“…addomesticando il fuoco, centinaia di migliaia di anni fa, gli esseri umani imboccarono la via della cottura del cibo, una pratica destinata ad ampliare notevolmente la gamma degli aromi sprigionati dagli alimenti ed a porre le fondamenta della culinaria” André Holley: “Il Cervello Goloso”, Bollati Boringhieri, Torino 2009
Ida Li Vigni e Paolo Aldo Rossi, ne “Il Simbolismo del Cibo” (su “Anthropos & Iatria”, pag. 104-108, XIII, 2, Aprile- Giugno 2009) sottolineano come il passaggio alla civilizzazione, da uno stato di animalità (che va evolvendosi), o di edenica convivenza con il creato (se si dà fede all’utopia dell’età dell’oro), sembra sia contrassegnato dal predominio del cibo lavorato e cotto, qual è il pane “quotidiano”, prodotto dalla fatica e con dolore, sugli alimenti naturali, di per sé già pronti all’origine, e per questo sacri, come latte e miele, generosamente offerti dai nostri fratelli minori, compagni di viaggio su questo pianeta.
L’uomo seleziona i suoi alimenti in base a norme socioculturali ed a preferenze individuali, le une e le altre frutto di significati, legami, valori, gusti, spesso scaturenti dalle necessità. L’elemento culturale che ha determinato l’impostazione tecnologica del cucinare e, prima ancora, del mangiare sociale, è stato il ricorso al fuoco, elemento trasmutatorio dell’alchimia degli ingredienti naturali in quella combinazione, altrimenti destinata a rimanere semplice sommatoria, elevata dalla cultura a superiore risultato appagante.
L’unità fondante delle civiltà gravita attorno al fuoco. I miti di Prometeo, Epimeteo, Efesto ce lo ricordano. Dal punto di vista alimentare, la contrapposizione natura cultura si traduce infatti nella contrapposizione crudo e cotto, come insegna Claude Lévi-Strauss (“Le cru et le cuit”, 1964). Così l’arroganza creatrice dell’uomo bolle in pentola assieme all’orgoglio di riuscire a tenere sotto controllo la natura, di modificarne le strutture, di intervenire nei suoi processi. La carica simbolica dell’elemento si proietta sui fornelli emanando un alone di appartenenza, dal valore fortemente identitario. Il rifiuto di quest’atto fondante delle civiltà equivale ad una mancata accettazione della propria rassegnata umanità, una contestazione ed uno spaesamento insieme, una negazione nichilista che sa di disturbo dell’insoddisfazione, di crisi domestica, quasi una cancrena familiare.
L’equazione cottura cucina civiltà cultura si rispecchia nella contestazione dei significati e del valore della vita domestica, quale inequivocabile equipollenza familiare. Eppure anche una scelta vegetariana crudista, in opposizione al cotto, di stile selvatico, disordinatamente irrispettoso della normativa e della regolamentazione, non potrà essere scevra da motivazioni ideologiche di esaltazione del selvaggio, quando non siano invece inconsce pressioni alla devianza a determinarla.
La coerenza intellettuale di modelli di comportamento rinunciatario si sovrappone e si intreccia con elementi di perplessità e confusione. La santità dell’eremita, apparentemente, non si distanzia molto dall’anoressia dell’invasata, o dall’autolesionismo del suicida: a fare la differenza solo piccoli, ma esaurienti dettagli. Il crudismo sembra più vicino alla dieta edenica ed ad un tentativo del suo recupero, in una dimensione in cui divino ed animale coesistevano alla paradossale condizione di escludere la cultura umana. Il deserto e la foresta danno quell’idea di solitudine e di rustico che attirano corrispondenze con ascetismo o ferinità, repulsione del mondo ed inciviltà. Nella psicopatologia il disturbo è spontaneo, mentre come stile di vita diviene frutto di un apprendimento, anch’esso trasmissione culturale.
Di fronte al bivio inedia per astensione da ogni cibo oppure mancato riconoscimento dell’edibilità e quindi rischio di avvelenamento da tossine non riconosciute tali, diviene sommo insegnamento quello della natura, delle bestie che, senza averlo imparato se non da loro stesse, sanno discernere tra le erbe. Anche l’impiego delle risorse, nella sua ovvietà, è una delicata operazione culturale: nell’animale innato istinto di sopravivenza, nell’uomo conoscenza del territorio. L’utopia naturalista del mito del “buon selvaggio”, della felicità proveniente dalla semplicità, cozza con tutta quella letteratura che dall’illuminismo all’ecologismo ne difende razionalmente il fascino protoromantico grazie anche alla scoperta del maggior mantenimento delle virtù nutraceutiche di erbe, verdure e ortaggi, ricchi di vitamine.
L’uso del fuoco, ancor prima che a pratiche culinarie, risponde ad una domanda igienica, una richiesta di prevenzione della salute, di sicurezza dietetica. Il fuoco è uno dei quattro elementi che compongono l’universo, la cui combinazione entra nella costituzione corporea dell’uomo. La salute corrisponde ad un bilanciamento precario tra essi, che il clima, l’ambiente, il lavoro, l’età possono far traballare. Il ripristino dell’equilibrio necessita innanzitutto di un accorgimento alimentare di estrema semplicità. Col clima caldo si preferiranno pietanze fredde, in ambiente umido vivande secche. Chi gode di salute potrà mantenere una tale armonia grazie ai cibi temperati. La terapia culinaria correggerà gli eccessi qualitativi dei prodotti con opportune modifiche tecniche, o modalità di abbinamento.
Una cucina di questo genere viene impostata come arte combinatoria, una sorta di alchimia che rettifica più che un artificio teso alla valorizzazione della natura. A ciò che è secco si aggiungerà acqua nella bollitura, l’umido verrà rinsecchito dal fuoco della brace nell’arrosto. L’abbinamento sarà servito con analoga contrapposizione e, senza divulgare tali accostamenti ai poveri lavoratori della terra il secco formaggio accompagnerà le umide pere (“al contadin non far sapere…”).
In Francia, per prosciugare l’umidità del melone si ricorre all’elemento più secco di tutti, ovverossia al sale, e per mitigarne il freddo si aggiungerà un vino forte e dolce. Sempre nel vino potranno finire cotte le pere (e questa volta senza tenere all’oscuro nessuno!). I fagioli caldo umidi vanno contrastati con aromi e spezie, quali santoreggia, origano, pepe, senape, e l’immancabile vino rosso.
Il sapere medico fa dell’arte della cucina un sublime trattamento indolore, ma non certo insapore. La digeribilità di alcuni piatti forti verrà aiutata dalle salse. Il piacere di assaporare con gusto anticipa l’assimilazione sollecitando l’intervento dei succhi ad essa deputati. Il desiderio asseconda il bisogno ed il piacere lo soddisfa. “Ciò che è più piacevole al gusto va meglio per la digestione”, scriveva il cerusico Maino de’ Maineri nel suo De Saporibus, a metà tra il Regimen Sanitatis ed un ricettario di salse, con precettistica specialistica sui condimenti.
La strategia della salute si compie nell’allestimento delle vivande e nella loro successione. All’inizio si proporrà ciò che mette in movimento la peristalsi, come insalatine condite con olio e aceto. “Il rapporto piacere salute, che l’immaginario contemporaneo tende spesso a percepire in termini conflittuali, nelle culture pre-moderne è stato pensato come un nesso inscindibile all’interno del quale i due elementi (il piacere e la salute) si rafforzavano a vicenda” (Massimo Montanari in “Il Cibo come Cultura”, Laterza, Bari 2004). L’idea che ciò che piace faccia male ha reso impercorribile la pratica dietetica restrittiva, se non altro perché nel curare l’apparato digerente ammala l’umore e rende anedonici. Già il termine dieta è talmente carico di negatività fornite dalle sue accezioni distorte nel senso prescrittivo e proscrittivo da divenire causa dei suoi insuccessi, laddove invece la salute va costruita da occasioni gastronomiche regolamentate dal gusto per la misura.
Le modalità di cottura rispondono ancor prima che a predilezioni individuali a valenze culturali. Ad esempio bollire ed arrostire sono carichi di significati diversi e rimandano a simboli differenti. L’atto di arrostire, tra le modalità di cottura degli alimenti sarebbe più vicino alla natura, in quanto, per la sua immediatezza, può essere compiuto dal maschio cacciatore in esterno, nella medesima riserva forestale di cacciagione in cui ha operato, ma pure per quel tanto di violenza che richiede soltanto il ricorso al fuoco e nient’altro. La gestione essenziale del fuoco nella brutalità del dominio della forza sulla rudezza della natura è metafora di maschia virilità, anche di fronte ad un’attrezzatura prefabbricata da barbecue da cortile.
Bollire invece inserisce più strumenti nell’incontro cibo fuoco: l’insieme dell’elemento di contrasto e del recipiente, manufatto culturale, incrementano il senso dell’addomesticamento. Le pentole rientrano gioco forza nella semantica dei casalinghi, quelli che per consuetudine appartengono alla dote femminile, e sono strumenti di una loro precipua abilità. La mediazione del liquido interno e del solido contenitore diminuiscono decisamente l’aggressività del rapporto con gli alimenti, non ne disperdono i succhi nutritivi, trattenendoli e concentrandoli nel brodo, riutilizzabile come base per altre preparazioni. E difatti, proprio alla base di tutte le salse brune, in particolare la salsa spagnola, e delle preparazioni di carni rosse brasate e degli stufati a bruno, ci sono preparazioni liquide, di colore scuro, e perciò definiti “fondi bruni”. Fondi veri e propri, detti “basi di cucina”, sono anche il fondo bianco (di ritagli di pollame), il fondo di caccia (pezzi di cacciagione), nonché il fumetto di pesce.
La contrapposizione natura cultura si ripropone in selvatico e domestico, caccia ed allevamento, nomadismo e stanzialità, pastorizia ed agricoltura. Anche a livello geografico si ritrovano modelli contrastanti relativamente all’economia domestica di tradizione greco-romana, basata su di una sedentaria coltivazione dei terreni ed il modello germanico, o barbaro, di sfruttamento della foresta attraverso attività di raccolta, caccia, pastorizia.
L’ambito culturale mediterraneo eleggeva a propri simboli liturgici elementi allegorici della religione cristiana, quali pane, vino e olio. Eppure, l’altra immagine di costruzione del rapporto uomo ambiente, nonostante la suggestione selvaggia e caotica, maggiormente vicina alla spontaneità della natura, proviene pur sempre da un modello culturale prescelto, attuato ed a lungo sperimentato, sino a divenire tradizionale per le popolazioni nordiche. Riti di significato magico, propiziatorio, che hanno come protagonisti gli animali fanno da contraltare al credo della resurrezione cristiana. Ma anche i cacciatori dell’Europa continentale e dell’Asia raccolgono le ossa delle prede sacrificate, seppellendole insieme con la pelle, per attirarne l’anima e farle rinascere. Nell’area mediterranea i rituali di fertilità saranno improntati ai frutti della terra ed al ciclo stagionale, come dimostra la vicenda della Kore: rapita dal dio degli inferi, viene periodicamente restituita alla madre.
Il rapporto tra uomini e territorio ha ricevuto una svolta economica decisiva nel momento del passaggio dall’atteggiamento predatorio (e quindi distruttivo) ad un comportamento produttivo (dunque creativo), allorché l’uomo scelse le piante da coltivare e gli animali da allevare, dando vita alla pratica della domesticazione, e agricola e pastorale. Tra le piante furono selezionate le più fruttuose e nutrienti, come i cereali. Tale innovazione segnò un primo allontanamento dalla natura con relativa conquista culturale. La fase precedente, prossima alla natura, per lo sfruttamento del territorio, richiede comunque una conoscenza che la designa altrettanto impegnativa sul versante cognitivo. Si pensi al rigore con cui le popolazioni di raccoglitori e cacciatori esercitano il controllo delle nascite per proteggere la loro economia dall’instabilità demografica.
Lo sviluppo dell’agricoltura avrebbe reso possibile la definitiva civilizzazione con la concomitante fondazione delle città, come anche l’assonanza linguistica suggerisce: civitas, civilitas. L’ambiente è stato soggiogato, deforestizzato, drasticamente modificato in senso antropico fino allo sconvolgimento del paesaggio originario.
La civiltà compone il proprio cibo come artificio, a partire da ingredienti naturali e lo eleva a simbolo della propria cultura. In area mediterranea è successo con il frumento dei campi, che la sapienza prima, e la consuetudine poi, trasforma in pane; con l’uva che, ridotta in mosto, diventa vino; con le olive molite a olio. Altrove a fermentare sarà la birra. “Ciò che chiamiamo cultura – è questa la definizione che ci fornisce Massimo Montanari in “Il Cibo come Cultura”, Laterza, Bari 2004 – si colloca al punto di intersezione fra tradizione ed innovazione”. Una sperimentazione introduce la novità che se trovata di successo, viene incorporata ai saperi ed alle tecniche della consuetudine. La cultura, nel porsi allora all’interfaccia tra queste due prospettive, passa da una generazione ad un’altra. A custodire il sapere alimentare non potrà essere che il genere femminile, sicuro protagonista sul piano procreativo e su quello del primo nutrimento al seno, almeno fino allo svezzamento. Cosicché il mistero della cultura l’avremmo individuato nella sessualità.
Jack Goody, in “Cooking, cuisine and class: a study in comparative sociology” (1982), propone le differenze di classe quale dato sociale più incisivo nel definire la cultura alimentare a partire, per la sua costituzione, dalla sostanziale diversità tra tradizione orale e codifiche scritte. Una società fortemente gerarchizzata, ulteriormente complicata da una letteratura tecnica a riguardo, avrà dato certamente vita ad una cucina più professionale ed elaborata. Le comunità tribali sarebbero invece rimaste legate ad un ambito del tutto familiare di incombenze domestiche esclusivamente femminili.
La memoria scritta ha arricchito la varietà dei sapori di un sapere precostituito, tesaurizzando le conoscenze in ricettari che ne affrontano le modalità manipolative. Eppure all’interno di una medesima società, si riproporrà un’ulteriore differenza, nei termini di un’appartenenza ad una classe elitaria piuttosto che ad una subalterna. In un caso si potrà far riferimento ad un gusto aristocratico, nell’altro più genericamente ad una necessità resa virtù. Invalicabili barriere comportamentali, a volte, possono convergere in certi luoghi od in particolari momenti storici per far scaturire nuove abitudini, o curiosità, in grado di produrre interazioni tra rigidità simboliche con stili di vita, in schemi e modalità di opportuno compromesso. Un ingrediente semplice, rustico, se destinato ad un palato fine, verrà accostato, nell’elaborazione culinaria a qualcosa d’altro, dal significato simbolico un po’ più solido. Piatti forti avranno per contorno i cavoli di origini contadine, oppure l’agliata, inventata per conservare più a lungo le pietanze, nel tentativo di lasciarne inalterati freschezza e sapore, e poi scoperta come garanzia di un gusto deciso e stuzzicante che addirittura le migliora.
Si impreziosisce la vivanda umile con spezie rare o la si sottopone ad una più sofisticata lavorazione. La trasversalità sociale deve venire mascherata accortamente, se non dalla semantica dei menù, da artifici specifici finalizzati alla differenziazione dei gusti: “Cucinala come vuoi, sempre cucuzza resta!” si rivela un’affermazione affrettata, che non tiene conto delle potenzialità gastronomiche di esaltare o nascondere i sapori. Oltre alla polpa, della zucca si mangiano i fiori, e persino i semi, adeguatamente salati. La zucca è un ortaggio molto versatile che si presta ad innumerevoli preparazioni di cucina: al forno, al vapore, nel risotto o nelle minestre, fritta nella pastella…
La sopravvivenza quotidiana verrà garantita dal minimo indispensabile a quietare lo spettro della fame, le cosiddette vivande “da riempimento”, sorrette dall’esigenza di soddisfare il primordiale bisogno viscerale: polente di cereali inferiori, minestre di legumi, patate, castagne… Con la farina del neccio si preparava il pane umile dei taglialegna e carbonai dell’Appennino tosco-emiliano. Il metato è quella struttura in pietra in cui vengono poste ad essiccare le castagne, per poi essere macinate a pietra. Con tale farina si prepara un tipo di polenta, il castagnaccio (una specie di pizza al forno ottenuta con farina di neccio, olio, noci e pinoli), i manafregoli (farina di neccio cotta con il latte), e dei dolci farciti di ricotta (necci, ciacci o patolle).
Per la loro genuinità e semplicità essenziale, quindi salutare, verranno pure ricercati: farro, avena, orzo e miglio. Per la curiosità della preparazione magari le fave infrante. Macco ed incapriata non sono altro che una sorta di polenta o di crema di quel legume. Ma l’interesse potrà essere suscitato banalmente da una certa intrinseca visibilità. Spesso gli ingredienti principali restano gli stessi e sono condivisi, mentre il gioco della trasformazione avviene secondo meccanismi di accostamento di contorni, in fase conclusiva, oppure di accumulo di ingredienti, o di preparazioni di base.
Alla base di numerose salse e minestre della cucina francese c’è un composto fluido (roux) ottenuto dalla fusione del burro in padella, a cui aggiungere, mescolando fino alla loro totale miscelazione, della farina in parti eguali di peso, onde evitare che l’eventuale carenza in grasso determini l’aggrumarsi del cereale. A seconda del tempo di cottura, si otterrà del colore variabile dal chiaro (roux bianco), usato come addensante, al colorito (roux biondo) o scuro (roux bruno), più adatto ad insaporire.
Il rapporto alimentazione e tempo è molto sentito in ogni contesto tradizionale, per un’indispensabile variazione delle pietanze, spesso suggerita dalla natura (quello che si mangia in inverno non è come quello che si mangia in estate…), ma pure per un significato calendariale attribuito alle diverse vivande (la torta Pasqualina non si mangia a Natale, il panettone non si serve a Carnevale…). Preparazione e consumo devono rispettare delle scadenze dettate dalla natura ed ancor più da influenze culturali. Il primo obiettivo è stato ovviamente quello della conservazione, onde avere la possibilità di dilazionare la disponibilità il più a lungo possibile, mantenendone la commestibilità.
Il calendario liturgico distingueva giorni “di magro”, in cui ci si limitava a servire verdure, condite con olio in sostituzione del lardo, o pesce al posto della carne. “Grasso” per antonomasia fu sempre considerato il carnevale, bruscamente interrotto dalla quaresima, mentre i dolciumi hanno contrassegnato le feste comandate che vanno onorate anche a tavola, dove l’alimento che le contraddistingue viene consumato per “devozione”, più che per il piacere del palato, ad esempio il “maccu” di fave a San Giuseppe.
“Se voi sapeste la divotione/ ch’ell’a nelle lasagnie di Natale,/ en le farrate ancor di Carnovale,/ nel cascio et huova della Sensione,/ nell’ocha d’Onnissanti et maccheroni/ del Giobia grasso et anco nel maiale/ de Santo Antonio et ne l’agnel pasquale…” (Simone Prudenzani: Saporetto)
L’agnello a Pasqua viene proposto dal racconto biblico, che però parla pure di pane azzimo e di erbe amare, osservate nella tradizione ebraica. Per la festa di Sant’Antonio Abate è d’uso sacrificarne l’animale rappresentativo, ma maccheroni, lasagne e “ziti”, come frittelle e panettoni, che sono vivande a base di farina, non dovrebbero essere strettamente legate all’economia stagionale, e quindi ce le aspetteremmo svincolate dalla ricorrenza. In tal caso, allora, a fare la differenza, molto probabilmente, dovrebbero intervenire le varietà di guarnizioni e farciture (canditi, uvetta sultanina, cannella ed altre spezie), che ne determineranno le particolarità, oppure a cambiare saranno soprattutto le forme (ad uovo, ad esempio, a Pasqua) di uno specifico prodotto, come il cioccolato, che con il caldo dei mesi estivi tende a deperire. Sovra ogni altra cosa a prevalere però sarà l’abitudine, l’imitazione degli altri, e ciò perché, in quel particolare periodo, “così fan tutti!”.
La cultura intrattiene un rapporto ambiguo con la natura del tempo e non potendolo dominare, si limita a contarlo. Eppure il ritmo scandisce lo sviluppo della vegetazione riportando inevitabilmente la dinamica alimentare alla stagionalità della produzione. Solo l’Eden conosce una eterna primavera di messi e di primizie. Il paese dell’abbondanza dell’immaginario popolare si concretizza nei versi delle canzoni popolari che fanno scorrere vino dalle fontane. Se risulta utopistico fermare il tempo, sembra tecnicamente plausibile prolungarlo, grazie alla differenziazione delle specie che si possono rendere feconde per buona parte dell’anno; in virtù della differenziazione delle risorse si avrà sempre qualcosa a disposizione da mettere sotto i denti. Diversi tempi di crescita, differenti periodi di raccolta facevano della coltivazione di segale, spelta, avena e miglio, frumento e orzo, una misura prudenziale di assicurazione contro le avversità. Le monoculture industriali sono state un’imposizione coloniale irriverente, culturalmente, politicamente scorrette ed economicamente discutibili.
La battaglia contro il tempo si combatte con efficaci metodi di conservazione per prolungare il periodo di utilizzo degli alimenti. Ecco la preferenza per cereali e legumi che richiedono un semplice immagazzinamento in locali asciutti. Isolare dall’aria per contrastare l’ossidazione può essere agevole con la frutta, che Aristotele consigliava di avvolgere in uno strato di argilla. Il calore ed il fumo essiccano. Il sale prosciuga e mantiene, insaporendo per di più. Il gusto per il salato contrassegna un modello alimentare dettato da una conservazione diversa da quella decisamente dolcificante affidata al miele o allo zucchero raffinato, più elitario. Anche aceto ed olio sembrano tra loro contrapporsi per la maggiore accessibilità del primo…
In ogni caso, il metodo di manipolazione, qualunque esso sia, modifica il sapore originario. La tecnica della fermentazione giunge al trionfo culturale sul processo naturale di putrefazione. Si deve a questa decisiva fase di civilizzazione delle popolazioni mediterranee la trasformazione dei derivati del latte in formaggi, di certo più memorabile dell’invenzione dei crauti per le genti nordiche. La cultura del bisogno ha aguzzato l’ingegno per fare un salto di qualità verso la soddisfazione che promuove il piacere. L’occasione, si potrebbe affermare, ha fatto dell’affamato un buongustaio.
Giuseppe M. S. IERACE
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