Le persone, cosiddette “normali”, parlano di se stesse come di esseri intenzionali, scrive il filosofo canadese Ian Hacking, in “Rewriting the Soul: Multiple Personality and the Sciences of Memory” (1995). Le “descrizioni” degli atti sono quasi sempre esposizioni di come un’azione si sarebbe voluta compiere e soprattutto con quale finalità la si sarebbe portata a termine. Si offrono spiegazioni del perché e del per come si agisce in quel determinato modo piuttosto che in un altro. Eppure, per un individuo, il ventaglio di narrazioni fruibili dipende dalla disponibilità delle rappresentazioni che gli offre la società in cui risiede. Quindi, tutti forniscono enunciazioni, non tutte con l’esperienza di psicologi, psichiatri, scienziati, giornalisti e scrittori, o delle comunità culturali, racconti per lo più corrispondenti alle intese popolari e che potrebbero essere assunti da un qualsiasi individuo quali ordinari commenti del proprio agire.
Che si venga classificati sani o malati di mente, tutto questo ha una diretta conseguenza sull’interpretazione di noi stessi, asserisce lo psicologo dell’educazione Jeff Sugarman (2009), nel prendere in esame l’approccio di Hacking all’ontologia storica. La medesima comprensione di sé implica la cognizione delle opere compiute, o che stiamo per porre in atto, almeno quali manifestazioni di volontà, quindi, il capire le relazioni che rendiamo delle imprese di cui parliamo o che abbiamo intenzione di portare a compimento.
Nella società contemporanea, per certi versi per motivi differenti, in un caso dovuti a deficit nell’altro a esubero narrativo, l’autismo e il disturbo di personalità multipla offrono probabilmente degli esempi concreti di caratterizzazione in cui il tipo di atto e il tipo di persona che compie l’azione si rappresentano incontrovertibilmente proprio come “Acting under a description” (letteralmente “agendo sotto una descrizione”). Un conto infatti è giustificare un gesto di stizza, o di scontrosa scorrettezza, scolpandosi “perché si è stati provocati”, ben altro dire spavaldamente d’averlo fatto “per dimostrare chi comanda”, molto meno plausibile scusarsi ricorrendo alla motivazione psicopatologica “sapete, sono affetto da ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder)”.
Ci si forma mediante le descrizioni degli atti che sono state messe a nostra disposizione. Per cui, ad avere maggior significato non sarà l’esposizione che meglio si adatta al gesto compiuto, ma quella piuttosto scelta dai soggetti tra le diverse narrazioni a loro disposizione.
Le descrizioni che ascriviamo agli accadimenti, e le imprese nelle quali ci impegniamo, divengono per lo più causali, spiegazioni cioè di come e perché saremmo arrivati ??a essere le persone che siamo. Una mancata realizzazione viene pertanto attribuita semplicemente agli avvenimenti del passato che sono stati la diretta e principale causa del divenire d’una persona. Tali enunciazioni che attribuiscono valore causale agli eventi del passato, che corrispondano o meno a dati obiettivi, con le loro spiegazioni spesso così piene di significato, contribuiscono a fornire una marcata influenza formativa all’essere attuale dell’individuo. Tanto da poter dedurre che le persone sostanzialmente incarnano quanto capiscono di essere diventate.
Nel lavoro di Hacking sulla mutabilità storica dei disturbi psichiatrici, e sui ruoli istituzionali basati sul ragionamento statistico, si riflette l’approccio di Paul-Michel Foucault (1926-1984) ai sistemi di conoscenza e di potere. Definisce difatti “nominalismo dinamico” (o, alternativamente, “realismo dialettico”), quella forma storicizzata di concettualismo che ripercorre nel tempo le interazioni reciproche tra i fenomeni del mondo umano e le classificazioni in cui noi andiamo a incasellarli.
Sviluppando il concetto “Acting under a description” di Gertrude E. M. Anscombe (1919-2001), in “The Social Construction of What?” (1999), Hacking ammette: “in ogni generazione ci sono regole piuttosto precise su come comportarsi, se sei pazzo”.
Interpretare la follia significa pure riconoscerne le frustrazioni, comprenderne le mancate soddisfazioni, le occasioni perdute, le reazioni di paralisi, di fuga o di lotta, in cui c’è effettivo pericolo di soccombere o si può farla franca, uscendo senza danno dal rischio, e scamparla alla gabella del caso. Pazzia è forse tirare a campare ai margini delle proprie possibilità, oppure scegliere di non metterle in atto, non provarle, non viverle.
Da questo punto di vista, anche la salute mentale potrebbe rivelarsi altrettanto destabilizzante, nel non averci dato l’opportunità di sentire cosa si prova a vivere ciò che non abbiamo vissuto, o che non ci è accaduto, quanto avrebbe potuto costituire la soluzione di fronte ai nostri problemi, oppure nel non averci fatto cedere alle tentazioni che siamo invece, purtroppo o nostro malgrado, riusciti a scansare.
La battuta di E. L. Gore Vidal (1925-2012) secondo la quale Reagan, che aveva già fatto l’attore, stesse ancora “interpretando” una parte, quella del presidente degli Stati Uniti, non è solo arguta e sferzante (anche se meno graffiante di “maschera dietro cui non esiste un volto”), ma acquista valenza di facezia dai risvolti tremendamente drammatici. Perché, se un commediante potrà recitare da buffone o da istrione, così come dimostrare o meno stile nell’inscenare un dato carattere, oppure, il che non sarà meno grave, risultare talmente suadente e persuasivo da convincere alcuni e suscitare sospetti in altri, entrambi tutti questi spettatori sempre a un’esibizione hanno assistito. Se la parte è stata scritta apposta andrà bene, se si ha del talento ancora meglio, in altri casi l’impressione potrà corrispondere a quella dell’usurpatore che si sia sostituito al titolare. Ed in effetti anche gli attori devono riposare ogni tanto e subire un avvicendamento. Allo stesso modo spesso i personaggi hanno una controparte, un doppio, una versione diversa di sé, migliore o peggiore, con cui si devono confrontare, in un caso provando invidia, nell’altro, quanto meno inquietudine e sgomento.
Lo psicoanalista britannico Adam Phillips (“In lode della vita non vissuta”, traduzione di Francesco Zago, Ponte alle Grazie, Milano 2013) si rivolge direttamente alla letteratura di Shakespeare e Gogol’ per formulare delle domande a cui si sente pronto a dare risposte.
“Re Lear è degno dell’affetto che chiede? Macbeth ‘ha guadagnato’ quanto avrebbe potuto (‘Quel che egli ha perduto’ dice Duncan del signore di Cawdor ‘lo ha guadagnato il nobile Macbeth’; atto I, scena II)? Propiš?in viene davvero riconosciuto all’inizio come un gentiluomo e alla fine come il re di Spagna? Questi tre folli sono alla ricerca d’una soluzione alla loro impotenza; un’impotenza potremmo dire, di cui all’inizio non sono consapevoli. Ecco il dramma che queste tre grandi opere rivelano. I personaggi devono cercare e trovare rapidamente la soluzione a una perdita di cui ancora non si sono resi conto; devono trovarla in fretta, altrimenti la loro sofferenza comincerà a mostrarsi, a rivelarsi (le tragedie suggeriscono sempre una soluzione rapida)”!
King Lear è un dramma, a doppio intreccio, che prende spunto dall’eponimo della città di Leicester (Leir-castrum); e inizia dalla decisione del sovrano di abdicare. “… Rompi gli stampi di natura; disperdi tutto e tutti insieme ai germi onde si genera, mostro d’ingratitudine, l’uomo” (Atto III scena II). La trama secondaria coinvolge i figli del conte di Gloucester, di cui uno, costretto all’esilio, si finge pazzo (Tom o’ Bedlam).
“Il dramma scozzese” poggia sull’ambiguità del responso delle streghe, il cui vero significato dapprima sfugge al consultante. “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla” (atto V, scena V).
Il racconto del 1835 di Nikolaj V. Gogol’ è il primo d’una serie accomunata dal titolo: il romanzo giovanile di Gustave Flaubert è di tre anni successivo, “Le Memorie di un pazzo” di Lev Tolstoj del 1884 e l’analogo “Diario di un pazzo” di Lu Xun del 1918.
La metafora del cannibalismo, del fondatore della lingua cinese moderna, parte dagli sguardi di disapprovazione della gente che sembra stia complottando contro di lui, e arriva a questa conclusione anche attraverso particolari percepiti alterati dalla sua paranoia. “Sapevo con una certa sicurezza che quel vecchio era il mio boia travestito. Sentirmi il polso era semplicemente il pretesto per vedere se ero grasso abbastanza, questo gli avrebbe permesso di avere una porzione della mia carne. E tuttavia non avevo paura. Per quanto io non mangi gli uomini ho più coraggio di loro”.
Flaubert anticipava i temi del più maturo “L’educazione sentimentale” (1869), in cui alla fine i protagonisti ammetteranno il loro insuccesso nella vita.
La vicenda tolstoiana, il cui titolo in origine (11 aprile 1884) sarebbe dovuto essere “Le memorie di un non pazzo”, è narrata in prima persona dal protagonista il quale esordisce affermando di essere “malato”, nonostante le diagnosi contrarie dei medici che non gli diagnosticano gli attacchi di panico di cui soffre realmente l’autore.
Il Propiš?in del drammaturgo ucraino incarna un “non eroe”, privato d’ogni dignitoso rapporto umano, che giorno dopo giorno sprofonda in quella desolante mediocrità, definita pošlost’ (banalità), una solitudine cronica dove immagina in contrappeso un mondo prestigioso ma tutto personale, racchiuso dentro al suo povero cuore, che funge da piccolo manicomio in cui inscenare le proprie fantasie.
In queste narrazioni, l’ipotesi lessicale di campionamento linguistico della follia ci prospetta l’anormalità, lo squilibrio, la fissazione, la mania, la paranoia, la schizofrenia, l’alienazione, l’insania, la frenesia, la demenza, con aggettivi che, ricalcando la psicopatia, vanno da scemo a mentecatto, da matto a pazzo (persino a un non realistico, ma grottesco “mediocre” e a un satirico “banale”). Cosa troviamo nell’interpretazione di sé, che ci viene fornita, a indurci a pensare a tale modello di giudizio e farci scegliere uno dei termini sopraelencati?
É una domanda alla quale dovrebbe rispondere forse solo la psichiatria, in quanto parte della soluzione. Ma, al tempo stesso, nel rispondere alla domanda posta, la psichiatria, come la letteratura, non si costituirebbero parte del problema medesimo?
Chi “interpreta” allora veramente la follia? Lo psichiatra, in modo analitico, o il folle, con modalità esibizionistiche. E chi saprebbe meglio impersonare un pazzo se non lui stesso? Non lo scrittore che elabora delle Memorie, o il suo Diario scrivendo come se fosse un altro, né lo psichiatra che è l’altro per antonomasia, rispetto al suo paziente!
A teatro, non avremmo dubbi, lo spettatore e l’attore sono complici, come il lettore e chi ha scritto il testo dell’alienazione del protagonista. La follia si concentra tutta nella parte, nel ruolo da recitare. Chiunque sia a “interpretare” la follia, attore, scrittore, spettatore, lettore, psichiatra, paziente, diventa assolutamente essenziale l’attenzione, quella suscitata sul come si dovrebbe essere, ancor più che sul come si è, per i primi, mentre per l’ultimo, quella considerazione assente, non ricevuta, di cui sente la mancanza.
Interpretare, oltre a sostenere un ruolo, significa intuire, intendere, chiarire ed esplicare, mostrare, manifestare, spiegare e quindi dire, ri-descrivere. Chi interpreta permuta, fa da intermediario, espositore, in quanto conosce, o crede di comprendere, la volontà e i sentimenti del prossimo.
Ciò che viene messo in scena corrisponde all’entropia del Sé, costretto quindi a esacerbare le proprie richieste. In procinto di scomparire, gli eroi tragici si sentono come i folli di fronte all’imminenza d’una perdita di visibilità. La situazione che si delinea, se sembra comunemente teatrale per gli uni, è intensamente drammatica per gli altri.
Nel corso della vita, le persone che riescono a farci sentire la loro presenza sono qualcosa di più degli sparuti personaggi della finzione sul palco. Questo “sentimento di esistere”, di cui parlava Rousseau, che ci colpisce, non le colloca di punto in bianco e per forza, né tra gli istrioni né tra i protagonisti. Forse semplicemente tra gli “uomini rappresentativi” a cui si riferiva Ralph Waldo Emerson.
Nella commedia del 1974, “Travesties”, il drammaturgo ceco (nato Tomáš Straussler) di lingua inglese, Tom Stoppard, immagina come tre importanti e influenti personalità (James Joyce, all’epoca in cui stava scrivendo l’Ulisse, Tristan Tzara, nel momento d’ascesa del Dadaismo, Lenin poco prima della rivoluzione russa) vengano ricordati dalle percezioni ed esperienze d’un oscuro funzionario, attraverso il labirinto della sua mente mediocre, impegnata nel mettere in scena a Zurigo “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde.
Dall’annuncio “Rosencrantz e Guildenstern sono morti” (Amleto. Atto V, Scena II, riga 411), nel 1966, Stoppard aveva esposto l’assurdità esistenziale di due personaggi minori della tragedia shakespeariana, confusi dal progredire degli eventi di cui non hanno conoscenza diretta, e che sembrano costituire due metà d’un unico carattere. Come in “a tragicomedy in two acts”, “En attendant Godot” (1949), di Samuel Beckett (1906-1989), trascorrono il loro tempo a interrompersi l’un l’altro, formulare delle domande a cui non sanno dare risposta, impersonare altri personaggi di maggior rilievo.
Lo pseudonimo “Gump”, scelto da Edmund Morris, biografo ufficiale di Reagan, soprannominato “Dutch”, verosimilmente alluderebbe al personaggio, tanto buono quanto scemo, ma che fa fortuna, interpretato da Tom Hanks, appunto nel film omonimo diretto da Robert Zemeckis, nel 1994, “Forrest Gump”.
Per lo storico Garry Wills, il presidente Reagan confuse spesso il mondo reale con quello del cinema, da cui proveniva, forse anche perché il suo entourage ne strutturò il mandato alla stessa stregua d’uno show televisivo dove si sarebbe limitato a svolgere il ruolo di anchorman. Il critico Brent Staples aggiunge elegantemente che la luce delle star in genere, siano del cinema, della politica, come della cultura, è al giorno d’oggi talmente abbagliante “che il pubblico non riesce più a discernerle bene, e loro non riescono più a discernere bene il pubblico“. Gore Vidal sarebbe stato ancora più caustico, nel definirlo un burattino del capitale, “dei maestri dei media”. Nella sua disarmante tautologia, l’arguzia di Gore Vidal su Reagan sottolinea che, comunque, ci sarà sempre qualcuno a recitare la parte del presidente degli Stati Uniti, anche se non attore professionista.
Qualunque cosa significhi “interpretare” la follia, nel corso di una recita, deve seguire degli schemi prestabiliti anche se, trattandosi di sostenere il ruolo del pazzo, il suo comportamento sarà il più arbitrario, capriccioso, imprevedibile. Se intendiamo invece capirla, possiamo ricorrere alla definizione di indisponibilità a rassegnarsi a vivere secondo le convezioni della società d’appartenenza. La diagnosi, tutto sommato, riuscirebbe persino a inquadrarla meglio, senza per altro arricchire un repertorio culturale in cui la mancata riconoscibilità bisticcia con la difficoltà d’essere “originali” senza mostrarsi, quanto meno, bizzarri.
Che qualcuno delimiti con un’etichetta le stramberie potrebbe rivelarsi pur sempre un’arma a doppio taglio; limitare, confinare e contemporaneamente mettere sotto protezione. L’ansia condivisa dai pazzi e dagli esperti, spinge questi ultimi ad arrivare al più presto a delle soluzioni conclusive, “rapide”, quasi fossero suggerite dalle tragedie.
Nel caso dei protagonisti di queste, ogni tentativo di trattamento si risolve però in una catastrofe. Gli psicodrammi sono una terapia per gli attori e gli spettatori, non certo per i personaggi che mettono in scena la difficilissima relazione tra necessità inespresse e capacità irrealizzate. La differenza tra i drammi della follia e quelli della normalità consiste proprio nel bisogno incompreso e sospeso dalla minaccia che tale incomprensione presuppone.
L’imminente dissoluzione viene annunciata in tono quasi auto-parodistico da Samuel B. Beckett, in “For to End Yet Again & Other Fizzles” (1976, ma la versione francese, “Pour finir encore et autres foirades”, risale a sedici anni prima). Gli altri termini, “fizzles” (fallimenti), o “foirades” (più che: delusioni), come il titolo “Travesties” (burlesque) di Tom Stoppard, servono a prevenire l’accusa dei critici, visto che si tratta di “un fiasco” annunciato.
Essendo già di per sé un conflitto, ogni follia è controversa, persino nella sua anamnesi; divergenti saranno definizioni e diagnosi, che si tratti di malattia reale, trattata o meno, o di inscenarne la rappresentazione. Fingere d’essere malati è sia una manifestazione di malessere sia una delle prime interpretazioni finalizzata a un guadagno secondario. La teatralità è più congeniale alla prima, poiché esser sani dovrebbe corrispondere piuttosto a una più chiara abilità di esprimere e soddisfare i propri bisogni. Duplice è però il rapporto tra follia e teatralità; così come si ritiene teatrale la follia, si individua della follia nella teatralità, negli attori che fingono d’essere chi non sono, rubando le battute ai personaggi che interpretano.
La follia riesce addirittura a circoscrivere l’illusione teatrale, spiegando qual è l’impulso che spinge a recitare, lo stesso che sostiene il desiderio espresso in quanto rappresentazione di se stesso. E, se essere folli significa essere ignorati, non presi in considerazione, “interpretare” vuol dire catturare l’altrui attenzione. La malattia mentale è infatti trasformativa d’ogni interesse, concentrazione, diligente applicazione, senza però annullarne la tensione.
La nascita della tragedia ci insegna che il teatro, seguito dal testo letterario, nella profilassi e nella cura di forme non medicalizzate di follia, ha svolto una funzione precorritrice. Il sociologo e critico culturale americano Philip Rieff (1922-2006) asseriva che era proprio questo “The Triumph of the Therapeutic” (1966).
In “Freud: The Mind of the Moralist” (1959) aveva ritratto il padre della psicoanalisi quale “erede della tradizione di Montaigne, Burton, Hobbes, e La Rouchefoucauld, un uomo profondamente impressionato dai limiti dell’intelletto e dall’ostinazione delle passioni“, scrisse lo storico della psicoanalisi Paul Robinson in “The Freudian Left” (1990). Rieff ha visto in Freud un fautore del compromesso psichico, convinto che la gente dovrebbe fare di meglio per evitare un destino d’infelicità. Quello di Freud era un sobrio realismo e per questo Rieff l’ammirava.
La psicoanalisi si inserisce in una delle tante forme di trasformazione dell’attenzione operate sia dal disturbo mentale che dal trattamento prescritto per esso. Il paziente parla, l’analista segue, poi i ruoli s’invertono e prende la parola chi prima si limitava ad ascoltare e la trasformazione avviene in parallelo alla rinnovata narrazione, descrizione, ridefinizione.
Anche se il pubblico scalpita, a teatro, il dramma deve seguire il copione prestabilito, ma non per questo circoscrive i propri obiettivi. E potrebbe esistere un contesto in cui si mostri l’insoddisfazione della follia giungere alla radicale auto-distruttività, nell’eccesso così di predisporsi a impersonare altro da sé. La follia abbandona allora la funzione di destino, mantenendo quello di ruolo da imparare con modalità ripetitiva per poi sorprendentemente disimpararlo, mentre l’espressione del silenzio e dell’emozione che spaventa, aiuta infine a capire più profondamente.
Giuseppe M. S. Ierace
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Ierace G. M. S. La vita emotiva del cervello, https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/psicologia/la-vita-emotiva-del-cervello/8622/
Morris E. Dutch: A Memoir of Ronald Reagan, Random House, New York 1999
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Rieff P. Freud: The Mind of the Moralist, Anchor Books, New York 1961
Rieff P. The Triumph of the Therapeutic: Uses of Faith After Freud, Harper & Row, New York 1966
Robinson P. The Freudian Left, Cornell University Press, Ithaca and London 1990
Sugarman J. Historical ontology and psychological description, Journal of Theoretical and Philosophical Psychology, 29 (1): 5–15, 2009