebbe in dono dal suo dio la facoltà del vaticinio, ma averlo respinto le ha inflitto una perdita di credibilità.

 

La fine dell’ordine mondano esistente può essere considerato come tema culturale nel quadro di determinate figurazioni mitiche che vi fanno espresso riferimento, per esempio come tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o come tema della catastrofe terminale nel quadro dell’unilineare e irreversibile corso escatologico della storia umana”, annotava Ernesto De Martino (1908-1965) nei suoi appunti, pubblicati postumi col titolo “La fine del mondo” (Einaudi, Torino 2002).

De Martino aveva affrontato il tema delle apocalissi culturali a partire da quelle proposte dalle grandi religioni storiche, o forse meglio dall’istituzione delle festività di rinnovamento, dentro cui è connaturato questo rischio, avvertito come periodico, e ritualizzato con un trasferimento sul piano simbolico, in quanto il regresso verso il caos si offre propedeutico alla successiva palingenesi e il nuovo inizio riparte da un mito condiviso.

L’apocalittica cristiana presenta delle implicazioni importanti per quanto concerne la configurazione temporale, non più circolare, e ancor più a riguardo del modello di risoluzione finale, a seconda della prossimità dell’eschaton o d’un’incerta imprecisabile sua remota lontananza.

Il crollo del sistema di vita tradizionale impianta una crisi culturale politicamente altrettanto drammatica rispetto a quell’umanesimo etnografico promosso e studiato dal grande antropologo napoletano. La tanto paventata, ma per nulla sventata, apocalisse marxiana verte sulla fine di un’organizzazione politica (come è già accaduto), economica (come sta avvenendo) e sociale (come inevitabilmente seguirà), date le premesse che sembrano necessarie alla costruzione d’un rinnovato assetto storico universale, dalla caduta della cortina di ferro alle grandi migrazioni, soprattutto di popolazioni islamiche. Alla crisi della storia si affianca quella della teologia di essa, in particolare, e, più in generale, di quella Weltanschauung religiosa occidentale incapace di intessere qualsiasi dialettica con la spinta verso l’emancipazione, inquadrabile sia nell’umanesimo marxiano come in quello etnografico  di De Martino. L’apocalittica odierna si restituisce al mutamento di segno dell’ovvio, allo spaesamento del familiare, e di conseguenza all’irruzione dell’irrazionale e dell’ignoto.

Uno dei pilastri del pensiero della fine argomenta sul disfacimento dell’ovvietà, della domesticità, e dunque dell’eredità culturale della storia, indicando nell’ethos del trascendimento della vita nel valore un trampolino di rilancio della “condizione ultima e inderivabile della pensabilità e dell’operabilità dell’esistere”. E’ essenzialmente in tal senso, e nell’assoluta assenza di prospettiva reintegrativa, che l’apocalittica odierna si mostra in tutta la sua allarmante contiguità con le Weltuntergangserlebnis e le apocalissi psicopatologiche. A questo proposito, De Martino si distacca dalle posizioni di Heidegger e di Jaspers, per porre in risalto quello “slancio valorizzatore intersoggettivo della vita”, costituito da una “conquistata consapevolezza che il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere”.

L’accostamento rendeva possibile, per il nostro Autore, l’approfondimento del nesso dialettico tra anormale e normale, follia e salute mentale. In funzione certo di una correlazione tra crollo mondano e caduta della tensione etica, in assenza della quale nessuna situazione trascende a valore e neppure conferisce senso alla vita. Questa tendenza verso la definitiva perdita di slancio alla valorizzazione, spoglia d’ogni orpello una crisi lasciata nuda, cruda e priva di qualsiasi riscatto. Laddove le istituzioni festive delle grandi religioni storiche, nel reiterare ciclicamente la dissoluzione dei tempi, ne ripropongono seduta stante una rifondazione.

Se, in qualche caso, il tema della fine, possiede autonomia totale e rilievo assoluto, in altri si predispone in un procedimento più dinamico che innesca la dialettica degli opposti, morte e rinascita, crollo e ricostruzione, fine e nuovo inizio. Quale rischio incombente, infatti, avremmo di fronte una crisi risolutiva ma controllata, nel senso della possibilità che verso di essa possono essere assunti idonei provvedimenti.

 

Telmo Pievani (“La fine del mondo”, il Mulino, Bologna 2012), in un certo qual senso, rende omaggio alla possibilità che qualcosa termini e che degli esseri periscano per far spazio ad altri, in base alla locuzione latina “mors tua vita mea”. L’affermazione della nostra specie è in buona parte dovuta all’annientamento di altre, ma questo antropocentrismo sarebbe stato la causa di quel senso di colpa tipico dei sopravvissuti che si traduce in giusta punizione, si trasforma in cieco destino, si addomestica in rivelazione di un disegno superiore. L’esorcismo consiste nel parlarne, nell’attribuire significati, per non decrittare il messaggio informatore di una natura che su questo pianeta ha già fatto a meno dell’Homo sapiens, giusto come noi adesso dei dinosauri. Ma, prima dei dinosauri, a loro vantaggio,  s’erano estinti i rincosauri, per cui il concetto di sopravvivenza, è molto relativo per le ere geologiche. La ruota dell’alterna fortuna scompagina le carte, il cataclisma ripropone delle scommesse: “Faites vos jeux. Les jeux sont faits. Rien ne va plus”. Così l’imprevedibile riformula speranze.

La struttura della nostra mente è predisposta a giustificare ogni male per poterlo meglio rimuovere. Esiste una divina giustizia che dispensa castighi e pene ai dissoluti che se le sono meritate. E quando il male è solo di tipo etico, l’unico vero colpevole è l’uomo stesso. Altrimenti occorre riconoscere l’incompatibilità dei postulati di infinita bontà e onnipotenza, oppure la mancanza di senso trascendente a qualsiasi accadimento della storia. Dopo la fine c’è un nuovo inizio, proprio come succederà in un, non sappiamo quanto prossimo, futuro ed è già avvenuto in passato, tante altre volte.

Nel “Dialogo di un folletto e di uno gnomo” (1824), Giacomo Leopardi definisce una “vanitas vanitatum” che sfuma ogni altezzosa pomposità, la luna non “fallirà la strada” in assenza di almanacchi, i giornali non riporteranno menzogne perché non ci sono più notizie da pubblicare, da far leggere a quanti si erano persuasi che “le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro”, forse perché ognuno nutre la convinzione d’essere il prodotto delle cause finali dell’universo e “anche le lucertole e i moscerini si credono che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Nel “Dialogo della Natura e di un islandese”, che è la più famosa delle “Operette morali” (1824-1832), l’indifferente “matrigna” opera seguendo un perpetuo ciclo di produzione e distruzione dell’universo: “Se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.

Partendo dall’illuministica filosofia del disastro che vide protagonisti Voltaire, Rousseau e Kant, Pievani comincia la sua dissertazione proprio dalla concezione tragica greca di scioglimento dell’intreccio drammatico, in base al quale il mondo giammai smette di finire, ricordando continuamente la minaccia incombente dello stravolgimento. Superata questa coazione a ripetere, esamina le possibili cause “reali” di un qualche disastro che potrebbe avvenire anche per responsabilità umane, la “nemesi” che l’originerebbe, l’estinzione che noi quotidianamente infliggiamo agli altri viventi e la rivelazione che la storia potrebbe non avere il senso che noi vanagloriosamente gli imponiamo.

L’epopea di Gilgamesh, già prima della Bibbia, ci fornisce un esempio di catastrofe (annunciata?) sotto forma di inondazione che probabilmente fece seguito allo tsunami provocato dalla caduta dell’asteroide schiantatosi nell’Oceano Indiano a creare il cratere di Burckle. Di uno scontro cosmico tra forze del bene ed entità malefiche parlarono gli zoroastriani e i greci strutturavano i miti di Atlantide e di un’età dell’oro a cui fa seguito l’immancabile decadenza.

Roma era stata appena fondata che il complesso di colpa per il fratricidio indusse Romolo a sognare la distruzione dell’urbe appena quarantasette anni dopo. Il vaticinio di Seneca: “Tutto quanto vediamo e ammiriamo oggi brucerà nel fuoco universale che inaugurerà un mondo nuovo, giusto, felice”, anticipò di circa tre lustri l’eruzione del Vesuvio che distrusse completamente Pompei ed Ercolano.

La Sibilla pronosticava ventinove cicli del tempo, San Clemente 483. Una tavoletta assira di poco meno di cinquemila anni fa dava un termine perentorio e altrettanto imminente.

Ma, aggiunge il vulcanologo, esperto di rischi geofisici, Bill McGuire, in “A Guide to the End of the World: Everything You Never Wanted to Know” (2003), qualora una tale previsione si dovesse rivelare esatta alla lettera, non se ne potrà vantare proprio nessuno di quelli che l’hanno attesa.

 

Nell’elencare profezie delle Scritture ed eventi come le invasioni barbariche,  o l’espansione dell’islam, Jean Flori, in “La fin du monde au Moyen Age: terreur ou espérance?” (2008), si sofferma sulla presunzione di coincidenze e sulla costante attesa caratterizzante quei tempi bui, che dalla persecuzione delle eresie si protrasse fino alla fine del primo millennio.

In “Epistola ad Gerbergam reginam de ortu et tempore Antichristi”, Adso da Montier-en-Der, nel 950, tranquillizza la sovrana in quanto, fintantoché l’impero dei Franchi rimarrà stabile, non si giungerà al giudizio finale. Ma, dopo che nel 968 ci fu un’eclissi solare, tredici anni dopo la cometa di Halley, e nel 992 il venerdì santo cadde nel giorno dell’annunciazione, il segnale divenne allarmante, perché già avvenuto ventidue anni prima.

Eppure, per la Natura la numerologia conta ben poco e il calcolo in base dieci, piuttosto che duodecimale, esadecimale, o binario, non possiede maggiore importanza perché corrisponde alle dita delle mani. Il mondo, però, di cui si paventa il termine imminente è pur sempre quello umano, ricordiamolo quale “memento mori”.

Mille e non più mille fu un calcolo, presente in un Salmo citato nella seconda lettera di Pietro, che metteva a confronto i giorni della creazione con le epoche dell’umanità.

John de Tollet, archiatra di papa Innocenzo IV, che lo nominò cardinale, divenuto famoso per le battute ironiche pronunciate durante il lunghissimo conclave di Viterbo, con cui invitò a scoperchiare il tetto del palazzo in cui era riunito coi colleghi prelati, “dacché lo Spirito Santo non riesce a penetrare per cosiffatte coperture”, e a suggerire la scelta del nuovo pontefice grazie all’ausilio dei dadi, da astrologo, si soffermò sul significato minaccioso di un allineamento planetario che si sarebbe dovuto verificare nella costellazione della Bilancia undici anni dopo la sua dipartita, e ben sessant’anni prima della peste nera del 1346.

Allorquando i pianeti si allinearono nel segno dei Pesci, nel 1517, scoppiò la Riforma protestante e Lutero indicò una data fatidica nel 1600. Tre anni dopo, per Tommaso Campanella, si sarebbero dovuti scontrare la Terra con il Sole. E persino Isaac Newton tentò di sperimentare una “scienza esatta delle profezie”, in accordo alla teologia biblica.

Più o meno nello stesso periodo, Johann Jacob Zimmermann (menzionato nel terzo libro dei Principia, scritti dal presidente della Royal Society, per aver osservato la grande cometa del 1680), da seguace di Jakob Böhme, riunì i suoi discepoli, sedicenti Rosacroce, in numero di quaranta, avviandoli alla Società della Donna nel Deserto, dopo aver maturato la convinzione che l’apocalisse si sarebbe dovuta realizzare, “ai margini della desolazione“, nell’autunno del 1694. Il suo successore, Johannes Kelpius, condusse questo gruppo, da pellegrini, nella tollerante Pennsylvania, dove divennero noti come Hermits or Mystics of the Wissahickon.

Mary Bateman, conosciuta come la Strega dello Yorkshire, millantava invece la magica deposizione, da parte della sua gallina, di uova recanti previsioni sul tempo della fine. Mentre, nello scrivere quell’inno che sarebbe poi divenuto un classico canto natalizio, Joy to the World, il compositore Isaac Watts, in realtà, si riferiva alla Seconda Venuta di Cristo, e non alla prima.

 

Varia molto la sensibilità estetica nei confronti di uno scontro definitivo nell’Armageddon, dal “sublime dinamico” kantiano alla romantica stupefazione o dalla perplessità nei confronti delle frontiere dell’incredibile alla moderna elaborazione cognitiva delle probabilità. In ogni caso, a mettersi in gioco è un’arcaica struttura di pensiero, con profonde radici evolutive e frutto di concrete ragioni adattative, tesa all’interpretazione di fenomeni ed eventi in modo tale da ricomporli in un’accettabile regolarità o di attribuire a un’eventualità sporadica quel particolare significato leggibile quale messaggio da decriptare.

In “Six Impossible Things Before Breakfast: The Evolutionary Origins of Belief” (2006), Lewis Wolpert indica nella fede religiosa un punto di arrivo dell’umano processo di elaborazione e adeguamento all’incapacità di comprendere immani disgrazie, imprevisti fatali, incidenti mortali, malattie debilitanti, sofferenze ingiustificate o morte inattesa, grazie a quell’illusione, resasi necessaria ad affrontare tematiche dolorose e ammutolenti.

Felice Cimatti, in “Il  possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice, Torino 2009), rimanda l’intera tematica della trascendenza a problema di tipo logico, non fattuale: “la questione del trascendente diventa, in questa prospettiva, quella dei limiti logici del linguaggio umano”.

L’esperienza differisce però dalla credenza. Ciò che si prova in certe situazioni non si formula concettualmente e quanto repentinamente ci abbaglia, all’intersezione tra il logico e l’emotivo, appartiene alla sfera del sacro, quella dell’immanenza che attira l’attenzione sull’invisibile, ai confini del razionale, alla confluenza di ciò che si mostra e quello che si potrebbe svelare, appunto fra il reale e il possibile.

Il logico, nelle pagine di Cimatti, viene impiegato quale sinonimo di linguistico; nel senso di parlare, presuppone la comprensione da parte dell’uditorio e, al di là della banale comunicazione, pone nelle condizioni di cogliere il nesso fra le cose e gli avvenimenti. Quanto viviamo lo possiamo esperire solo grazie alla logica propria della nostra lingua.

Passando per la logica linguistica che si parla in una comunità, l’esperienza del sacro non può essere allora né del tutto privata, del singolo, e neppure assolutamente universale, ossia pure di tutti coloro che non “comprendono”, perché non parlano la stessa lingua e non pensano con la stessa logica, in quanto quello umano non è che un “pensiero verbale”, secondo la definizione di Lev Semënovi? Vygotskij (1934).

Da qui la multiforme ricchezza di sfumature del divino, su cui discetta Paolo Scarpi in “Si fa presto a dire Dio” (Ponte alle Grazie, Milano 2010). Non ci viene pertanto in soccorso, in tal senso, l’ipotesi dei “neuroni mistici”, esposta da Rhawn Joseph (“The Limbic System and the Soul: Evolution and the Neuroanatomy of Religious Experience”, 2001), ma piuttosto una prospettiva all’incrocio tra individuo e pratiche sociali, di tipo rituale, come è stata definita da Matthew Day (“Religion, Off-Line Cognition and the Extended Mind”, 2004).

La preghiera va così inquadrata quale tentativo, come scrisse Roger Bastide, nel 1975 (“Le sacré sauvage et autre essais”), di “ristabilire l’ordine turbato, di equilibrare forze in squilibrio, di ristrutturare un cosmo destrutturato”.

La narrazione apocalittica esprime un linguaggio comprensibile, immediato, perché intuitivo e familiare. La sua logica inserisce gli eventi in un discorso in cui alla casualità si sostituisce il messaggio di un significato. La struttura interpretativa alimenta l’immaginazione e da questa trae spunto per fornire spiegazioni retroattive e attraenti, in linea con segni antecedenti che a ritroso ricostruiscono una storia proiettata nel futuro, relativa a un “passato che non passa”.

Tra le strutture interpretative, l’astrologia abbina, in termini fatalistici, situazioni umane a condizionamenti planetari, in una sorta di commistione di rimembranze e moniti, pure con funzione di programmazione dei cambiamenti. La profezia sostanzialmente si incarica di stimolare una modifica che sia adeguata e conseguente, con l’innesco di quel meccanismo  che svela le aspettative inespresse.

Robert King Merton, in sociologia, Paul Watzlawick, per il versante psicologico, hanno parlato rispettivamente di profezia che si auto-avvera, auto-adempientesi, auto-determinantesi, auto-appagante, nel contrastare le dissonanze cognitive, ma i pronostici, comunque vengano dedotti, soddisfano prima d’ogn’altra cosa il bisogno che noi tutti dimostriamo di nutrire nel futuro, in quel tempo cioè che reputiamo ancora necessario per realizzare i nostri desideri, o che più semplicemente vogliamo ancora vivere.

La fine del mondo non è mai tale, semmai un termine al quale continua a essere implicito il “plus ultra”, la conclusione di qualcosa che sia pronto a ricominciare su altre basi.

La visione della linearità e della ciclicità del tempo non contraddice la permanente esigenza di considerarne possibile l’interruzione. Proprio perché la catastrofe non rappresenta tanto la paura d’un avvenimento definitivo, quanto quasi un rasserenamento nel sapere che lo stravolgimento dell’ordine intervenga in maniera puntiforme a mitigare un’inesauribile ansia che altrimenti, ossessivamente, si proietterebbe in continuazione su tutto. Che poi ciò si ripeta rientra pure in questa procedura anancastica.

La linearità appiattisce, mentre la ciclicità sembra più accettabile nel fornirci di senso, eppure, come asserisce Stephen Jay Gould (“Time’s Arrow, Time’s Cycle”, 1987), sono l’una complementare all’altra. La gradualità delle trasformazioni consente il perdurare del passato, invece la prevedibilità d’una frattura rovescia i rapporti, anche i più scontati. “Non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza, e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti” (Qohelet 9,11).

Nell’accanirsi con regolarità e simmetrie non si dimostra altro che una fragilità estrema, visto che i drammi dell’insicurezza richiedono epiloghi sensati. Dal concepire un tale intervento provvidenziale non si sottraggono neppure coloro i quali decifrano le profezie a posteriori per poi ricatalogarle come avvenimenti storici.

Del resto, la paura potrebbe rivelarsi un buon sistema per combattere la solitudine, visto che si è sempre in compagnia di qualcosa, anche se ci atterrisce e, nell’affrontarla, si può sempre dire di aver dimostrato coraggio, come, in un certo senso, suggerisce con leggerezza Roberto Pagnanelli ( “Io amo la paura”, Hermes, Roma 2012). E forse a fornire questo coraggio è proprio la percezione della complessità evolutiva, nel momento in cui da insegnamento biologico si trasferisce in un ambito culturale.

Tutta la concatenazione di eventi, che sarebbe potuta andare diversamente, ci fa sentire preziosi, quanto ci seguirà rende però anche conto della relatività di questo valore, attribuendoci invece la responsabilità del futuro. Salvare una sola vita, recita il Talmud, equivale a salvare l’universo e, quando muore un individuo, scompare pur sempre un mondo. Nondimeno, però, benigni portatori di garanzie o avidi divoratori dell’esistente, come recita la poesia di Wis?awa Szymborska (Nella moltitudine), siamo comunque quello che siamo, dei perversi che rincorrono la paura di morire per sentirsi ancora vivi.

Tutto quello che si trova sull’orlo del baratro a costituire una scena che si accinge a rappresentare la rovina assoluta non è che l’esteriorizzazione di un caos tutto interiore. Il messaggio è determinato dal cambiamento a qualsiasi costo. E ciò che conta, in ultima analisi, non è tanto quanto dovrà accadere, bensì il suo insistente annuncio che esprime l’esigenza psicologica di mettere ordine e porvi paradossalmente rimedio.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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