La data del calendario maya 12.19.19.17.19, corrispondente al solstizio d’inverno 2012, indica la fine del “tredicesimo” baktun, connessa, per alcuni, a un qualche terribile evento oppure, per altri, alla temuta superstizione riguardante il numero 13 (Triskaidekaphobia).
Dal punto di vista astrologico, al solstizio d’inverno del 1998, si è già verificato un allineamento galattico nella costellazione del Sagittario, senza però drammatiche conseguenze catastrofiche. Ma l’allarmata attesa provocata dalla data solstiziale profetizzata dai Maya rientra molto verosimilmente nell’atteggiamento mentale “primitivo” di quanti, associando giorni, numeri o ricorrenze, li considerano infausti, poiché da essi, per le peculiari circostanze che ci vengono preannunciate o richiamate alla memoria (per esempio: venerdì 13 ottobre 1307, fatale per i Templari, o martedì, 29 maggio 1453, giorno della caduta di Costantinopoli, oppure la diciassettesima legione, assieme alla diciottesima e alla diciannovesima, tutte sconfitte nel corso della battaglia di Teutoburgo del 9 d.c.), non ci si può aspettare alcunché di favorevole, a cominciare dall’apocalittica angoscia destata dal 666 (Hexakosioihexekontahexaphobia).
In buona parte dei paesi anglosassoni il Venerdì 13 risulta particolarmente temibile, e si parla di Paraskevidekatriaphobia; nei paesi di origine greco-latina, viene invece ritenuto decisamente apportatore di sventura il 17 (Eptacaidecafobia), visto che il numero 13, tranne alcuni contesti, come lo stare a tavola, sarebbe addirittura presuntivamente scaramantico. E lo stesso vale nelle regioni del Tibet e della Cina, ove compare addirittura quale simbolo di prosperità.
Il pregiudizio nei confronti del giorno di venerdì, come nel sedersi a mangiare in tredici (soprattutto quando ciò si concretizza per l’arrivo inatteso di qualcuno che si aggiunge a dodici, e prendesse il posto del traditore per eccellenza), sarebbe ricollegato alla Settimana Santa cristiana, in cui di venerdì si dice sia morto il Redentore e in 13 furono a consumare l’ultima cena. In Grecia, Romania, Spagna e altri paesi latinoamericani a essere considerato sfortunato è il martedì e anche in Italia, il martedì non è di buon auspicio (“Né di Venere né di Marte né ci si sposa né si parte“).
Arithmomania
Il calendario gregoriano si ripete precisamente ogni 400 anni, per cui il numero dei giorni di un ciclo di 400 anni corrisponde alla formula: 100 (3 x 365 + 366) – 3 = 146097, che essendo divisibile per sette, contiene un numero esatto di settimane: 20871. Se divisibile per 4, e non per 100, oppure se divisibile per 400, un anno va considerato bisestile, e quindi infausto: “Anno bisesto, anno funesto”.
Gli astrologi poterono ipotizzare che, come la luna regola in modo ciclico le maree, così, ogni quattro anni, le “altre stelle” avrebbero potuto arrecare grave nocumento alla natura del nostro pianeta e alla storia dei suoi occupanti. Ogni rottura della normalità, come la diversità nella ripetizione ciclica degli anni, crea una sorta di condizionamento ansiogeno. In aggiunta, va considerato anche il fatto che il giorno in più viene ad aggregarsi al mese di febbraio, l’ultimo mese dell’anno nel calendario romano e pertanto, già solo per questo, considerato il più esiziale.
Voler sapere, però, con quale frequenza (688 ca.) ricorre In quattro secoli, il tredicesimo di un mese nel giorno di venerdì è triskaidekamania!
A metà strada tra anancasmo e soteria, l’aritmomania, rientra nell’umana volontà di costruire metodi per sottoporre a controllo tutti gli aspetti dell’agire, in base a un calcolo che ne renda plausibilmente conto. Eppure, le vere origini della superstizione nei confronti dei numeri 13 o 17 non sono note con certezza: il fatto più rilevante potrebbe venire fornito dall’essere il 13 un numero “primo”, successore di quell’altamente composito dodici, positivo nelle tante culture patriarcali, i cui calendari (gregoriano e islamico) contengono dodici mesi l’anno, mentre i calendari lunisolari, che tengono conto del ciclo metonico (corrispondenza tra 19 anni solari e 235 lunazioni), alternano anni di dodici mesi con altri di 13 (ebraico, cinese, celtico). Un insieme di 12 si può infatti dividere in parti uguali in molti modi (per due, tre, quattro o sei); invece il “tredicesimo” elemento che si aggiunga a questo insieme ne impedisce ogni suddivisione.
Tra gli arcani maggiori dei tarocchi, il 13 è associato alla carta della Morte, che però può essere interpretata come segno di fine di un ciclo e inizio di uno nuovo. In alcune parti dell’ Afghanistan la maledizione è accoppiata al 39 (tre volte tredici), distintivo di vergogna.
Il numero 17 era aborrito dai pitagorici, in quanto situato tra il 16 e il 18, numeri “perfetti” nella loro rappresentazione quadrilatera (4×4 e 3×6). Senza dimenticare poi che, nel sistema di numerazione romano, “XVII” è anagramma di quanto si era soliti scrivere sulle tombe dei defunti: “VIXI” (“ho vissuto”, cioè ora… “sono morto”). Nondimeno, nella Cabbala ebraica, il 17 diventa propizio, se risultato dalla somma del valore numerico delle lettere ebraiche têt (9) + waw (6) + bêth (2), che lette nell’ordine danno la parola tôv “buono, bene”.
Simili avversioni numerologiche, per il 4 (tetraphobia), e le cifre composte con tale carattere (14, 24, 34, 41 etc.), in Cina, Giappone, o Corea, comportano delle rigide “censure”, dovute molto probabilmente all’omofonia nella pronuncia del numero quattro (sì, shi e sa, rispettivamente), con la parola “morte”. Un pregiudizio simile esiste pure in Italia, dove si dice che il “segno” del quattro raffiguri una bara vuota (“il mistero del niente e del tutto“). Nei Tarocchi, il 4 rovesciato costituisce l’Appeso della dodicesima Lama, nella smorfia napoletana è il maiale, mentre per la cabala genovese rappresenta stelle e comete.
La “Rivelazione” calendariale
Uno dei contributi della psicoanalisi all’argomento in questione si deve a Isador Henry Coriat (1875-1943), che coniò il termine triskaidekaphobia. Altri psichiatri hanno affastellato un po’ tutte le concezioni metafisiche, prive di connessioni alla realtà, in proiezioni di contenuti psichici, similmente alle illusioni, negando quindi sostanzialmente una qualche differenza fra fede, superstizione e idee deliranti. Ma, anche se, a dir del vero, i criteri diagnostici per le malattie mentali sono stati sempre sufficientemente elaborati, tanto da non prestarsi ad abusi di sorta, il problema viene relegato alla concessa oscillazione di quel “doppio binario” che permette di evadere nell’immaginazione e nella fantasia, pur rimanendo, per altri versi, stabilmente ancorati alla crudezza del ragionamento concreto.
A voler essere pignoli, davvero palindroma sarebbe stata la data del 21 febbraio: 21022012, ma, si sa, i vaticinatori sono sempre, per loro stessa definizione, un po’ approssimativi, tanto che tutti i pronostici vengono dettatati con modalità appunto sibilline. Ma ciò poco importa, anzi per nulla, perché i Maya non osservavano certo il “nostro” sistema di computo calendariale di giorni mesi e anni, che oltre-oceano, per esempio, viene invertito in mesi e giorni. Esso risale al 1582, meno di un secolo dopo dalla “scoperta delle Americhe” (12 ottobre 1492), allorquando Gregorio XIII lo introdusse su proposta di Aloysius Lilius (1510- 1574), facendolo entrare in vigore il 15 ottobre di quello stesso anno, in modo da posticipare di dieci giorni il calcolo del precedente calendario giuliano.
La tradizione occidentale vanta delle rivelazioni apocalittiche, prevalentemente di tipo gnostico o cristiano, come pure delle operazioni qabbalistiche ebraiche impostate sugli insegnamenti della Ghematria, in base ai quali si individuano degli occulti significati facendo riferimento ai valori numerici delle singole lettere che compongono determinate parole, e viceversa. La parola “messia”, in ebraico, si scrive con la Mem, che vale 40, Shin (300), Yod (10) e Cheth (8), per un totale di 358. Un tale numero si ottiene dalla somma delle lettere che in ebraico formano la parola serpente: Nun uguale a 50, di nuovo Cheth (8) e Shin (300). Se, per i cabalisti, v’è una connessione esoterica tra il rettile e l’Unto, secondo l’interpretazione gnostica, il “vero” Crocifisso si rivelerebbe proprio quel colubro del Paradiso terrestre che, appeso all’albero della conoscenza, ne concede il frutto.
Nell’Apocalisse di Giovanni si invita a questo tipo di ipotetiche congetture: “chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è 666”. In alcuni manoscritti, più antichi, il numero viene trascritto seguendo l’arcaica formula alfabetica greca: Chi, Xi, Digamma, oppure in lettere hexakòsioi hexekonta héx.
In altri codici, risalenti al III secolo, la foormula indicata dal Libro della Rivelazione potrebbe essere letta 616. Stravolgendo le regole dell’ermeneutica, ci furono quanti attribuirono il valore numerico alla persona fisica di Nerone, il cui nome latino translitterato in ebraico, NRV QSR (Nero Caesar) con Nun (50), Resh (200), Vau (6), Qof (100), Samech (60), e di nuovo Resh (200), dà il totale 616, che è anche quanto risulta dall’addizione delle lettere del nome del dio Attis nella declinazione latina al dativo: Attei. Un’altra variante proposta corrisponde invece a 606, ottenuto dalla somma di Gaius Caesar, ovvero Caligola. Nella forma alfanumerica latina DCLXVI, la bestia verrebbe indicata dall’acronimo “Domitianus Caesar Legatos Xristi Viliter Interfecit”, che significa: Domiziano Imperatore emissari di Cristo vilmente sterminò. Invertendo le maiuscole latine, Apringius anteponeva la “I” e posponeva la “X”, per ottenere DICLUX, il nome di Diocleziano. Sempre in riferimento all’Impero romano, Ireneo l’identificava nelle lettere greche di Teitian (riconducibile a Tito, oppure ai Titani “ribelli” nei confronti degli dei olimpici, ovvero al Titano fratello maggiore di Saturno, e precursore della manifestazione “apollinea”, cioè l’imperatore che deteneva anche il potere spirituale), Euanthos, o Lateinos, con un rimando persino all’istituzione ecclesiastica romana. Il vescovo teologo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) aveva pensato a Flavius Claudius Iulianus, per il quale Cirillo, il mandante dell’omicidio di Ipazia, coniò l’epiteto di ‘Apostata‘. Nel senso della defezione, abbandono, del verbo apostatare, Primàsio, vescovo di Adrumeto, si soffermò su Antemos (Anti Timos, contrario all’onore), o Arnoime, da arneisthai (rifiuto).
La Torre di Babele
Prendendo alla lettera Apocalisse 13: 11- 18 (“Poi vidi un’altra bestia, che saliva dalla terra, e avea due corna come quelle d’un agnello, ma parlava come un dragone…”) vi si potrebbe rintracciare un’allusione al tradimento di Giuseppe Flavio. Mentre l’autore, tra l’altro, dell’Histoire Critique de La Litterature Prophetique Des Hebreux (1881), Charles Bruston, riteneva che non si dovesse cercare un nome necessariamente latino, ma piuttosto uno babilonese, come quello del fondatore dell’impero di Babilonia, Nimrod ben Kush, che significa “ribelle” (secondo Genesi 10: 08) figlio di Kush, il quale, nella letteratura rabbinica, getta Abramo in una fornace ardente per il rifiuto di adorare gli idoli (Gen R 38:13) e, negli scritti profetici dell’Antico Testamento, appare come il principale avversario del popolo di Dio e di Dio stesso.
Nimrod sarebbe stato conosciuto in Egitto quale re Narmer, poi divinizzato come Osiride, Signore degli Inferi. Per i Sumeri, sarebbe stato il grande Enmerkar che avrebbe tentato di costruire, nell’antica città di Eridu, la “Babilonia” dello storico Berossos, la Torre di Babele, (in accadico “porta del cielo”), la cui rovina viene ricordata nel XVI arcano dei Tarocchi. Il suffisso “kar” di quel nome sumero significa “cacciatore” e così “Enmer-kar”, in realtà, sarebbe stato semplicemente “Enmer il Cacciatore”, così come Nimrod viene indicato in Genesi 10, appunto, il “potente cacciatore”. Nella lista dei re sumeri compare “colui che costruì Uruk”, alla stessa stregua di Nimrod che, in Genesi 10:10, viene definito regnante su Babel (Eridu) ed Erech (Uruk) “in terra di Sennaar”. Dopo la morte, è diventato Enmerkar, onorato nel mito con le sembianze dell’eroe semi-divino Ninurta, il cui culto infine si sarebbe evoluto in quello di Marduk, “religione di stato” dopo le conquiste e le innovazioni, anche in materia devozionale, da parte del sesto re di Babilonia, Hammurabi (in accadico Khammurabi, dall’amorreo Ammurapi, cioè “Ammu
guarisce“).
Il sistema religioso impostato a quel tempo, e ricordato in età relativamente più recente dalla XVI lama dei Tarocchi, si sarebbe basato principalmente sull’adorazione degli angeli “caduti”, i quali si sarebbero insubordinati, da cui l’appellativo di “ribelle”, Nimrod, proprio nell’atto di edificare la Torre di Babele. In quell’occasione, avvenne che le nazioni della Terra furono divise “in base al numero dei figli di Dio” (Deuteronomio 32:8) e delle lingue diversamente loro attribuite: “Da essi vennero i popoli sparsi nelle isole delle nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la propria lingua, secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni” (Genesi 10:5). Si sarebbe trattato, non soltanto di una suddivisione linguistica del genere umano, ma anche di una sorta di “lottizzazione” spirituale. 70 sono i nomi delle nazioni indicati nel decimo capitolo di Genesi che han dato luogo a quel significativo simbolo del numero 70 nella tradizione ebraica. Durante la festa di Sukkoth, la nazione di Israele espiava infatti i peccati dei Gentili con il sacrificio di 70 tori.
Satana si vantava di avere autorità su tutti i regni del mondo che gli erano stati “consegnati” (Luca 4:6), proprio grazie al catastrofico evento della Torre di Babele. E Gesù si riferisce a Satana come al “principe di questo mondo” (Giovanni 12:31, 14:30, 16:11), predicando di conseguenza l’avvento del Regno di Dio, in contrapposizione quindi alle “70” nazioni dei Gentili, costituenti l’antagonista regno mondano governato da Satana. In Luca 9: 2, insegna ai discepoli ad “annunciare il regno di Dio”, nominando subito i 70 che sarebbero dovuti divenire gli evangelizzatori (Luca 10). Dopo di che, proclama di aver visto Satana “caduto come un fulmine dal cielo“, quale folgore celeste sulla “casa del Diavolo” (la Torre).
L’eretica tradizione mistica ebraica della Kabbalah spiega che il numero più astrologicamente e matematicamente “conveniente” sarebbe quello di 72 (60+12), ottenuto, con l’aggiunta alle 70 nazioni dei Gentili, di “Israele” e “Satana”. I primi cabalisti, del resto, erano stati fortemente influenzati dal paganesimo egiziano e dallo gnosticismo e, all’interno di ciascuna di queste tradizioni, il numero 72 si ritrova in una preferita posizione di maggior privilegio, sia perché divisibile per dodici, sia per essere a sua volta divisore di 360. 72 sono i geni (o angeli) così suddivisi: 18 trasmettono i loro poteri dall’elemento «fuoco», 18 dall’«aria», 18 dalla «terra» e 18 dall’«acqua».
L’allontanamento dal principio
La letteratura ugaritica dimostra come i Cananei ritenessero che il dio El, il maggiore del loro Pantheon, avesse un consiglio esattamente di 70 figli divini. Ozioso e inattivo, El avrebbe abdicato alla sua autorità terrena in favore dei suoi figli, capeggiati da Baal. Nell’epica conosciuta come il ciclo di Baal questa divinità appare semplicemente quale forma cananea del babilonese Marduk. Nell’esaminare, allora, l’evoluzione della mitologia da quella sumera, babilonese, cananea, alle forme elleniche, ciò che più risalta è proprio questo particolare “processo evolutivo”, quasi come una specie di “stratificazione generazionale”, che ha allontanato il genere umano da qualsiasi tipo di connessione diretta a un principio delle origini, trascendente, onnipotente, identificabile come Creatore-persona, caratterialmente attento alla propria creatura.
Anche nel mito mesopotamico il “celeste” Anu è ozioso, per cui i Sumeri sono separati da Anu e governati dai combattivi fratelli Enlil ed Enki. Nel poema epico della mitologia babilonese, noto col titolo Enûma Eliš (“Quando in alto”, dalle prime due parole di apertura del poema), Marduk figlio di Enki, viene installato a presiedere il “consiglio degli dei” e del mondo. Come nel mito greco, Marduk sarebbe stato identificato con Zeus, il cui padre Kronos, era figlio di Ouranos, la distaccata divinità lontanissima, tanto da poter essere considerata “assente”, che rappresentava “il cielo”. A un certo momento di questo “processo evolutivo” della mitologia greca, la scena religiosa stava per essere predisposta a un altro “salto generazionale” che avrebbe visto, molto probabilmente, Apollo, quale ”titano” ribelle, rovesciare il padre Zeus, proprio come Zeus aveva a suo tempo detronizzato Kronos, e Kronos a sua volta aveva esonerato Urano.
Nella tradizione egizia il numero 70 e il culto di Nimrod vennero riproposti nel mito di Osiride. La costellazione di Orione, il “Grande Cacciatore” del cielo, è stata interpretata quale rappresentazione dello spirito di Osiride, e la sua scomparsa dal cielo notturno, durante i mesi estivi, per un periodo di 70 giorni, venne inteso come il periodo di tempo trascorso tra la morte del dio e la sua “resurrezione”.
Orione era conosciuto quale costellazione Sah, che è anche la parola egiziana per “mamma”, così come termine appropriato per “spirito” o “anima”. Occorre doverosamente rilevare che questa ben strana “rinascita”, non era affatto una riapparizione nel mondo dei vivi, bensì una palingenetica assunzione di ruolo, in una posizione di sovranità, nel regno dei morti, dove Osiride divenne quindi il “Signore degli Inferi”.
Secondo la tradizione egiziana, Osiride era il monarca prima di essere mummificato, pratica, per lo meno eccentrica, copiata però in seguito, e per quasi tremila anni, dai faraoni che gli sono succeduti. E pure nel processo di mummificazione, rigorosamente controllato e altamente ritualizzato, c’è un periodo di attesa, tra il processo di imbalsamazione e l’effettiva sepoltura della mummia nel suo sepolcro, esattamente di 70 giorni. Ciononostante, la tradizione più “provocatoria”, e suggestiva insieme, associata con Osiride, riguarda piuttosto la modalità della sua morte. Secondo Plutarco, Osiride fu ucciso a seguito di una grande cospirazione che coinvolse suo fratello Seth, la regina d’Etiopia, e 70 altri congiurati (e torniamo a 72). Diodoro Siculo rivela che gli assassini di Osiride erano i Titani, divinità alleate del greco Kronos, il sumero Enki, e successivamente identificabile con Satana.
La scena del “divino consiglio”, in cui Dio ha decretato la distruzione di Nimrod e il suo impero globale, consentì la “divisione delle nazioni” nelle mani degli angeli caduti al momento dell’evento epocale della Torre di Babele. Titani o “angeli” caduti, allo scopo di compiere il programma di dividere l’umanità dando alle nazioni diverse lingue, questi 70 o 72 parteciparono alla cospirazione che decretò l’assassinio di Nimrod/Osiride.
Se si esamina il simbolo apocalittico delle 7 teste, Nimrod compare come primo e ultimo, a conclusione di un’epoca, quella governata dagli angeli caduti, mentre, a chiudere il circolo a cui andrebbe collegata la ricongiunzione dell’alfa e dell’omega, sarà definitivamente il secondo avvento del Cristo in contrasto alla sua Antitesi.
Cristo, Anti-Cristo… dopo Cristo
Quali figure di Anticristo furono di volta in volta proposti Gianserico, Attila, Maometto, Bonifacio VIII, Ignazio di Loyola, Lutero, Luigi XIV. Per Tolstoi, in Guerra e Pace, si trattava di Napoleone, ma, in seguito alla Shoa, si presunse fosse Hitler. Altri pensarono alla profetessa della Chiesa avventista del Settimo Giorno, Ellen Gold White. E ci fu chi, come il rabbino David Berman, ha creduto che il numero premonitore si riferisse al nome medesimo di Gesù Cristo, nella sua trascrizione in lettere ebraiche. Valentin Weigel, nel XVI secolo, ha riflettuto sul fatto che «Gesù stesso sia l’uomo, il suo nome è la Parola di Dio, la sua potenza infinita; è la bestia e la sua cifra è 666».
Andrea di Cesarea, nel VI secolo, prevedendo che solo ‘il tempo lo rivelerà‘, suggeriva ben sette nominativi da attribuire all’Avversario, tra cui “lamptùetes” in greco, o Benedictus in latino, cosicché Martin Lutero suppose si trattasse di un pontefice di tal nome, il duodecimo forse, il quale condannò al rogo i predicatori francescani patrocinatori della povertà per il clero. I protestanti fanno allusione a ogni pontefice che si presenta quale “Vicarius filii Dei”, nelle cui lettere latine (VICXLD) si nasconde l’ineluttabile DCLXVI.
Rudolf Steiner interpretava il numero della Bestia (Samech 60, Vau 6, Resh 200, Tau 400) quale nome cabalistico del demone solare Surath (SURT), dal cui anagramma si ottiene STUR, traslitterazione ebraica di Saturno, con ammiccante riferimento pure al Sator del celeberrimo palindromo in forma di quadrato magico (Sator arepo tenet opera rotas).
L’arcaico nome greco del numero sei, hex, in inglese significa stregoneria, incantesimo, fascino, analogamente al francese hexa, o al tedesco Hexspruch. I numeri 6 e 7 incominciano per s non solo in italiano, latino, inglese, tedesco, russo, ma anche in sanscrito, cui corrisponde in greco h, o lo spirito aspro: sex hex; septem hepta; semicirculo hemicyclo; sede (sedia), hedra, poly-hedro = solido con molte sedi (facce); super hyper-bola; sopore somno, hypno-tismo. In sanscrito e persiano shash, in latino sexis, dal greco hexis, indica uno stato, una condizione, da cui le voci latine Sexus, secus (secare), dal greco tèkos, da cui texere, tessere, che ci rendono l’immagine di cose che restano sì differenziate pur intrecciandosi, come il maschio e la femmina, la Bestia 666, l’Oltre uomo, e Babalon, o porta del Sole, Superdonna. Chi riesce a riconoscere ciò che gli manca sarà disposto a dare tutto se stesso per completarsi!
“Io sono Horus, il figlio primogenito di Osiride, che dimora nel mio occhio destro. – si legge, non a caso, nel capitolo LXVI del Libro egiziano dei Morti – Giungo dal cielo e rimetto Maat (la dea della verità e della Giustizia) nell’occhio (sinistro) di Ra (il dio Sole)”. Nel presagire il passaggio dall’eone cristico, patriarcale, o di Osiride, all’era di volontà di potenza, forza e fuoco, di Horus, il figlio “incoronato”, ma privo dell’occhio che consente di vedere l’unione degli opposti, – in attesa dell’eone successivo, della Verità e della Giustizia, Maat, che ridona la “vera” vista all’Horus cieco del “terzo” occhio (archetipo dell’iniziato costretto ad andare avanti senza guardarsi indietro, come Orfeo agli Inferi) -, gli gnostici presupponevano tutto un susseguirsi di cicli di rinnovamento, attribuendo a questi “trapassi” quei significati escatologici che solitamente si assegnano alle cose “ultime”.
Chiliasmo
Nella cultura giudaica, l’idea di un momento “di là da venire”, che si presenti come “fine“, nel senso di termine, giudizio finalizzato alla salvezza, non si configura quale entità cronologica, bensì rappresenta una conclusione, sia essa temuta o sperata. E’ sostanzialmente questa la fondamentale differenza con il concetto millenaristico della visione cristiana, la collocazione cioè in un contesto semantico metastorico ed egualmente “storico”, e pertanto, in qualche modo, “databile”, quindi vera e propria entità cronologica.
La citazione dalla Seconda lettera di Pietro (3,8: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo”) riprende chiaramente il Salmo 89, 4: “Ai tuoi occhi, mille anni/ sono come il giorno di ieri che è passato,/ come un turno di veglia nella notte”. Nessun accenno dunque a date prestabilite.
Sei versetti del 20° capitolo dell’Apocalisse giovannea costituiscono l’origine della fede in un preciso momento “critico” che viene “plasmato” a partire dal secondo (“Ed egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il Diavolo e Satana, e lo legò per mille anni…”), confermato al settimo, ma non risolto nell’ottavo (“E quando i mille anni saranno compiti, Satana sarà sciolto dalla sua prigione e uscirà per sedurre le nazioni che sono ai quattro canti della terra, Gog e Magog, per adunarle alla battaglia: il loro numero è come la rena del mare”). Un’era nuova viene ricollegata al “temporaneo” trionfo di Cristo sulle forze del Maligno (Ap. 20, 3: “… lo gettò nell’abisso che chiuse e suggellò sopra di lui onde non seducesse più le nazioni finché fossero compiti i mille anni; dopo di che egli ha da essere sciolto per un po’ di tempo”).
Grazie al “provvisorio” imprigionamento del Diavolo, regnerà la pace per “mille anni”. E dopo?
La credenza nell’avvento di una “nuova” alleanza tra Dio e gli uomini, che prende il nome dal greco “chilo”, mille, ossia chiliasmo, auspica un reale rinnovamento di questo mondo, ma non si capisce bene se sarebbe dovuta avvenire “dopo” mille anni o se durerà altrettanto (e poi?).
Ispirandosi all’interpretazione letterale del primo capitolo della Genesi, il predeterminismo della dottrina giudaica, in base alla concezione storiosofica della durata del mondo in “sei” giorni, ognuno di mille anni, si sarebbe riferito a una specie di “settimana cosmica”, o hexaemeron, più un settimo giorno, heptaemeron, altrettanto lungo, per cui si è parlato di “settemillenarismo” o millenarismo “carnale”, proprio perché solo durante il settimo e ultimo millennio avverrebbe l’auspicato avvento messianico, con tutto ciò che a esso verrebbe connesso, a partire dal trionfo di Israele, per quanto riguarda abbondanza, prosperità e godimento di tutti i benefici temporali. Questi ultimi vengono invece esclusi dalla successiva “ri-formulazione” cristiana, che, in opposizione, assume il distintivo di millenarismo “spirituale”.
Il regno di Cristo in gloria si attuerebbe in un periodo delimitato dalla resurrezione dei giusti e da quella dei dannati, allorquando infine si avrebbe il giudizio universale (millenarismo antico). Una più recente rappresentazione della nuova venuta di Cristo l’attende prima (premillenarismo) dello scadere del millennio (parusia intermedia), mentre un’altra ipotesi pone fine ai mille anni con un’estrema, terminale parusia, che così assume carattere definitivamente escatologico (postmillenarismo).
La teoria della “Quinta” Monarchia, che diede vita al movimento in appoggio alla rivolta di Cromwell in Inghilterra, sarebbe una lettura in chiave millenaristica del capitolo VII del Libro di Daniele, ai versetti 17 e 18: “… quattro re sorgeranno dalla terra; ma i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli“.
I Davidiani della branca avventista ritengono che la Chiesa il cui “raccolto” serve all’evangelizzazione, sarà purificata attraverso la rimozione della “zizzania”. Dopo tale purificazione i santi faranno ritorno alla terra promessa, dove, sul Monte Sion, l’Agnello di Dio, “qui tollit peccata mundi”, stabilirà il suo regno (la “Gerusalemme Celeste”), del quale il piccolo gregge dei 144.000 darà testimonianza al mondo prima che Cristo appaia sulle nubi del cielo ad accogliere la grande schiera dei risorti. Requisito necessario di purezza è l’essere vegetariani, come pure il rispetto per un’agricoltura ecosostenibile e strettamente biologica.
Jubilaeum
Il riposo della terra e la restituzione di essa agli antichi proprietari, insieme con la liberazione degli schiavi e la remissione dei debiti, rientrava, infatti, per gli ebrei, nella celebrazione giubilare di una grande riconciliazione, coincidente con la festa dello Yom Kippur. Al termine di sette “settimane” di anni, cioè sette volte sette, quindi quarantanove (Levitico 25, 8), si faceva ricorrere un anno particolare, un anno “sabbatico”.
“Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé. Né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi”. Tre parole ebraiche, Jobel (ariete), Jobil (richiamo) e Jobal (remissione), stanno alle origini del Jubilaeum, in quanto, ogni quarantanove anni, il popolo ebraico viene incoraggiato a far suonare il corno d’ariete (Jobel) per richiamare (Jobil) tutti, proclamando loro la remissione (Jobal), col dichiarare “santo” il cinquantesimo anno.
Shavuot
Cinquanta sono i giorni che separano il “secondo” della pasqua ebraica (uscita dall’Egitto, Tefillà zeman cherutenu, ovvero tempo della nostra libertà) da Shavuot (zeman matan toratenu, tempo del dono della nostra Torà).
Secondo il dettato della Torah, la seconda sera di Pesach, si doveva fare un’offerta delle primizie del raccolto, offerta che doveva essere ripetuta sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot. La festa di Shavuot è chiamata ‘atzeret (chiusura, conclusione), analogamente al giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot, Sheminì ‘atzeret.
In un ambiguo gioco, insieme di rivelazione e nascondimento, “Sono chi sono, chi ero e chi sarò”, neI libro di Shemot (Esodo 3,12) sancisce: “Io sarò con te, e la riprova che Io ti ho dato l’incarico, sarà che una volta avvenuta l’uscita del popolo dall’Egitto, questi adorerà il Signore su questo monte“. La parola ta’avdun (il verbo adorare coniugato al futuro). in più, contiene una lettera nun, il cui valore numerico è proprio 50, giusto quanti sono i giorni che separano dalla festa delle settimane (“sette” precisamente), a cui gli ebrei di lingua greca diedero il nome di pentecoste, dato che cade appunto 50 giorni dopo la pasqua, ma, escludendo il giorno stesso di Pesach, il conteggio è di 49 (7 x 7).
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica, le cui principali sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali. Cosicché l’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione, con particolare riferimento alla storia stessa degli ebrei, anche se appaiono corrispondere ad altrettante aspirazioni utopiche doviziosamente suscettibili di interpretazione in chiave psicoanalitica.
Chilam Balam
Come il libro dell’Esodo, i “Chilam Balam”, in lingua yucateca, mescolano tradizioni locali con vicende storiche, organizzate su di un sistema calendariale di unità “ricorrenti” in una sorta di “eterno ritorno”. I katun 4 ahau, quelli in cui si prevedono sconvolgimenti d’ogni tipo, per esempio, si ripropongono ogni 256 anni. Il tempo, del resto, sarebbe solamente una delle tante “variabili” che influenzano la vita sulla terra, visto che i viventi, soprattutto della specie umana, partecipano in maniera determinante e invasiva allo svolgimento, non tanto della conservazione, quanto purtroppo del degrado del mondo.
Interpretati secondo una visione utopica, rivendicativa, o “millenarista”, i “Chilam Balam” inducono a pensare all’imminente compiersi di una “profezia”, a conclusione di un ciclo, in cui la ruota del tempo, raffigurata nella decima lama dei Tarocchi come “Ruota della fortuna”, si ribalti “in modo che gli ultimi divengano primi” (Mt 20, 16), poiché “il regno dei cieli è simile a” quel “padrone” che vuole dimostrarsi “buono” con tutti allo stesso modo, anche se con modalità, per alcuni, generose e, per altri, discutibili.
Astrologia giudiziale
La dottrina astrologica, intesa quale possibilità di svelare il futuro, propone “giudizi”, espressi dalla situazione astrale su tematiche terrene, e pertanto assume l’epiteto di “giudiziale”. Non si rivolge agli individui, come l’astrologia genetliaca, od oroscopica, bensì a intere popolazioni, regni, o monarchi, basandosi prevalentemente su elementi “climatici”, quali temporali, tuoni, nubi, aloni della luna, invisibilità o apparizioni di pianeti, eclissi, terremoti . Sarebbe più vicina allo sforzo “sperimentale” che si compie nell’integrare le forze intuitive, anche se nei limiti dovuti, e pertanto essa sfugge a quelle definizioni moderne tese a definirla, in maniera chiara e univoca, in un qualsiasi genere di attività mentale controllabile.
Dodici costellazioni allineate sulla fascia che si snoda su tutta la sfera celeste, vengono individuate come zodiaco, ovvero cerchio di figure animali, che per gli occidentali vanno dall’Ariete ai Pesci, mentre per i Maya, da mezza serqua, diviene una tredicina corrispondente a Giaguaro, Balam (7 marzo-3 aprile), Volpe, Fez (4 aprile- 1 maggio), Serpente, Kan (2 maggio – 29 maggio), Scoiattolo, Tsub (30 maggio- 26 giugno), Tartaruga, Aak (27 giugno- 25 luglio), Pipistrello, Tzootz (26 luglio- 22 agosto), Scorpione, Dzek (23 agosto- 19 settembre), Cervo, Keh (20 settembre- 17 ottobre), Civetta, Moan (18 ottobre- 14 novembre), Pavone, Kutz (15 novembre- 12 dicembre), Lucertola, Kibray (13 dicembre- 9 gennaio), Scimmia, Batz Kimil (10 gennaio- 6 febbraio), Falco, Coz (7 febbraio- 6 marzo).
Uno dei quattro codici manoscritti maya pervenutici, il Codex dresdensis, tra le altre osservazioni celesti, contiene il calcolo delle eclissi di Sole e del moto di Venere, nonché della rivoluzione sinodica di quest’ultimo pianeta (rispetto al Sole e alla Terra). In una raffigurazione riporta l’immagine della Terra inglobata dall’ombra di un drago, il quale, con il liquido che gli fuoriesce dalle fauci, procura un’inondazione cosmica, a mo’ di “diluvio universale”. I Maya svilupparono la credenza che, nei periodi di oscurità del pianeta più luminoso, il serpente piumato, Kukulkàn, proseguisse il suo percorso negli inferi, e da questo si sentivano in grado di dedurre il momento più opportuno per intraprendere spedizioni belliche.
12.19.19.17.19
Prima dell’attuale calendario sono stati in vigore altri sistemi di computo degli anni, mesi e giorni, per esempio, a cominciare: “ab Urbe condita”. Pierluigi Baima Bollone, in “21/12/2012: le origini della profezia Maya” (Priuli & Verlucca, Scarmagno 2012) ci rammenta che il sistema numerale di quella civiltà era a base, non decimale, bensì vigesimale, impostato cioè sulla totalità delle dita delle mani e dei piedi. Le acquisizioni delle osservazioni del cielo da parte dei Maya vennero utilizzate oltre che con finalità di divinazione astrologica, anche e soprattutto per scopi pratici, quale l’appropriatezza delle lavorazioni in agricoltura, un po’ allora come il celeberrimo Barbanera.
Nella misurazione del tempo poi elaborarono più di un calendario. Il più antico, di uso forse prettamente religioso, fu chiamato tzolkin, e ha una durata di 260 giorni, suddivisi in venti segmenti di tredici. Avrebbe un significato molto verosimilmente rituale, ma si adatta bene anche ad alcuni cicli agricoli tipicamente meso-americani, come quello di certe varietà di Zea mays, della durata di circa la metà di 260 giorni.
Il calendario haab, relativamente più recente, si giorni ne dura 365, suddivisi in 18 mesi di venti, a cui si aggiunge un segmento accessorio, onde prevenire lo sfasamento rispetto alla consueta successione delle stagioni, che lo invaliderebbe a fini pratici, prevalentemente agricoli. I Maya erano soliti utilizzare entrambi e nelle iscrizioni viene riportata la doppia indicazione che li combina insieme in cicli di 52 anni (18980 giorni).
Il terzo calendario Maya è abbastanza più complicato, poiché ripristina il Grande e Lungo Computo (un ciclo di 5000 anni) adottato dagli Olmechi, di cui si pensa siano i discendenti, che tiene attentamente in considerazione la precessione degli equinozi, il percorso compiuto dal sistema solare all’interno dalla via lattea, la distanza della Terra dal Sole, le posizioni reciproche di questi ultimi tra loro e il centro della galassia. Sembra che, in età coloniale, soltanto gli Ykatek conservassero i cicli di 20 tun, ossia 7200 giorni (un katun). Si tratterebbe di un calendario troppo impegnativo per la durata media della vita, nel presuntuoso intento sia di calcolare le epoche delle origini, sia di collocare al giusto posto avvenimenti trascorsi, ma destinati a ripresentarsi ciclicamente, in modo da poterli prevedere nel futuro. Dal computo di tale calendario potrebbe dipendere quindi l’emissione di pronostici, la legittimazione o meno di un sovrano, la fissazione di date per le festività.
L’indicazione numerica progressiva lineare, a base vigesimale, dei giorni parte dal 13 agosto 3114 a. C. e termina con il solstizio d’inverno 2012, quale fine dell’ultimo di quattro cicli, i cui primi tre, secondo il Popol Vuh, (ovvero “Libro della comunità“, ma letteralmente “Libro della stuoia”, che raccoglie miti e leggende di vari gruppi etnici di uno dei regni maya in Guatemala, la terra Quiché), sarebbero stati interrotti per intervento divino. Ogni 5 anni (tun), di 18 mesi (uninal), di 20 giorni (kin), il monarca è tenuto a effettuare un sacrificio di sangue. 20 katun fanno un baktun di 400 anni. La data si esprime quindi con ben cinque cifre, sovrapposte verticalmente, ove indicare in successione baktun, katun, tun, uninal e kin, e riporto a carattere vigesimale, tranne che per la cifra del tun, corrispondente a 18 periodi di 20 kin. Cosicché il solstizio d’inverno 2012, per questo calendario ciclico, verrebbe ascritto al 12.19.19.17.19, ovvero cioè, più semplicemente, alla fine del tredicesimo baktun.
In tema di numerologia, la doppia comparsa del dodici e del suo inverso, ventuno, ha valore solamente per il calendario gregoriano, mentre la tripla successione di diciannove e la presenza di un diciassette, non sembrerebbe particolarmente suggestiva. Il 19 si ritrova connesso al ciclo di Metone, nel corso del quale le lune nuove ritornano esattamente alle stesse date, il sole, la luna e la Terra si allineano nella stessa posizione, le eclissi si ripetono nel medesimo ordine e nelle stesse condizioni, insomma una volta ogni 19 anni “giuliani” si ristabilisce l’equivalenza dei 19 anni solari con 235 lunazioni. Una normale gravidanza, dal momento del concepimento, ha una durata in giorni o settimane rispettivamente di 266 o 38, entrambi multipli di 19. Il pianeta Venere appare nel cielo per 266 giorni al mattino (Lucifero), poi cambia direzione orbitale e diviene “retrogrado”, apparendo per 38 settimane nei cieli serali (Vespero). Assieme alla Terra, Venere traccia un ciclo di cinque orbite in rapporto alle otto orbite terrestri, corrispondenti a 2920 giorni (5:8 è phi, ossia l’1,1618 di Fibonacci). Ogni 2920 giorni ci sono infatti 99 cicli lunari. L’Ottaedro calendariale greco, basato sulla connessione planetaria (femminile) Terra-Luna-Venere, determinava la ricorrenza di due Olimpiadi. Nelle cinque congiunzioni con Venere, la Terra disegna un pentacolo cosmico intorno al Sole, e così via di seguito.
L’Età dell’Acquario
Agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, l’editore Edoardo Bresci (1916-1990), di Torino, iniziò a pubblicare un’elegante rivista dedicata a “L’Età dell’Acquario”, diretta dal prof. Bernardino Del Boca (1919-2001), personaggio oltremodo poliedrico, raffinato disegnatore, grafologo, paleontologo e antropologo insigne, profondo conoscitore di filosofie orientali, occulta teosofia, spiritualismo, vegetarianismo, educatore libertario e grande maestro di esoterismo,
emissario della Fratellanza Sarmoung, nonché assertore del metodo della psicotematica, che riprende e svolge il cosiddetto “pensiero oggettivo” della scuola buddhista “mahayana”.
Del Boca sosteneva, tra un’infinità di dotti insegnamenti, che l’inizio dell’età dell’Acquario sarebbe coinciso con la riproposizione del dio slavo Svetovit (Signore Santo), o ?wiatowid (Colui che vede il mondo, da svet, mondo e vid, vista), rappresentato antropomorfo, con quattro volti, una spada o un arco nella sinistra, controlateralmente un corno dell’abbondanza (riempito di vino per predire il futuro nell’annuale cerimonia di Libazione, cristianizzata e parzialmente preservata nella Festa di San Vito), che stavano a rappresentare la sua sovranità su guerra e raccolto.
L’Acquario subentra al segno zodiacale dei Pesci, era iniziata come patriarcale, di Osiride, o di Gesù, di cui, in lettere greche, è acronimo: IXThYS (Iesùs Xristòs Theù Yiòs Sotèr), per effetto della precessione degli equinozi, dovuta allo spostamento dell’asse terrestre, che compie il suo intero giro in 25800 anni.
Oxlanh Baktun
I riferimenti epigrafici lasciati dai Maya per la fine di questo “tredicesimo” baktun, la stele di pietra (Monumento 6) di El Tortuguero e il mattone d’argilla di Comalcalco (entrambi nello stato messicano di Tabasco), sono stati interpretati del tutto recentemente. Il loro interesse è senz’altro relativo però alla capacità dei Maya di elaborare calendari dalla ciclicità scandita in maniera impeccabile, oltre che allo studio, in cui tali antiche popolazioni si erano applicate, del movimento degli astri, soprattutto di Sole e Venere. Ma nelle capacità di preveggenza si potrebbe scorgere anche una sapienza botanica e farmacologica di “induzione” alla chiaroveggenza, evidenziata, per gli sciamani del nuovo mondo, da Robert Gordon Wasson o Carlos Castaneda, ovvero di ancestrali conoscenze provenienti da miti catastrofici di difficile interpretazione, quale quello di Babele, Atlantide o del diluvio universale.
Alla fine della tredicesima (Oxlanh) era (Baktun), ciascuna di 3 cicli, ognuno di meno di 400 anni, intorno a 5125 in tutto, Ah-Bolon-Yoctè, Quarto Dio delle ancestrali “nove”, Bolon, divinità, tikù, (quindi Bolontikù, o Dèi Nove, della teogonia maya-tolteca, le quali, secondo la simbologia numerica, indicante le divinità con cifre, dopo gli Dèi tredici, od Oxlahuntikù, sono le divinità più importanti del Mondo Infero, o Mictlan), incaricato della guerra e della creazione, scomparso più di tremila anni addietro, predicendo però la sua riapparizione, dovrebbe ritornare a essere ospite di Bahlam Ajaw, un celebre capo Maya che governò dal 612 al 667 d.C..
Alla lettera Bahlam Ajaw vuol dire “principe custode“; insomma un antico monarca del passato, precursore, si risveglia per salutare e proteggere l’avvento di una divinità che dovrebbe tornare in carica. Queste vicende sono però fin troppo somiglianti a quelle raccontate da Nauha e Aztechi del XVI secolo su C? ?catl Topiltzin (Nostro Principe Uno-Canna), un re tolteco del X secolo, assimilato alla divinità mesoamericana Quezalc??tl (Serpente Piumato), allontanatosi alla ricerca del suo sacro luogo di riposo, oltre il mare, verso oriente, da cui promise di fare un giorno ritorno a Cholula, dove si trova la più grande piramide conosciuta. Cosicché, quando Hernàn Cortés sbarcò nel 1519, proveniente da est, da oltre il mare, e indossando un’armatura abbagliante, proprio come quella del dio, venne riconosciuto come tale, i potenti tlatoque, che legittimavano il loro malgoverno sulla base del mito del grande fondatore di Tollan, ne rimasero sconcertati.
Le analogie con la mitologia occidentale non mancano, se si pensa alla saga di Kyffhäuser, dapprima attribuita a Federico II, e poi anche al Barbarossa, detentore della Lancia del destino, derivazioni tedesche delle più antiche leggende britannico-celtiche di Artù, Merlino, Bran il benedetto, o di Find mac Cumail degli antichi irlandesi, o del careliano Väinämöinen del Kalevala. Non ne restarono esenti Carlo Magno, dormiente a Salisburgo, Costantino XI di Bisanzio, trasformato in statua dall’angelo, l’unno Csaba per gli székely, ?tefan cel Mare per i moldavi, Oggero per i danesi, Guglielmo Tell per gli elvetici oppure, per i Rastafariani, Hailé Selassié (“Potere della Santa Trinità”), ovvero (Ras Tafari Makonnen), duecento venticinquesimo discendente di Menelik, figlio di Salomone e Makeda.
Alla regina di Saba, quasi a conferma di quanto sostenuto nell’antico testo etiope Kebra Nagast (in lingua ge’ez: La Gloria dei Re), fa riferimento Gesù nel Vangelo di Matteo: “Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c’è più di Giona! La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone!” (12, 39-42).
I lunghi capelli aggrovigliati in dure ciocche (dreadlocks), che caratterizzano la chioma di alcuni fedeli, rappresenterebbero la materiale, facoltativa, realizzazione di un voto biblico, quello del nazireato (Numeri 6), pratica ascetica che comporta, oltre l’astensione dai cibi carnei e dagli alcolici, la consacrazione del proprio capo, con rinuncia alla tonsura e alla pettinatura, e riproduce le celebri sette trecce (Giudici 16: 13-19), a imitazione della criniera del leone, simbolo “cristico” e della tribù di Giuda. Nel Kebra Nagast un angelo invita la madre di Sansone a crescere illibato quel figlio, predicendo che avrebbe un giorno liberato Israele dai Filistei. Compiendo la sua missione, Sansone è come se, insieme con le colonne del tempio pagano in cui era recluso, avesse fatto crollare “un“ mondo, quello per cui era scoccato il momento della fine.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
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