La fedeltà di Don Giovanni

Il collezionismo potrebbe essere una modalità esorcistica di procrastinare la morte. Fin quando non si sarà completata la raccolta, che fornisce senso alla propria esistenza, quest’ultima non la si potrà dichiarare definitivamente conclusa.

Nel mito di Don Giovanni l’aspetto anancastico è costituito dall’infedeltà, con cui si provoca, sfida e sfugge il destino.

Anche se mi struggo per raggiungerla… Il concetto che esprime è maledetto: la meta coincide con la morte. Beato chi lotta per sempre, chi in eterno si tiene la sua fame!”, risponde il protagonista del “Don Juan und Faust” (1829) di Christian Dietrich Grabbe (1801-1836), a Leporello che gli rimprovera raggiri e menzogne finalizzati al raggiungimento di scopi non eccelsi. Ma, a differenza di Faust, Don Giovanni non va alla ricerca della verità, bensì d’un effimero quotidiano, in cui ogni donna posseduta potrebbe rappresentare il congiungimento supremo e con esso il termine della ricerca, dunque la morte. Con il perdurare d’un gioco sostanzialmente elusivo, “chi lotta per sempre, chi in eterno si tiene la sua fame” si garantisce ancora del tempo, dell’altra vita.

In “De umiddelbare erotiske Stadier eller Det Musikalsk-Erotiske” (“Enten – Eller”, I,1843), Søren Kierkegaard aveva parlato d’un “demoniaco desiderio di vivere”. Ebbene, quella vita d’accumulo non va ridotta al celebre “catalogo” di Leporello, perché non è una sommatoria, ma una sospensione, un pellegrinaggio, un genere a metà strada tra il descrittivo e l’enunciativo: più d’un conto, un racconto.

Per la durata di quel tempo ci si [sente] sollevati e consegnati all’essere  narrati”, dice Peter Handke, nel suo “Don Juan (erzählt von ihm selbst)” (2004). Nella fuggevolezza d’ogni momento, nell’irresponsabilità della gioia provvisoria, Don Giovanni vive il suo tempo breve.

Come nella novella fantastica di Honoré de Balzac (1799-1850), “Élixir de longue vie” (1830) , a Don Juan Belvidéro, in fondo, la storia del passato non interessa più di tanto (semmai con  le “storie” si diletta!); la religione (futuro) per nulla, e le regole del presente le disattende; a sostituire i termini trinitari della dimensione temporale resta l’attimo informe, il palpito che non fa notizia, il baleno che non si espone.

Don Giovanni differisce anche dal protagonista de Les liaisons dangereuses (1782) di P.-A.-F. Choderlos de Laclos (1741-1803). Il visconte di Valmont non vive l’effimera precarietà del momento; s’impone dei traguardi, e per raggiungerli intesse quasi tele di ragno; non ha fretta, non “brucia d’impazienza”, come dice Jean Rousset  (Le mythe de Don Juan, 1976).

Nella brevità Don Giovanni riscopre l’umano, nella carne la libertà, nel peccato il fascino dell’ambiguità. Il limite che accetta è quello che sta a difesa del tempo, perché non baratta promesse né rinuncia alla conquista di sempre nuovi piccoli momenti di desiderio.

Harald Weinrich (Knappe Zeit. Kunst und Ökonomie des befristeten Lebens, 2004), pone due condizioni a questa palese incuria: “la giovinezza e la salute. A chi è giovane e sano non serve molto sapere e nemmeno sospettare – che glielo si chieda oppure no – … quanto è limitata l’esistenza umana”.

 

¿Tan largo me lo fiáis?”, tanto tempo mi concedi? Ribatte a Don Pietro, “convidado de piedra”, El Burlador de Sevilla, di Tirso de Molina (1584-1648). Il prestito, nell’immediato, compensa gli interessi su un debito così lontano da non sentirne alcun onere.

La transazione del Leonido di Félix Lope de Vega y Carpio (1562-1635), nella commedia La fianza satisfecha (1612-1615), ripone tuttavia fiducia in una divina grazia che non potrà che essere soddisfatta. Mentre il Don Juan Tenorio (1844) di José Zorrilla (1817-1893) rafforza la propria temporalità con “Mañana será otro día… yo he de estar hoy”, domani sarà un altro giorno, io devo starci oggi!

Nella novella Les Âmes du purgatoire (1834), Prosper Mérimée (1803-1870) inscena a bella posta una danza macabra. “A un tratto una musica lugubre e solenne… Due lunghe file di penitenti, con ceri accesi… con passi lenti e gravi… nemmeno il rumore dei tacchi sul selciato, anziché camminare, ogni figura scivola. Le pieghe lunghe e rigide dei camici e dei mantelli immobili come la veste marmorea delle statue”.

José I. J. O. E. de Espronceda y Delgado (1808-1842) sembra non aver dimenticato la lezione consacrata al tempo nella fiaba di Cenerentola. Si sta facendo tardi, e ancora non mi avete detto dove abitate, insiste El estudiante de Salamanca (1837). Ma tardi lo sarà semmai dopo. “Cada paso que avanzáis, lo adelantáis a la muerte”, ogni passo innanzi, sospinge alla fine.

Il parere di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808-1889) è che l’inferno della vecchiaia arriva prima dell’altro (Le Plus Bel Amour de Don Juan, 1919). E, nella pièce teatrale Don Giovanni involontario (1943), Vitaliano Brancati (1907-1954) sembra esalare quasi un’esclamazione di conferma: “Dove ci hanno portato gli anni!”.

Noi ci siamo affidati ai giorni e alle notti; le belle giornate di primavera, le notti d’estate! Ed essi, i giorni di primavera, le notti d’estate, e i lunghi crepuscoli d’inverno, e i pomeriggi d’autunno, ci hanno portato via, via come cavalli sfrenati, lontano dai nostri vent’anni”.

E infatti, a gelare il sangue del Don Juan (poema sinfonico op. 20, 1887-8) di Richard Georg Strauss (1864-1949), da un’incompiuta opera poetica di Nikolaus Lenau (1802- 1850), è il corpo sfiancato dall’età. È questo il suo convitato di pietra, inflessibile nel rammentargli gli ardori sfrenati d’una giovinezza che non c’è più.

Conviene dimenticare e rinunciare, o consumare con baldanza la caducità, prima che giunga inesorabile la mezzanotte di un “redde rationem villicationis tuae” (Luca 16,2)?

 

In “La fedeltà di Don Giovanni” (Il Mulino, Bologna 2014), Roberto Escobar costituisce un paragone tra il Mockingbird (1972) di Heinrich “Hank” Karl Bukowski (1920-1994) e il gatto, “convitato di pietra”.

The mockingbird had been following the cat/ all summer/ mocking mocking mocking/ teasing and cocksureand said something angry to the mockingbird/ which I didn’t understand.” “Arrogante e dispettoso, per tutta l’estate… il tordo beffeggiatore aveva seguito il gatto. Intanto, quello strisciava… dandogli risposte stizzite e oscure.

Ieri il gatto calmo calmo è venuto su per il viale/ col tordo vivo in bocca,/ le ali a ventaglio, un ventaglio leggiadro e cascante/ le penne aperte come gambe di donna,/ e l’uccello non motteggiava più,/ chiedeva, implorava/ ma il gatto/ scavalcando i secoli/ non ascoltava…/ l’estate era finita”. “Summer was over”.

Mocking mocking mocking non rispetta la potenza degli artigli predatori, verso cui rivolge uno sguardo miope, inconsapevole della scadenza stagionale. La serietà, che non sottovaluta la sacralità da affrontare, consiste nel non ignorare quest’inevitabile inclinazione. Anche se poi non è forse proprio la rigidezza dell’inverno a punire la dolcezza dell’estate.

Se domani muoio, che sia in una mala ora/ o in una buona, come dicono, che cosa me ne importa?” asserisce “El estudiante de Salamanca”. “El porvenir” non va temuto, perché sofferenze e piaceri finiscono con la vita. E allora “perché farla schiava di dolori e rimorsi incerti?/ Per me non ci sono mai né domani né ieri”.

È la consapevolezza della brevità, e non la trascuratezza, a spingerlo a trascorrere l’esistenza come se non fosse a termine.

Dietro la brevità della vita umana – annotava Ian Watt (1917-1999), in “Myths of Modern Individualism” (1997) – c’è il tempo infinito dell’eternità, il tempo sacro in cui gli dei, gli spiriti e tutte le leggende immortali della fede assumono un’esistenza reale…”.

Questo confuta il Don Giovanni ottocentesco, mantenendo un’incrollabile fede in se stesso. Negare la serietà della morte equivale a negare la serietà della vita. Se non si conoscesse la dolcezza dell’estate, il tempo ci sarebbe estraneo, e nemmeno la rigidità dell’inverno prospetterebbe vie di fuga, mentre la consapevolezza della scadenza insiste su d’ un accorgimento più attento verso la brevità che non attende nessun passaggio.

Plus rien… n’est vanité sinon l’espoir d’une autre vie”. Ne “Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde” (1942), Albert Camus (1913-1960) pospone la premessa alla conseguenza, per cui diviene vana una vita che vada oltre se stessa. Ciò non banalizza la morte con un inganno, anzi prende assolutamente sul serio tutto quel “tempo breve” che vien prima.

In “Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteile” (1879-1881), Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) si chiede se “dovrebbe restarsene immobile per tutta l’eternità, inchiodato alla delusione, trasformato lui stesso nel convitato di pietra, con un desiderio d’un’ultima cena della conoscenza che non gli toccherà mai più…”.

Dimostrando d’avere una coscienza più ampia e più limpida, Don Giovanni sceglie di restare fedele al proprio desiderio. Il rispetto che porta a se medesimo, contro la prepotenza delle aspettative, rende più salda la sua moralità.

La contraddizione semmai sta in Donna Anna, nel cui petto si scontrano sentimenti che non hanno niente in comune, e che vengono indicati quando con il vocabolario dell’amore, onore, orgoglio, protezione, quando con la terminologia dell’infatuazione, passione, sacrificio, difesa. L’ovvietà del reale si mostra al sopraggiungere di Ottavio. “L’amore è corruttibile: vince soltanto ciò che resiste al tempo!” (Christian Dietrich Grabbe: “Don Juan und Faust”, 1829).

Il piacere dell’amore è offerto dal cambiamento, la sua potenza si concentra nella tensione. Perché ogni desiderio è cavo e per oggetto ha qualcosa che non c’è. L’oggetto del desiderio è un fantasma che si è andato modellando su di una mancanza e, allorquando si crede d’aver colmato il vuoto, riesce a farne svanire persino l’impronta.

 

Pel Belvidero di Balzac (Élixir de longue vie, 1830), “la religione era una dissolutezza e la dissolutezza una religione”, mentre il seduttore di E. T. A. Hoffmann (1776-1822), dapprima alla ricerca d’un mondo migliore, alla scoperta dell’impossibilità di questo, s’adagia nella disillusione (Don Juan. Eine fabelhafte Begebenheit, die sich einem reisenden Enthusiasten zugetragen, 1813), riecheggiata dai versi del poema drammatico di Aleksej Kostantinovi? Tolstoj (1817-1875).

Oh, se di quante amai una soltanto/ avesse mantenuto la promessa!/ Non io le ho tradite, no, ma loro,/ senza pudore mi hanno ingannato,/ hanno sostituito il mio ideale,/ parandomi innanzi una sconosciuta,/ e amare loro, invece della perfezione,/ quello sarebbe stato un vile tradimento…” (??? ????, 1862).

Sincerità e onestà impongono di non amare nessuna in particolare, perché la sessualità è estremamente soggettiva, narcisista ed egoista; e il tradimento è d’obbligo.

Ripugnanza semmai rivolge alla menzogna e quindi a quell’insanabile “ferita” femminile che riesce a dividere tutto il genere umano. Il desiderio di ritornare alla completezza iniziale, espone a vessazioni ingiustificate dell’altro sesso, temporaneamente dominante.

Max Frish (1911-1991), nel “Don Juan oder die Liebe zur Geometrie” (1953), scorge la coerenza del nichilismo, quando “in una società che vive d’una menzogna media… cerca d’esperire il vero”.

Di fronte a un cerchio, o di fronte a un triangolo non ho mai provato vergogna, non ho mai provato orrore”. E poiché la sobrietà sconvolge ogni apparente possibilità dell’imprevedibile, la precisione dona speranza e attrae più di qualsiasi stato d’animo.

 

Nelle diverse varianti letterarie, Don Giovanni è un ateo, bestemmiatore, un attributo caratterizzante che gli proviene da racconti popolari antecedenti Tirso e inquadrabili nell’arcaica leggenda del “doppio invito”, alla quale si potrebbe ricondurre persino il Sir Gawain e il Cavaliere Verde del XIV secolo, ma decisamente codificata nel Romance del Galán y la calavera, raccolto in Curueña (León).

Uno schema narrativo, in seguito, messo in scena dal collegio gesuitico di Ingolstadt, onde confutare la filosofia del Machiavelli, il quale coerente con i fondamenti della sua dottrina priva di fede, lascia da solo il protagonista, Leonzio, ad affrontare l’infernale commensale.

Ascolta ciò che ora ti domando, testa secca, e rispondi. È vero ciò che credono molti uomini, che uno spirito immortale è racchiuso in un piccolo corpo mortale, che da quello riceve il beneficio della vita?” (Paul Zehentner: Promontorium Malae Spei Impiis Navigationibus Propositum, 1643).

Dopo la morte l’anima sopravvive in ben altro modo!

Se tu non lo sai, io sono tuo nonno, tu mio nipote. Ma, ohimè, ambedue disgraziati…”. Alla dannazione seguiva un auto da fé con rogo conclusivo dell’effigie di Machiavelli, “Quoniam fuerit homo vafer ac subdolus, diabolicarum cogitationum faber, optimus cacodaemonis auxiliator”.

Nella calavera profanata che ricambia l’invito, va vista un’emersione dell’antico rituale di culti funebri che prevedono offerte di cibi ai defunti. I dolci dei pani dei morti precedono l’avvento di Halloween. Anzi, in un verso del Purgatorio de san Patricio (1640), di Pedro Calder?n de la Barca (1600-1681) cenare giù all’inferno equivale a tirare le cuoia. Il tabù arcaico incute rispetto verso l’ignota dimensione e rispecchia la vicenda di Persefone che mangiando i semi del melograno si perde, come invece Euridice a causa dell’intempestivo desiderio d’Orfeo.

Nella struttura dei miti Aristotele indicava un’inversione di causalità. Per cui la durezza della pena non la si dedurrebbe dalla gravità della colpa. Il morto che salva gli uomini dal peccato, il Cristo risorto, per l’ateo, viene sostituito nel Giudizio, da un trapassato che s’occupa della finale condanna, per via dell’ostinazione a non piegarsi di fronte alla potenza dell’eternità. È un’hybris la libera misura di sé, un orgoglio sacrilego, un atteggiamento inemendabile di caparbietà nell’umana prospettiva, nel rifiuto dell’universo assoluto e per la preferenza verso un’impossibile autonomia spirituale.

 

Il peccato descritto da Tirso è l’inganno dell’ingenuità. Isabella lo scambia per Ottavio, e rivivendo la fiaba di Apuleio, Amore e Psiche, vorrebbe vederlo in volto a conferma della nuova felicità, o quanto meno identificarlo. Poi, alla stregua del Ciclope accecato, si sente rispondere un anonimo: “un hombre sin nombre”.

Come un nuovo Edipo di fronte alla Sfinge, – scrive Roberto Escobar – sembra che Don Giovanni rivendichi con orgoglio la propria inerme condizione umana, e che Tirso ne senta la grandezza, nonostante l’intento religioso del suo testo…”.

Un hombre y una mujer” evidenzia ancor di più il crudo desiderio.

Catalin?n, il cacasotto, pretende più esteriore moralità, fratesca e contrattuale, del tutto estranea però al suo padrone, che seduce e inganna proprio in quanto certo di morire. La forza emotiva controbatte la retorica d’ogni esortazione che dalla paura della fine conduce al divieto, e la trasgressione trova giustificazione proprio nella brevità della vita.

La minaccia s’indirizza contro questa perversione d’attendere la fine quale evento naturale, senza ritenerla un castigo per tutte quelle colpe di cui non può che essere intrisa la carne. All’immediatezza della sorpresa si sostituisce allora la suspense nel perdurare della tensione; un’angoscia, non per quanto gli è stato concesso, ma per un tempo senza fine, per l’impossibilità umana di resistere a una tale dilatazione e sospensione. Poiché l’eternità si racchiude in un attimo!

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

Curi U. Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bruno Mondadori, Milano 2002

D’Ancona A. La leggenda di Leonzio, in Miscellanea di studi critici edita in onore d’Arturo Graf, pag. 621-638, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo 1903

Escobar R. La fedeltà di Don Giovanni, Il Mulino, Bologna 2014

Ierace G. M. S. Magia sessuale, Armenia, Milano 1982

Raffaelli R. Don Giovanni fra antropologia e filologia, Guaraldi, Rimini 2006

Rousset J. Le Mythe de Don Juan, Armand Colin, Paris 1978

Watt I. Myths of Modern Individualism. Faust, Don Quixote, Don Juan, Robinson Crusoe, Cambridge University Press, Cambridge 1997