A turbare le notti insonni di Sigmund Freud, durante il suo viaggio in Italia, sarebbe stata la statua del Mosè commissionata a Michelangelo per la tomba di Giulio II, in S. Pietro in Vincoli. “Per tre solitarie settimane del settembre 1913 sono andato ogni giorno nella chiesa a contemplare la statua e l’ho studiata, misurata, disegnata, fino a che non ho catturato la scintilla di comprensione che poi, nel saggio, ho osato esprimere soltanto restando anonimo. E’ dovuto passare molto tempo prima che riuscissi a legittimare questo figlio nato fuori dalla psicoanalisi”. Un quarto di secolo dopo quel saggio anonimo avrebbe pubblicato “L’Uomo Mosè e la religione monoteistica”, a completamento de “Il mito della nascita dell’eroe” (1909) di Otto Rank.
L’ipotesi di fondo è che la religione ebraica abbia assunto le sue origini dalla teologia egizia di Akhenatòn, escludente ogni forma di mito o di magia, e che il monoteismo introdotto da Mosè si richiamasse all’esperienza ancestrale della famiglia primordiale, rimossa dalla memoria degli uomini. Successivamente, grazie alle instabili condizioni di vita e all’organizzazione sociale (attraverso i clan di fratrie, il totemismo, l’esogamia e il matriarcato), sarebbe avvenuto un lento ritorno del rimosso (primitivo odio omicida contro il padre) in un’energica reazione convogliata nel senso di colpa del “peccato”. Nel 1935, il padre della psicoanalisi confessava a Lou Andreas-Salomé: “E’ già sufficiente che io stesso possa credere nella soluzione del problema. Esso mi ha perseguitato per tutta la vita”.
Il Mosè è un’opera matura di Michelangelo, in un’età (38-40 anni) in cui si concentrava in maniera particolare sulla “muscolarità” dei suoi soggetti. Aveva già al suo attivo la Pietà, il Davide e la Cappella Sistina. E, nel suo primo soggiorno romano, aveva frequentato la scuola di Realdo Colombo “notomista e medico cerusico eccellentissimo” e studiato gli scritti sulle proporzioni del corpo umano di Albrecht Durer. A Firenze, continuò a studiare anatomia nella sala mortuaria dell’ospedale, ove gli era consentito “scorticar cadaveri”.
Il linguaggio del corpo della statua di Mosè, dalla maggior parte dei critici d’arte, è stato interpretato come l’espressione del sentimento dell’ira, per via dell’indice destro proteso in alto quasi in segno d’ammonizione. Freud si concentrò maggiormente su quella singolare posizione del capo, ruotato sul lato sinistro, che non volge lo sguardo al visitatore. Questi occhi timidamente distolti all’osservazione di chi guarda, per il padre della psicoanalisi deporrebbero per un atteggiamento di rassegnata tolleranza e di riflessione sull’eventualità d’intraprendere un’azione pacificatrice. La testa girata, in un movimento residuo, perché come se al contempo trascorso ma non concluso, fornisce la rappresentazione del freno all’impulso e di una trattenuta razionalizzazione della spinta alla reazione istintiva.
L’ermeneutica freudiana impone all’interpretazione uno sforzo di partecipazione (partem capere), nel senso letterale di “prender parte” al pensiero dell’artista per scoprirlo interiormente e rivelarlo al mondo.
L’autore, con i mezzi più vari, dalla scultura alla pittura, alla scrittura, esprime la “sua” idea di realtà. E una tale singolarità è dettata sia dalla natura stessa del metodo espressivo sia dalla dimensione imitativa d’una condizione originaria, per cui alla creazione “secondaria” d’un qualcosa s’abbina strettamente il momento di ri-creazione ludica, e pure irripetibile.
In questo senso, presumibilmente Proust riteneva che “i bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera”. L’immedesimazione non sarà mai totale e rimarrà sempre e comunque un margine d’incomunicabilità tra poeta e lettore. Keats diceva che “l’artista è, per sua natura, un camaleonte”. Se lo cerchi in una morfologia che ti sembra più congeniale, lo trovi in una forma che non ti aspetti. Quasi una condizione definibile di “autismo sociale”, per l’impossibilità di rivivere completamente lo stato d’animo che dall’opera si dovrebbe proiettare verso di noi e che, tutto sommato, sembra rimanere rinchiusa in una sfera impenetrabile a qualsiasi nostra indagine.
Susan Sontag considerava l’interpretazione “un metodo strategico radicale che cerca di conservare un vecchio testo ritenuto troppo prezioso perché sia lecito scartarlo rimettendolo a nuovo. L’interprete non lo distrugge e non lo riscrive… ma di fatto lo modifica. Tuttavia non ammette di farlo, sostiene di averlo soltanto reso comprensibile, rilevandone, a suo dire il vero significato” (“Against Interpretation”, 1966).
Montaigne, accarezzando il suo felino domestico, ponderava su una precisa volontà di farsi trovare: “en ma façon simple naturelle et ordinaire… ainsi lecteur je suis moi même la matière de mon livre”. L’eventuale incapacità di vedere gli scherzi e gli inganni della natura e di capire le simulazioni artistiche non può essere perciò imputata ad altri: “che colpa ha la gatta se la sua padrona è matta”? Anche se poi, un proverbio inglese recita: “in a cat’s eye, all things belong to cats”. E “qui gatta ci cova”, perché “il gatto alla dispensa, quello che fa pensa”, e “se il gatto e il topo trovano un accordo, il droghiere è rovinato”…. Proverbi, modi di dire, frasi fatte, formulate allo scopo di colorare il discorso, d’illuminarne i contorni mal delineati, o di coprire lacune logiche, quindi un po’ tutto il ventaglio che dall’incomunicabile riporta all’esplicito, persino al banale.
Un enunciato ritenuto intraducibile in realtà può essere costituito da un’unità lessicale che non si riferisce a un concetto simile nella lingua della traduzione. E, in questo caso, per trasmettere il senso, il traduttore deve ricorrere a delle trasformazioni linguistiche. Benedetto Croce ed Eugenio Montale sostenevano la teoria dell’intraducibilità letteraria, anche in base all’ipotesi della relatività linguistica (di Sapir-Whorf), che afferma come la categorizzazione lessicale, oltre a essere frutto d’un modo di organizzare l’esperienza, ne sia, al contempo, la discriminante, poiché la conoscenza del mondo avviene con modalità squisitamente glottologiche e sintattiche, tanto da esserne di conseguenza influenzata, e non solo dal lato espressivo, ma nella stessa maniera di concepire le idee. Da qui l’impossibilità della riproduzione, in altre lingue, di poesie, calembour e altri giochi di parole semantici, palindromi e spoonerismi basati sulle metatesi (“The Lord is a shoving leopard”, al posto di “a loving sheperd”, pronunciato dal reverendo rettore di Oxford).
Il gioco di parole esistente nell’originale inglese della commedia di Oscar Wilde, “The Importance of Being Earnest” solitamente non viene compreso in italiano (“L’importanza di chiamarsi Ernesto”) – se non viene sostituito da un altro nome, magari “franco” (nel senso anche di sincero) – in quanto basato appunto sull’omofonia del nome Ernest con l’aggettivo qualificativo inglese “earnest” (onesto). Il gioco di parole italiano “traduttore, traditore”, in russo “??????????, ?????????” (perevod?ik, predatel’), sebbene conservi il senso, ne perde come gioco linguistico. Molto meglio, invece, pure da quest’ultimo punto di vista, il calembour ungherese “fordítás: ferdítés”, che può essere riformulato: la traduzione è un divorzio.
La paremiologia insegna che proverbi, frasi fatte, o modi di dire, si cristallizzano in maniera ripetitiva, con il risultato anancastico di svuotarsi dei significati originali per acquistarne, di volta in volta, di ulteriori, a seconda del contesto.
Tutte le interpretazioni sono falsificabili, asseriva Popper, citato dalle autrici (Elena, Elisa ed Erica Viva) di “Riflessioni su uno scherzo della natura e il linguaggio del corpo” (Marrapese, Roma 2012). E ancora più sottile è l’ironia di Foscolo quando elogiava Monti “poeta e cavaliero, gran traduttor de’ traduttor d’Omero”, alludendo contemporaneamente al fatto che non l’avrebbe probabilmente letto nell’originale greco che il romagnolo forse non conosceva bene. Eppure quel “Cantami, o Diva, del Pelide Achille/ l’ira funesta, che infiniti addusse/ lutti agli Achei…”, checché ne dica Foscolo, è un capolavoro. Ciò significa che chi traduce “tradisce”, sia perché, interpretando, intende “altro”, a seconda di una personale sensibilità di captare aspetti che possono giungere in definitiva differenti, sia in quanto, così operando, quasi certamente va anche “oltre” il testo originale.
La traduzione è come “la donna” per il Duca di Mantova quando intona il popolare brano del terzo atto del Rigoletto, non soltanto “mobile”, ma anche “belle infidèle”, simile, confessò il filologo Gilles Ménage a “una donna di cui ero innamorato a Tours”; se fedele, sarà letterale, ma non bella.
Nell’Antigone di Sofocle, l’amore fraterno, la pietà religiosa, e il senso di giustizia, s’oppongono all’arroganza, all’intolleranza e a una rigida legalità. La reazione di seppellire un cadavere è un gesto pacifico, anche se vietato, ottempera a un postulato naturale della coscienza, in contrasto con una legge fondata sul diritto positivo. In questa interpretazione conflittuale, chi fa “altro” e chi va “oltre”, tra zio e nipote, nonché futura nuora del re?
“Per natura non condivido l’odio (reciproco dei miei fratelli), ma l’amore (di chi ama)” (523) proclama Antigone. “Fortunato chi la vita assapora senza sventure…” (582) è il commento del Coro. “Quanti presumono d’aver sempre ragione, o di possedere una lingua e un animo superiori, ebbene, rivelano il loro vuoto interiore, una volta (aperti e) scrutati a fondo” (707-9) diventa il rimprovero a Creonte di Emone, a cui fa eco quell’Eros a cui “non si può resistere” del Coro (781).
“Ma perché un’infelice come me dovrebbe rivolgersi ancora agli dei? E a chi domanderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia? Ebbene, se così par giusto agli dei, riconoscerò il mio errore dopo averlo appreso dalla sofferenza” (922), ecco l’amara considerazione dell’eroina, mentre Creonte prova a difendersi dall’indovino, accusandolo di averlo già caricato, scaricato e svenduto (1036). Tiresia rende pan per focaccia, parlando di cani, fiere e sparvieri (1081), “sepolcri viventi”, in contrasto con chi invece sarà sepolta viva per non condividere neppure la condizione dei morti, sottolineata con quel “presenti e assenti” (1109) dello zio, e futuro suocero, che ha cambiato idea. Ades è però implacabile con il Labdacidi e “le parole superbe degli arroganti scontano le pene della loro colpa, insegnando a diventare saggi da vecchi”.
Mentre a Eros si attribuiscono prerogative belliche, di “invincibilità in battaglia” (781), a Dioniso viene concesso l’epiteto di “scuotitore” (154), tradizionale invece di Poseidone. Le contraddizioni cominciano già con le osservazioni di Ismene sullo “stringere o sciogliere i nodi” (40) o sul possesso di “un cuore ardente per un’azione agghiacciante” (88), riproposte dall’ossimoro “santo crimine” (74) e poi dalle varie antitesi famiglia società, legalità giustizia, dovere diritto, tomba talamo.
La legge del contrappasso, in una paradossale inversione, renderà colui che nega la sepoltura “un morto che respira” (1167), in base alla sua stessa ammissione tragico-ironica che prevede come “i temperamenti troppo duri più facilmente si arrendono, proprio come il solidissimo ferro, se viene troppo indurito dal fuoco, alla fine più agevolmente si spezza e si frantuma” (473-6). L’ossessione di Creonte non è una mistificazione ma la profonda realtà d’un destino infelice di solitudine, così come il giusto gesto di Antigone resta immortalato nel tricolon privativo: “senza compianto, senza amici, senza imenei” (876), ma nell’assurdo compiacimento d’Acheronte e nel sarcasmo del Coro: “Eppure è un vanto per una morta essere commemorata per aver avuto la sorte d’una dea, e in vita e in morte” (836-8).
Il classicista scozzese Lewis Campbell (Sophocles, 1879) rileva che, quando si trova di fronte al suo destino, in totale isolamento dall’umana compassione, Antigone discende dai toni altezzosi assunti in precedenza. Non tanto allora la sofferenza in funzione didattica, come per Eschilo, quanto la dissociazione dell’individuo che asserisce la propria irriducibilità dal contesto comunitario?
“Il tema di tutte le sette tragedie di Sofocle – per Eduard Fraenkel (“Due seminari romani di”, Roma 1977) – è lo stesso: un essere umano che qualche volta prima della nascita, qualche volta per altri accidenti è fuori dalla polis umana”.
Il conflitto va interpretato, ma l’interpretazione non può essere univoca. Proposizioni differenti non si annullano vicendevolmente, quasi fossero espressioni di apofenia, pareidolia, o dell’eidetismo studiato da Erich Rudolf Jaensch. Justinus Kerner aveva scritto poesie ispirate a un gioco di macchie d’inchiostro create accidentalmente, da cui presumibilmente Rorschach potrebbe aver preso le mosse per un primo approccio sistematico di genere psicodiagnostico. Alfred Binet aveva pensato di farne un test di creatività. Ma il ricorso all’interpretazione dell’ambiguità per valutare la personalità d’un individuo sembra sia stata un’idea che si potrebbe far risalire a Leonardo e Botticelli. L’arte insomma ha spesso anticipato la psicologia clinica.
Giuseppe Arcimboldi dipinge nature morte, in cui la vita è ancora presente e piena, eppur tuttavia immobile. Il cesto di frutta, capovolto, mostra un volto rubicondo e sornione.
La reversibilità del rapporto figura/sfondo e l’osservazione di uno stesso oggetto che si sdoppia, a seconda dell’angolazione visuale, richiamano le esperienze e la disponibilità di conoscenze di chi guarda. La lettura d’un’opera è così fortemente influenzata dal contesto che attrae l’attenzione. Alberto Giacometti e Gaston Lackaise hanno trattato il tema del soggetto, rispettivamente un uomo e una donna, “che cammina”, risolvendolo, nel primo caso, in un vuoto attivo che circonda le forme e le assottiglia con la forza compressiva dello spazio, nel secondo, attraverso l’opulenta espansione d’una sagoma che invade la complessità circostante con lo sfoggio di tutto il suo volume.
“Altro” e “oltre” non sempre coincidono nel loro punto di approdo e nella collocazione nella realtà. Il progetto prefissato in partenza termina in uno schema diverso dall’originario, oppure ne trascende l’elaborato iniziale. E poi c’è il ritorno, la ripetizione, secondo una strutturazione ulteriore: altro, oltre, “ancòra”.
Michelangelo scolpì la serie delle “Pietà” in età diverse, a partire da quella giovanile di S. Pietro (1498), legata al carattere liturgico dei tempi. Nelle successive (Palestrina, 1540; Bandini, 1547-55; Rondanini, 1560-64) la rappresentazione della “muscolarità” rispecchia l’anzianità dell’autore: le gambe non sono più in grado di reggere il peso d’un corpo maggiormente emaciato, il tronco del cadavere risulta completamente abbandonato al suo peso, finché le braccia dei necrofori perdono la forza di sorreggerlo, nella Pietà Rondanini. Nell’inventario delle opere, quest’ultima venne definita: “un’altra statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”, ma l’artista ottantenne continuò però ad apportarvi modifiche sino alla morte, per cui se il gruppo è costituito da parti solo abbozzate (come il torso del Salvatore schiacciato contro il corpo della Vergine, quasi a formare un tutt’uno) è da considerarla una scelta meditata.
A metà strada tra Bandini e Rondanini si situerebbe il marmo di Palestrina, proprio per quelle discrepanze esecutive nella sproporzione delle gambe di Cristo, nel contorno squadrato e nella pesantezza dell’insieme. Dalla Bandini provengono il torso muscolare, incorniciato da due bande, di cui una (quella pubica) particolarmente tesa ed elastica, la figura minore di lato e il sostegno posteriore.
E’ come se le “pietà senili” del Buonarroti recuperassero la devozione del Vesperbild, oppure l’arcaicità e il realismo de La Madre della vittima d’Urzuleï, un bronzo dell’VIII-V sec., in cui la pietas è ancora assolutamente pagana, piuttosto che lo schema piramidale (ancora presente nella Pietà dell’opera del Duomo), delle sculture votive popolari bretoni, che avrebbero influenzato la commissione al Michelangelo di appena ventidue anni, da parte dell’ambasciatore francese presso Alessandro VI, cardinale Jean de Bilhères de La Groslaye, per la Cappella di Santa Petronilla di Re Carlo VIII, che forse desiderava adoperarla per la propria sepoltura.
Il rapporto tra l’opera, l’autore e l’interprete rimane sempre dialettico, in un contesto in cui attenzione, sfondo, bagaglio culturale, devono estrarre l’essenza da molto complicate relazioni, il cui accumulo ed elaborazione conducono alla raccolta di ulteriori informazioni, dettagli, prospettive di vaglio, che possono costituire preludio di una “nuova” visione. Vedo, interpreto, conosco, so, ma quanto più so tanto più vedo, perché la conoscenza formata dall’osservazione fornisce coscienza utile ad ampliare e ad approfondire lo sguardo.
Conoscere non è semplicemente un sapere statico, stabile, duraturo, ma presuppone un movimento di passaggio, quasi iniziatico, per essere “venuto a conoscenza”, un sapere quindi fornito dall’esperienza, della visione, dell’emozione, della fatica. “Chi non suda, non gela, non s’estolle/ dalla via del piacer, là non perviene…”, cantava Torquato Tasso (Gerusalemme liberata: XVII, 61, 487-8). Apprendere dalla sofferenza è quanto proclama l’Antigone sofoclea e Michelangelo, nello scolpire le pietà senili, ne fa un esercizio di stile.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
Campbell L.: “Sophocles, Greek text with English notes in two volumes”, Clarendon Press, Oxford 1879
Colonnelli L.: “Conosci Roma?”, Clichy, Firenze 2013
Frampton S.: “Il gatto di Montaigne”, Guanda, Parma 2012
Fraenkel E.: “Due seminari romani di…”, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977
Ierace G. M. S.: “Il senso e il suo contesto”, su https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/atri-argomenti/il-senso-ed-il-suo-contesto-%E2%80%93-il-formaggio-con-le-pere-ed-altre-misticanze-ma-io-chi-sono-per-non-sapere-%E2%80%93-comunicazione-pleonastica-e-primato-epistemologico-del-buongusto/807/
Pichot P.: “Centenary of the birth of Hermann Rorschach”, (S. Rosenzweig & E. Schriber, Trans.), Journal of Personality Assessment, 48, 591–596, 1984
Sontag S.: “Against Interpretation and Other Essays”, Farrar, Straus and Giroux, New York 1966
Viva E., E. ed E.: “Riflessioni su uno scherzo della natura e il linguaggio del corpo”, Marrapese, Roma 2012