La fiaba di Biancaneve ci espone una situazione di rivalità generazionale, in tema di bellezza e di seduzione, di potere e di suggestione, mediata dal pomo della “discordia” e della “tentazione”, e incentrata sul rapporto con l’altro anagrafico, e con lo “specchio”, riflettente o deformante, della realtà della trasformazione, dell’immagine corporea, della dismorfofobia.
La versione primitiva, la più arcaica, contrapponeva la figlia adolescente alla madre “cattiva”, a quell’aspetto negativo della femminilità che pure esiste ed è naturale. La strega, in questo caso, diviene la corrispondente femminile dell’orco, per come è stata affidata alla storia la vicenda della contessa Erzsébet Báthory, accusata di bagnarsi nel sangue di vergini per mantenersi un’epidermide sempre giovane e fresca.
In una trasposizione albanese, “Le sorelle gelose“, la morte viene causata da un anello magico e la rivalità è squisitamente sororale, come in Cenerentola. Nel classico poema epico indiano, “Padmavat” (1540), la domanda “chi è la più bella?” la regina Nagamati la rivolge al suo nuovo pappagallo.
L’adattamento dei fratelli Grimm, anche se nell’immaginario moderno influenzato da Disney viene ambientato nel castello bavarese di Ludwig e Grimilde ha le sembianze della margravia Uta degli Askani, si presta alle reinterpretazioni della condizione femminile, di cui rappresenta tormenti, aspirazioni, mediazioni e corvè. Le narrazioni di Aleksandr S. Puskin (Fiaba della zarevna morta e dei sette bogatyri , 1833, e la precedente Favola dello zar Saltan, di suo figlio il glorioso e potente bogatyr principe Gvidon Saltanovi? e della bellissima zarevna Lebed’, 1831, messa poi in musica da Nikolaj A. Rimskij-Korsakov), sono più eclettiche e incentrate sul tema del lutto e della nostalgia. Ma cavalieri (bogatyri) e principi, briganti, ladri o nani, al di là del subdolo richiamo fallico, osceno e prolifico, costituiscono il riferimento contrattuale contaminante con il genere maschile, essendo allo stesso tempo, in parte stupratori e partner, oppure paterni e protettivi, e dall’altra indifesi e da accudire.
La cura e l’affetto per la prole “settenaria”, compiuta, appagherebbe un istinto materno tutto da coltivare, secondo la nota tesi di Elisabeth Badinter (“L’Amore in più. Storia dell’amore materno”, Fandango, Roma 2012), e, per quanto insinua Betty Friedan, in “La mistica della Femminilità” (Castelvecchi, Roma 2012), dietro ogni stereotipo sociale, seppure di apparente emancipazione, si nasconde un’imposizione della logica utilitaristica.
Karlheinz Bartels ha suggerito un’influenza sul racconto da parte di avvenimenti realmente accaduti in Baviera (Bassa Franconia), intorno alla metà del XVIII secolo. Maria Sophia Margaretha Catherina von Erthal era la figlia del dirigente di una fabbrica di specchi (Kurmainzische Spiegelmanufaktur), il quale, due anni dopo essere rimasto vedovo, si risposa con Claudia Elisabeth von Reichenstein, che lo domina fino al punto di essere la sola ad avvantaggiarsi della posizione sociale di lui. I nani erano gli individui di bassa statura quale risultato della malnutrizione e povertà in cui versava la classe operaia sfruttata nelle vicine miniere di Bieber, vicino Lohr am Main.
Mentre per Lewis Carroll è la stessa Alice a crescere e rimpicciolire, per maturare e divenire adulta, la principessina perseguitata deve affrontare gli alti e bassi della vita. L’economia domestica prospettata alla giovinetta consentirebbe di sperimentare, in termini ludici, un futuro da brava massaia, secondo la narrazione di Emma Dante (“Gli alti e bassi di Biancaneve”, La Tartaruga, Milano 2012). Dall’alto rischio rappresentato dalla matrigna e dall’esaltazione di egocentrismo, narcisismo e invidia, alla modestia dell’abbassamento dello sguardo verso una giusta misura, e al giudizio di uno specchio magico che ridimensiona ogni sproporzione, a partire da quelle infantili, pena i minacciati, consueti “sette” anni di tribolazioni, che in fondo consentono il passaggio dalla fanciullezza alla piena maturità sessuale, confermata dalla perfetta ciclicità eptamerale, lunare mensile e venerea della gestazione.
Divenire madri non è una naturale predisposizione innata e la stessa nozione di amore materno nasce con l’evoluzione umana, trattandosi di un dono incerto, un sentimento fragile, un affetto imperfetto, da non presumere scontato, in quanto può non rintracciarsi affatto, oppure essere, come dice la Badinter, “in più”.
Per Helene Deutsch (“Psychoanalysis of the Sexual Functions of Women”, 1925), una delle cause iniziali della passività delle bambine sarebbe procurata dall’influenza inibente materna, che rafforza una primaria causa costituzionale determinata dalla diversa conformazione degli organi genitali. Da una primitiva bisessualità si passa alla differenza pulsionale della sottomissione, docilità, debolezza, bisogno d’aiuto e brama d’amore.
Essendo il comportamento sessuale degli individui ricalcato su quello degli organismi sessuali elementari, il maschio sarà aggressivo e ostinato come lo spermatozoo, attivo e mobile. La minore intensità dell’eccitabilità istintuale femminile si affianca a una certa inidoneità della clitoride a raggiungere, per esempio, scopi analoghi a quelli della masturbazione maschile. Fin quando non avviene il rimpiazzo da parte dell’organo ricettivo. La carenza organica di un’espressività agente si associa alla dipendenza di una funzione inerte senza un intervento esterno.
“Quest’assenza di un’attività vaginale spontanea costituisce il fondamento psicologico della passività femminile”. Così, inevitabilmente, l’aggressività stessa della bambina non può che rivolgersi all’interno, masochisticamente contro il proprio io, e, nel reprimersi, tradursi in bisogno di essere amata.
In età pubere, al momento del distacco dal vincolo materno, la passività erotica si rivolge alla figura paterna, inconsciamente vista come seduttore dal quale ci si aspettano iniziative.
“Il padre rappresenta il mondo esterno che esercita in modo incessante un’ulteriore influenza inibente sull’attività della donna e la rigetta nel suo ruolo passivo costituzionalmente determinato”.
Le componenti aggressive si tramutano in un atteggiamento masochistico generalizzato all’altro sesso e tali contenuti, masochisti, impregnano sogni e malcelate, apprensive attese di stupri, rapine, persecuzioni, umiliazioni, i quali, in ultima analisi, nascondono la necessità di essere desiderate. La simbologia fallica delle armi è nettamente evidente, almeno quanto quella dello scrigno violato, analogo all’oggetto prezioso di cui i ladri si vogliono impossessare.
A controbilanciare questa tendenza masochistica insorge però il narcisismo ricollegato alla fase primitiva della formazione dell’io, in cui la libido gli si attacca come oggetto. Col tempo l’amore verso se stessa accentua il desiderio di attrarre l’attenzione degli altri. La doppia funzione compensatoria del narcisismo femminile frena la pericolosità del masochismo e omologa l’inferiorità genitale; viene meno poi con la maternità, tant’è che, una volta gravida, potrebbe dedicare al bambino tutta la sua capacità d’amare. La tendenza masochista permane infatti indispensabile per affrontare le tappe della vita della donna legate a sofferenza e sacrificio.
“Se la donna è naturalmente portata alla sofferenza e per di più la ama, non c’è ragione per avere scrupoli. – scrive Elisabeth Badinter in “L’Amore in più. Storia dell’amore materno” (Fandango, Roma 2012) – Una teoria, questa, molto più pericolosa di quella teologica giudaico-cristiana che condannava la donna a soffrire per espiare il peccato originale. La maledizione aveva allora una giustificazione morale e il dolore fisico era il prezzo pagato per la colpa; nessuno chiedeva alla donna di amarlo. Nella teoria freudiana la maledizione è biologica: un’insufficienza organica, la mancanza del pene, è la causa della sua sventura… La donna normale ama la sofferenza. Quella che non la ama e si ribella alla sua condizione può solo piombare nella nevrosi o nell’omosessualità”.
La “donna femminile”, buona madre, concilia la disposizione narcisistica con la tendenza masochista e il desiderio di essere amata si trasferisce sul neonato sostituto dell’io. Le componenti che consentono di sopportare la sofferenza promuovono il sacrificio generoso, senza pretendere contropartite di sorta, che non siano le disinteressate e altruistiche “gioie della maternità”. Viceversa, sentenzia Helene Deutsch, in “Psychoanalysis of the Sexual Functions of Women” (1925): “ogni volta che il masochismo femminile e la sua disposizione attiva-materna al sacrificio restano inoperosi, la donna può diventare vittima di un masochismo più crudele provocato dal suo senso di colpa”.
La madre di Biancaneve desidera ardentemente di dare alla luce un’omologa. Dopo l’esperienza sessuale rappresentata dalla puntura con l’ago di ricamo, nutre la fantasia che la filogenia le offra il candore epidermico del manto nevoso, il nero dell’ebano, l’incarnato del sangue in un ideale di somiglianze che soddisfi il narcisismo gravidico funzionale al benessere psichico di quello stato.
La dinamica ambivalente materno-fetale oscilla tra il trattenimento-invasione e l’espulsione-rigetto. Inconsciamente lo stimolo è quello della riproduzione di se stessa per placare contemporanee angosce di perdita-castrazione nella ricomposizione di una precedente diade orale originaria. Alla fantasia narcisistica della somiglianza subentra un periodo di latenza in cui avviene l’avvicendamento da primitiva gestante a rivale matrigna.
Il distacco della figlia, con perdita del pene, diventa lutto non elaborato nel passaggio all’oggetto narcisistico sostitutivo, lo specchio. Grimilde non tollera l’autonomia del suo prolungamento fallico narcisistico separato, vissuto come potenziale persecutore, onnipotente e deprivante.
Più che nell’Edipo maschile L’angoscia di castrazione dell’Edipo femminile si alimenta dell’angoscia di annientamento tipica dello stadio iniziatico-orale. Il persecutore, genitore-matrigna-strega, possiede le valenze della madre edipica invidiata, detentrice del pene paterno e della capacità di mettere al mondo altri bambini, come pure della madre cannibalica distruttiva che attira e riassorbe in sé.
“La bambina piccola ha un desiderio sadico, che si origina nei primi stadi del complesso di Edipo, di depredare il corpo della madre di ciò che contiene, cioè il pene paterno, delle feci, dei bambini, e di distruggere la madre stessa.- annota Melanie Klein in “Infantile anxiety-situations reflected in art, creative impulse” (1929) – Questo desiderio fa nascere nella bambina l’angoscia che la madre la depredi a sua volta di quanto è contenuto nel suo corpo (specialmente bambini) e che distrugge o mutili il corpo”.
La riattivazione delle dinamiche edipiche, “sinonimo di sessualità-aggressività inconscia dell’uno o l’altro genitore verso il bambino”, che Silvio Fanti definisce “Oedipe II°”, si specchia nella relazione conflittuale ambivalente madre-figlia dell’Edipo precoce. Biancaneve replica la fissazione al nucleo narcisistico materno, aderendo ad analoghe angosce persecutorie di tipo orale, nell’assumere poi un oggetto (la mela, seno materno) che la invade internamente dopo averne sedotto l’infantile vanità.
La “buona” madre Donald W. Winnicott la descrive “naturalmente affettuosa”, prolungando la primitiva simbiosi intrauterina in una relazione che, sul piano psicologico, mantenga il legame emozionale, dopo il taglio del cordone ombelicale fisiologico, con un suo invisibile sostituto. La “preoccupazione materna primaria” ripiegherebbe su se stessa la puerpera, assimilandone lo stato alla dissociazione schizoide, ipersensibile, per meglio consentire ogni adattamento alle necessità del delicato pargolo. Se una tale identificazione non dovesse riuscire, le sua carenze affettive si ripercuoterebbero reattivamente sullo sviluppo del bambino, provocandone, per esempio, l’autismo.
“Per una donna che subisce una forte identificazione maschile, questa parte della sua funzione materna può essere particolarmente difficile da realizzare perché il desiderio del pene rimosso lascia poco spazio alla preoccupazione materna primaria”.
La prima prova d’amore è costituita dal gratificante allattamento al seno. L’allattamento migliore e più naturale, procacciatore di piacere, è ovviamente rispettoso delle richieste del figlio, ma una madre “naturalmente affettuosa” riuscirà “a stabilire dei ritmi regolari che le convengono non appena il bambino è in grado di tollerarli” (“The Child and the Family”, 1957).
La madre “naturalmente affettuosa” è pronta a qualsiasi esigenza del figlio, “senza fretta”, senza limiti, ma con una carica di entusiasmo che non renda ogni eventuale sacrificio “privo di vita, inutile, meccanico”.
“La salute dell’adulto si costruisce nell’infanzia, ma la base della salute dell’essere umano dipende dal vostro comportamento nelle prime settimane e nei primi mesi di vita del bambino… Godete di tutti quei sentimenti femminili che non sareste in grado neppure di cominciare a spiegare a un uomo… il piacere che potete ricavare dalla cura del bambino è di vitale importanza anche dal punto di vista del bambino stesso”. Tanto più questo comportamento sarà spontaneo, tante più fornirà al figlio esperienze utili a strutturare “la piena salute mentale”.
Melanie Klein arrivò ad affermare che “in psicanalisi, si troverà sempre, in individui allattati artificialmente, un desiderio profondo e mai soddisfatto del seno… in un modo o nell’altro, il loro sviluppo sarebbe stato diverso e migliore se avessero beneficiato di un allattamento soddisfacente. D’altra parte la mia esperienza mi porta a concludere che i bambini il cui sviluppo comporta dei problemi nonostante siano stati allattati al seno, si sarebbero trovati in caso contrario ancora peggio”.
Helene Deutsch chiama “aberrazioni” tutti gli allentamenti dell’istinto materno, dalla salvaguardia del seno alla nutrizione artificiale, dall’affidamento alla balia o alla bambinaia a ogni altro modo di “disfarsi del bambino durante il primo anno”. Eppure non tutte le donne sono materne per impulso naturale, soprattutto se non sono riuscite a escludere, oppure a sublimare, il desiderio del pene. L’incapacità a liberarsi di tale residuo “virile” lascia dei conflitti interiori ostili alla maternità. Non decrescendo, l’amore di sé non cede all’altruismo verso il neonato e l’io materno, distaccandosi dai compiti che ne derivano, lotta egoisticamente per soddisfarsi, con ambizioni personali, del tutto indipendentemente da un sia pur invisibile cordone ombelicale. Le sempre maggiori occasioni di sviluppo dell’io femminile al di fuori della riproduzione, grazie al compromesso dell’allattamento artificiale moderno, non hanno fatto altro che accentuare questa conflittualità.
Come in tutte le fiabe in cui la figura della “madre” si trasfigura in quella di un’ostile “matrigna”, in Biancaneve risulta ancora più esplicita quest’ambivalenza conflittuale e forse, proprio a tale motivazione deve la sua fama incondizionata presso le bambine. In essa scorgiamo sia la tensione provocata dalla gelosia, sia le polimorfe pulsioni pre-edipiche, come pure l’aggressività dello stadio successivo.
Nella rappresentazione di Grimilde si condensa l’ambivalenza emotiva in cui la bambina vede nella madre la donna ideale e desidera ardentemente essere come lei, per poi detronizzarla e trasformarla, nell’assecondare il desiderio di annientarla, invecchiandola prematuramente.
La figura della “matrigna” malvagia non è altro che la proiezione esterna dell’aggressività della figlia verso la propria madre, e l’allucinazione paranoica di Biancaneve sarebbe una conseguenza dell’omosessualità rimossa, prodotta da un eccessivo attaccamento alla madre, non risolto dall’identificazione.
L’omosessualità latente della paranoia femminile differenzia Biancaneve da “Cappuccetto Rosso”, dove il “padre”, castratore, diventa il Lupo. Evirare la femmina è compito del padre, mentre la madre ha a che fare con la vita, che, come dona, toglie. In altre saghe, è la madre a sparire fin dall’inizio, in Biancaneve invece è il padre a non comparire per niente e la madre usurpa il suo ruolo di eviratore.
Poiché nella paranoia femminile è tutto un problema di donne, a sostituire un padre, che brilla per la sua assenza, è la “strega”. Del resto, il suo compito sarebbe stato quello di attrarre la libido della bambina, indirizzatasi invece sulla figura genitoriale femminile.
Anche nella fiaba di “Cenerentola” il padre manca, ma, in compenso, la fanciulla “perde” la sua scarpina (verginità), in una sorta di precoce condensazione tra castrazione e deflorazione, insieme con una figura maschile sostitutiva, il Principe.
La tradizione attribuisce alla donna l’incarico dell’amore e della tenerezza, l’incarnazione della famiglia e della casa, mentre al padre quella dell’autorità, dell’ideale, della forza, del mondo esterno e della legge. Ma che “il padre riesca o no a conoscere il bambino” e “il bambino si renda conto che egli è vivo e reale”, per Winnicott, dipende sempre dalla madre, pur non essendo “continuamente presente”, è sufficiente per lui che lo desideri. Ma anche se i padri potessero dimostrarsi delle “madri” migliori, non possono mai sostituirle, perché è la madre la persona che il bambino in ogni caso amerà di più. Avendo due genitori, potrà contare sull’amore dell’una quando avrà in odio l’altro, e ciò contribuirà alla sua stabilità affettiva. Le argomentazioni di Winnicott si intessono sulla distinzione biologica dei ruoli, sulla differenza anatomica dello sviluppo del seno e sulla legittimità dell’allattamento materno.
La presenza del padre servirà alla stabilità mentale della madre. Ma anche se la funzione pratica della concreta presenza paterna sembra sminuita, non lo è affatto quella simbolica.
Il patriarcato ha determinato lo snodo della filiazione nominale. E, nell’inconscio del bambino, il sostegno della legge, e dell’interdizione dell’incesto, verrà raffigurato in ciò che Jacques Lacan ha definito “nome-del-padre”. Se questo venisse precluso, si troverebbe nell’impossibilità di porsi come soggetto, sia sociale che del discorso.
Se la madre non ha superato la fase pre-edipica, potrebbe scambiare il figlio per un “oggetto fantasmatico”, sostituto sessuale. Il bambino totalmente dipendente prolungherebbe indebitamente il rapporto di desiderio, cercando di soddisfarlo in ogni modo. Il compito del padre è allora quello di intromettersi nel momento giusto, per sostituire la diade con una relazione triangolare, in cui l’angoscia di castrazione si stempera nella rinuncia all’incesto. Essendo eterogenei, la legge proibizionista paterna e l’affetto materno non possono che essere incarnati da persone di sesso diverso.
La minore responsabilità paterna nei confronti dei traumi psichici del bambino è determinata dalla secondarietà di importanza di un intervento che sopravviene quando si instaura la dimensione linguistica, successiva a quella tattile, corporea materna. Patogenicità e “cattiveria” paterne sono state individuate nella fragilità e latitanza di maschi “che non sanno più imporre la loro legge”.
La madre è indispensabile fin quando il bambino non acquisisca la necessaria disinvoltura nell’entrare in contatto con estranei, a venticinque, ventotto mesi, con il linguaggio e la deambulazione. Pure se lasciare il piccolo al nido dovesse essere vissuto come un abbandono, la constatazione di un fallimento o un gesto egoistico. Ritardi psicomotori sono frequenti nel repentino, traumatizzante, cambiamento di persona che accudisce. Ciò spazza via i punti di riferimento dei codici gestuali e verbali.
“A ogni cambiamento – dice Françoise Dolto – egli è costretto a ricostruire una nuova e precaria rete di comunicazioni destinata a distruggersi a ogni successivo abbandono…”
La tensione della pubertà femminile si ripercorre anche in altre fiabe raccolte dai fratelli Grimm. “La bella addormentata nel bosco”, “muore” proprio nell’età critica, per venire resuscitata dal bacio del principe. In questa narrazione, la famiglia d’origine sembra presente e delle fate buone contrastano la maledizione di una che vendica un’offesa, comunque perpetrata contro l’imago materna, e dunque proiezione di una naturale aggressività edipica. Mentre, in Biancaneve, il vissuto è quello di vittima innocente di fatali cospirazioni e le tracce dell’aggressività primaria, all’origine del dramma, sfumano nell’omosessualità latente che scatena la paranoia.
Se, in un caso, il simbolo fallico è rappresentato dai sette nani, con cui Biancaneve si rapporta prima di assaggiare la mela avvelenata, “La bella addormentata nel bosco”, subito prima di morire, filava con un fuso, quello stesso fuso con cui le vecchie vergini Moire, nella mitologia greca, intessevano la vita umana (Orphicorum fragmenta), ovvero era occupata in un rapporto autoerotico con un proprio pene, con cui si punge, nella stessa mutilazione subita dai novizi, scomponendo la sintesi evirazione-deflorazione in due azioni separate.
Anche nel prologo della Favola dello zar Saltan, le tre sorelle filano con la vecchia Babaricha.
In tutti questi racconti, le protagoniste sono costrette in un ruolo passivo e dipendente da altri che venga a riscattarle dalla loro lunga “attesa” nel bosco del pene mancante. A differenza dei riti iniziatici maschili, dove “l’attesa” nel bosco ha la funzione di indurre alla rimozione, attraverso il trauma e una repressione violenta. Per poter risolvere la conflittualità pulsionale, le ragazze dipendono in toto dall’elemento maschile.
Biancaneve si inoltra nel “bosco”, un parallelo dell’Eden adamitico in cui viveva l’Eva primigenia, simbolo del genitale femminile, i cui fiori designano la verginità da cogliere, difesa dai sette nani apotropaici, sette come i corni di ariete che stringevano d’assedio Gerico e la Prostituta Sacra tra le sue mura, nonché strumento di rapporto autoerotico, e simbolo del pene verginale della donna prima che venga evirato dalla deflorazione. Dopo la quale, fecondata dal bacio del suo primo uomo (Adamo), il Principe, potrà rinascere nella fase vaginale successiva a quella fallica. Se, nell’avvertire i primi stimoli erotici, la femmina può arrivare alla scarica orgasmica attraverso l’autoerotismo, nello stadio vaginale necessita dell’intervento di un partner.
Nel racconto “Dodici fratelli” e nei “Sei Cigni”, al fine di riscattare dalla morte i consanguinei, la protagonista rimane muta per “sette” fatidici anni. Attraverso il mutismo, la sorella sostituisce la morte dei fratelli con la propria, invertendo l’azione di riscatto, che nella “Bella addormentata nel bosco” e in Biancaneve è prerogativa maschile. Freud, nel saggio del
1913: “Das Motiv der Kàstchenwahl” (Il motivo della scelta degli scrigni), evidenzia l’analogia tra il mutismo e la morte.
Nei “Dodici fratelli”, la fanciulla provoca la morte dei fratelli nel raccogliere dei fiori, simbolo virginale, come sottolinea Freud in “Die Traumdeutung” (1900), ricordando “che i fiori sono realmente i genitali delle piante”. A causa della masturbazione con il proprio simbolo fallico, seguendo quelle manifestazioni del complesso di castrazione femminile individuate da Karl Abraham, vengono dapprima condannati i fratelli, nell’assecondare quell’invidia del pene femminile e desiderio inconscio di evirarli, per impossessarsene, punito a sua volta col mutismo.
In un’unica sintesi, osserviamo il condensarsi della formulazione masturbazione femminile, invidia del pene maschile, fratricidio-evirazione dei fratelli, e propria morte quale suprema espiazione. Comunque, il rapporto autoerotico, punito severamente con la morte, precede il primo rapporto eterosessuale, implicante la deflorazione-evirazione, castigo e condizione indispensabile per una futura sessualità genitale.
Se nella prima infanzia la bambina nutre invidia per il pene dei fratelli, alla pubertà fantastica sui “riti di passaggio” maschili a lei preclusi. Ecco perché le fiabe di questo tipo costituiscono una specie di compensazione di tale frustrazione, consentendo anche alla giovinetta, in una sorta di catarsi narrativa, di esprimere le proprie tensioni irrisolte.
La morte apparente seguita dalla resurrezione, come la fuga con appagamento dei desideri, al di là del temporaneo aspetto ludico, rientra in un contesto procedurale di tipo iniziatico, che, come dice Mircea Eliade (Myth and Reality, 1964), conferma il significato ultimo del rito religioso, prospettando anche nella vita reale la possibilità di un lieto fine.
La maternità è stata posta al centro della natura femminile, divenendo un ineluttabile destino biologico, sostenuto dall’impulso sociale e da un istinto vitale conservato da una parte di animalità. Le donne che non procreano sono state bollate più che per la sterilità, per il narcisismo, l’egoismo, l’immaturità.
Il dogma funzionalista della distinzione dei ruoli e le teorie freudiane sul masochismo e la passività femminili sono state messe sotto accusa da Betty Friedan, in ”La mistica della Femminilità” (Castelvecchi, Roma 2012).
“Si è costruita tutta una mistica intorno alla madre. Si è improvvisamente scoperto che poteva essere ritenuta responsabile di tutto o quasi tutto. In ogni storia clinica di bambini caratteriali, in ogni caso di adulti nevrotici, psicopatici, schizofrenici, di affetti da mania suicida, di alcolizzati, di omosessuali e di impotenti, di donne frigide o angosciate, di asmatici, di ulcerosi, sempre si ritrova la madre. All’origine c’è sempre una donna infelice, insoddisfatta… una moglie esigente che perseguita il marito, una madre dominatrice e soffocante o una madre indifferente”.
Freud applicava pedissequamente alla società umana la sua teoria degli istinti. Mancandogli una prospettiva di comparazione non valutava i processi culturali per quello che sono in realtà, scambiando per caratteristiche universali della natura umana, semplici reazioni a un certo tipo di civiltà.
“Freud è stato un osservatore estremamente scrupoloso di molti importanti problemi della personalità umana. Ma nel descrivere e interpretare questi problemi, è rimasto entro i limiti della cultura e della società del suo tempo. Mentre creava un nuovo contesto per la nostra civiltà, non poteva sfuggire al contesto della sua”.
Il risultato si ritrova nella perpetuazione del passato e delle tradizioni, a cui restano ancorati gli ideali del super io, che solo molto lentamente cedono alle influenze dei nuovi sviluppi del presente.
Pierre David si è infatti domandato: “Quante famiglie riescono a resistere oggi soltanto perché durante una o più generazioni le donne si sono date il cambio nel sostenere questi uomini che si reggono solo in virtù di un nome, una facciata e delle apparenze?“ (“Psychanalyse et famille”, 1976).
L’insistenza sul comportamento della madre e sul padre simbolico, a scapito di quello in carne e ossa è stata interrotta da Françoise Dolto (“Lorsque l’enfant paraît”): “Non è mai attraverso il contatto fisico che si manifesta l’amore per il padre… Ma soprattutto il padre deve sapere che non è attraverso un contatto fisico ma attraverso la parola che arriverà a farsi amare e rispettare dai figli”. Egli deve “raccontare” il mondo esterno che si suppone conosca, spiegando le ragioni della sua “assenza”. La particolarità dell’amore paterno consiste nella realizzazione a distanza di una favola.
Giuseppe M. S. Ierace
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